mercoledì 4 marzo 2015

L'algoritmo sembra un racconto di Tolstoj




"In una lettera del 1839, il diciottenne Fëdor Dostoevskij scrisse al padre: «Che strana scienza la matematica, e che sciocchezza occuparsene». E quando da adulto dedicò alla geometria una pagina dei Fratelli Karamazov, non poté fare a meno che scriverne sciocchezze, appunto.
Il suo alter ego Lev Tolstoj disseminò invece sensate metafore matematiche in Guerra e pace, arrivando ad affermare: «Solo ammettendo all'osservazione quelle quantità infinitamente piccole che sono le aspirazioni degli uomini, e raggiungendo l'arte di integrare queste unità infinitamente piccole in una somma, come nel calcolo infinitesimale, noi possiamo sperare di comprendere le leggi della storia».
In che cosa risiede la misteriosa natura della matematica, la cui comprensione sfugge a un ex-studente di ingegneria come Dostoevskij, e si lascia invece catturare da un ex-studente di lingue orientali come Tolstoj? Anche se ci si sarebbe potuti attendere esattamente il contrario, essendo il primo un "veggente dell'anima", ossessionato dall'astrazione e perso con la testa nelle nuvole, e il secondo un "veggente del corpo", immerso nella concretezza e ben saldo con i piedi per terra?
A cercare di rispondere a queste domande ci prova una nuova serie di snelli testi del Mulino, curata da Alessia Graziano e intitolata Raccontare la matematica, che fin dal suo programmatico titolo sottolinea la contiguità e la continuità tra il "contare" matematico e il "raccontare" letterario.
Non a caso la citazione di Dostoevskij compare nella prefazione del primo volume della serie: Algoritmi, di Carlo Toffalori. E non a caso egli, già autore di due saggi su matematica e letteratura (Il matematico in giallo e L'aritmetica di Cupido, Guanda), fa subito notare come la parola "algoritmo" sia un anagramma di "logaritmo", quasi a voler appunto ricordare l'affinità tra i procedimenti matematici e quelli letterari.
Ma mentre "logaritmo" deriva dalle venerabili parole greche logos e arithmos , l'una e l'altra sovraccariche di significato, "algoritmo" non ha un analogo pedigree. È invece un adattamento del toponimo al-Khwarizm , e ricorda il luogo di nascita (la regione del Khorezm, nell'odierno Uzbekistan) di un celebre matematico del secolo IX, fiorito alla corte persiana. Dalla parola aljabr, "ricostruzione", che compariva nel titolo di uno dei suoi libri,deriva invece l'odierna "algebra".
Ed è proprio perché in quel libro di al-Khwarizm si trovano le prime esposizioni sistematiche dei procedimenti algoritmici oggi tipici dell'algebra, da un lato, e dell'informatica, dall'altro, che il suo nome è oggi diventato il loro sinonimo. Ma per secoli esso fu usato in un senso più ristretto, per indicare i calcoli aritmetici effettuati con il sistema posizionale inventato dagli Indiani e mutuato dagli Arabi, tra i quali lo stesso al-Khwarizm l'aveva divulgato in un altro suo influente libro.
In origine gli algoritmi non avevano dunque a che fare astrattamente con le equazioni o i programmi, ma concretamente con i numeri. E non è di nuovo un caso che il secondo volume della serie del Mulino sia Numeri di Umberto Bottazzini, che si propone di spiegare cosa essi siano e da dove vengano. Una storia, questa, altrettanto antica di quella degli algoritmi, e strettamente legata e complementare ad essa. Ad esempio, la parola "calcolo", che oggi indica appunto l'esecuzione di un algoritmo, in origine indicava invece un numero (o meglio, una pietruzza che serviva a rappresentare concretamente un numero).
Bottazzini è uno dei nostri più titolati storici della matematica, e agli ininumeri di quest'anno è stato insignito dall'American Mathematical Society dell'ambìto Whiteman Prize. Gioca dunque in casa nel raccontare gli sviluppi del concetto di numero: dagli intagli effettuati su ossa e bastoni dagli uomini primitivi, alle definizioni fornite dai filosofi della matematica di fine Ottocento. Tra questi due estremi egli vola sui contributi forniti da Egizi, Babilonesi, Greci, Indiani, Maya, Arabi e Cinesi, mostrando di passaggio l'universalità dell'impresa e del pensiero matematico.
Ma l'aspetto più interessante della storia del numero è che, per poterne parlare anche brevemente, come si prefiggono di fare i testi di questa nuova collana, bisogna comunque allontanarsi dal ristretto ambito dei numeri interi, e ampliare lo sguardo ad alcune delle loro estensioni che è stato necessario introdurre nel corso della storia.
I Pitagorici si erano infatti illusi, all'alba del pensiero occidentale, che i interi fossero sufficienti per trattare razionalmente l'astronomia e la musica, e più in generale la scienza e l'umanesimo. Ma ben presto si accorsero che il loro motto "tutto è numero intero" era solo una pia illusione, perché già nella geometria esistevano grandezze (come la diagonale e il lato del quadrato) il cui confronto non si poteva ridurre a un rapporto di numeri interi: cioè, a un numero "razionale".
I Greci non lo fecero, perché preferirono rimuovere il problema. Ma i moderni capirono in seguito che la sua soluzione stava nell'introduzione di un nuovo tipo di numeri, chiamati appunto "irrazionali". E altri problemi portarono in seguito all'introduzione di tutta una serie di nuovi tipi di numeri, ciascuno dei quali reca nel suo nome ("negativo", "immaginario", "complesso", "ipercomplesso", "iperreale", "surreale", "ideale", eccetera) le tracce del disagio psicologico da esso provocato al suo arrivo.
Quanto ai logaritmi, nel breve periodo tra la loro nascita e il loro battesimo essi vennero chiamati numeri "artificiali". Oggi invece si chiamano "naturali", a dimostrazione che la percezione di cosa sia artificiale o naturale in matematica, come in qualunque altro campo, cambia col tempo. E nel caso dei logaritmi cambiò proprio grazie a un algoritmo: quello che Isacco Newton e Nicolò Mercatore, l'uno all'insaputa dall'altro, trovarono tra il 1666 e il 1668 per calcolarli. Fu quell'algoritmo a permettere la compilazione delle famose tavole logaritmizi che, usate fino a qualche tempo fa da tecnici e scientifici di ogni genere per semplificare i calcoli complessi.
Ma mentre i numeri, di qualunque tipo essi siano, sono pur sempre oggetti matematici, gli algoritmi possono anche non esserlo. O, almeno, possono riguardare cose che non hanno nulla a che fare con la matematica. Toffalori mostra molti esempi al riguardo, notando come sono algoritmi la ricetta per cuocere un uovo al tegamino, l'istruzione per produrre il codice fiscale, il procedimento per determinare il giorno della Pasqua, etc.
Per i matematici, però, il bello dei numeri e degli algoritmi sta nel fatto che se ne possono fare delle teorie generali astratte, profonde e attraenti. Ad esempio, oltre a trovare algoritmi che risolvono certi problemi, quando ci sono, si può fare un salto di qualità e dimostrare che ci sono problemi che non si possono risolvere con algoritmi. In altre parole, nella matematica e nell'informatica esiste l'incalcolabile.
Addirittura, l'informatica è nata proprio dalla risposta data da Alan Turing, il protagonista del recente film The Imitation Game, al problema se esistono problemi senza soluzioni algoritmiche. Il che conferma, se ce ne fosse bisogno, che la matematica non è uno sterile gioco, ma una feconda impresa intellettuale, sulla quale vale sempre la pena imparare qualcosa. A partire, ovviamente, dai Numeri e dagli Algoritmi." (da Piergiorgio Odifreddi, L'algoritmo sembra un racconto di Tolstoj, "La Repubblica", 02/03/'15)

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Andrew Hodges, Alan Turing. Storia di un enigma (Bollati Boringhieri)