lunedì 26 gennaio 2009

La città di Armin Greder


"Alberto Savinio scrisse un libro per raccontare quella che definiva la 'tragedia dell'infanzia', un libro in cui si opponeva ai bamboleggiamenti che soffocano i bambini. Sapeva le ragioni per cui ogni infanzia è pervasa da una totalizzante tragedia, conosceva l'ansia del tinello, l'angoscia del terrazzino, l'infido e tetro mistero della 'camera dei bambini'. La tragedia di cui parla Savinio è fatta di domande improvvise a cui nessuno potrebbe rispondere se venissero espresse: ogni bambino che viene al mondo è uno straniero in terra straniera, è giuridicamente un clandestino che sa di esserlo. Kenneth Grahame racconta di un gruppo di bambini che chiamano 'Olimpii' i loro adulti, perché nelle pagine di ogni 'mitologia per i bambini', gli dei appaiono come esseri bizzarri e astiosi, stralunati, inconcludenti e permalosi. Un mondo indecifrabile, tutto già fatto prima, tutto preesistente, tutto combinato in assenza di quel clandestino che è arrivato dopo, non ha documenti, non parla quella lingua e quando tenta di parlarla si vede rifilare strane espressioni demenziali come 'pappina', 'ruttino', 'nanna', che sembrano create per depistarlo verso una psichiatria della culla o una piccola nursery concentrazionaria. Anche Armin Greder - nella sua fiaba La città (Orecchio acerbo) -, come Savinio, usa i due linguaggi, quello delle parole e quello delle figure, ma soprattutto riesce a condensare, in un linguaggio solo e unico, gli apporti volutamente deformanti e nebbiosi di una specie di Eterno Espressionismo dove l'ansia, l'inconoscibile, il definitivo approccio con le cose ultime, come la morte, le ossa, la sepoltura, la fuga, trovano una ricomposizione suadente e perentoria. È questo l'orizzonte tematico - ovvero quello del doppio linguaggio - a cui approda, per salvarsi, anche l'infanzia, con la sua tragedia. Si è spesso discusso sul fatto di adottare o meno Halloween, festa ritenuta a torto colonizzante mentre è radicalmente e sentitamente nostra: ogni bambino (proprio come il bambino Kipling) porta con sé un osso e uno straccio, ogni bambino vorrebbe compiere il suo inevitabile tragitto pedagogico, dal Conte Dracula al Professor Piaget, ogni bambino sa che la morte non si esorcizza perché è parte della vita. E certo Greder possiede tutte queste consapevolezze. Le fiabe tanatologiche, mortuarie, crudeli, orrorifiche sono detestate dalla Pedagogia fin dai tempi di Platone, ma l'astio sapienziale dei pedagogisti si è storicamente sfogato, nella sua lucida interezza, contro le novelle raccontate da Regina Marcucci nel podere di Farneta, in Casentino. E certo i professori in cattedra, i Baron Samedi della didattica, non hanno mai potuto accettare neppure i titoli - non il contenuto - di quelle fiabe, perché La fidanzata dello scheletro, Il cero umano, Il barbagianni del diavolo, La morte di messer Cione aprono orizzonti pericolosamente infidi. Mia madre è morta nel novembre del 1944, mentre vivevo, a cinque anni di età, tra le nevi della Linea Gotica. Ebbi solo il conforto che ogni giorno mi offrì, nella sua canonica, il severissimo Arciprete di Savigno, alto, imponente, colto, inflessibile. Con Monsignor Minelli, io che sapevo già leggere, guardavo le figure di un immenso martirologio dei cattolici, ragionando sulle ragioni della loro capacità di resistere e sulle non ragioni dei loro efferati carnefici. Poi, nel 1961, maestro di ruolo al terzo anno di insegnamento, ebbi una quarta classe composta quasi interamente di orfani che vivevano in un poverissimo collegio situato nel territorio del Circolo Didattico a cui apparteneva la scuola. Ricordavo il novembre del '44, ero ancora amico di Monsignor Minelli, inconsapevolmente meditavo sull'edizione einaudiana delle novelle casentinesi che avrei poi fatta uscire tredici anni dopo. Orfano con gli orfani, trovai un territorio didattico che valeva per me e per loro: quello della linoleografia, nerissimo ambito espressivo in cui gli incubi sono sottoposti ad esorcismo, sono costretti, gli incubi, a farsi conoscere, a lasciarsi decifrare, a vuotare il sacco (quello di Kipling), a sottoporsi alle regole della decifrazione gutenberghiana. Ma, lo dico molto sinceramente, se avessi avuto allora La città di Armin Greder, avrei avuto davvero il sussidio didattico che a me serviva. Perché in questa fiaba dolente e salvifica, in questo testo che condensa e fa compenetrare parole e figure, ci sono gli echi di una tregenda che parlava, e parla, a me e a loro. Come ha scritto giustamente Stephen King, non si fugge dall'incubo, ma lo si contempla, e quando lo si è guardato, con la luce della conoscenza, si definisce un nuovo rapporto. Ciascuno di noi, in certe occasioni della propria vita, si trova a camminare con un sacco di ossa sulle spalle, ciascuno di noi cerca un camposanto in cui praticare una decente, onorevole sepoltura. Ciascuno di noi trova tre o quattro porte chiuse e sa di avere in mano la giusta chiavettina per aprire quella porta. Tutti abbiamo letto Virginia Woolf, così sappiamo che le porte chiuse si devono sempre aprire. Però la chiavettina è sempre insanguinata. Chissà se può aprire anche la porta della casetta che ha il tetto di marzapane." (da Antonio Faeti, Contemplare l'incubo salva i bambini, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/01/'09; sdalla postfazione di Faeti alla fiaba illustrata di Armin Greder)

L'isola di Armin Greder

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