mercoledì 19 giugno 2013

Il libro illustrato del giardino


"Sottile, in camicia stretta in vita e calzoni, Vita «scava e scava ancora, poi annaffia e interra». Così annotava Virginia Woolf, incantata davanti all'amica-amante che in rose, ortensie e calle metteva una parte di sé (la più sensuale?). Per Vita Sackville West (1892-1962) quel giardino nel Castello di Sissinghurst, nel Kent, era una immensa, infinita scultura vegetale, alla quale dedicò anni, fatiche e grazia letteraria, racchiusa in un bel volume oggi ripubblicato da Elliot, Il libro illustrato del giardino. Scanditi in capitoli che corrispondono ai mesi dell'anno, con disegni di Freda Titford, i fiori di Vita compongono un calendario amoroso, dove i gigli Kaffir, le lobelie e le mimose persiane sono i protagonisti di una commedia erotica, in cui si avvizzisce, si resuscita, ci si accoppia, si muore. Nel giardino di Sissinghurst (creato da Vita negli anni Trenta, quando curava una rubrica di giardinaggio per l'Observer, da cui è nato il libro) si impara che l'iris predilige «il pacciame e la sabbia» e che le aquilege si incrociano tra loro «con un senso morale che lascia a desiderare». Non un banale passatempo, dunque ma, come per molti altri autori, il giardino integra la scrittura. Se Henry James trovava conforto nei suoi crisantemi, per Voltaire il giardino di Candido è una metafora del saper coltivare se stessi. Nella sua villetta di Meudon, Céline passeggiava tra il verde ben curato e Karen Blixen, mentre scriveva di tormente a Rungsted Kyst, in Danimarca, si rilassava tra le siepi e i pini di quello che poi sarebbe diventato il grande parco a lei dedicato. Prolifico, arguto e meravigliosamente snob, lo scrittore britannico Eden Phillpotts (1892-1960) si rifiutava di parlare di letteratura e accettava solo conversazioni sul giardinaggio. Non è così elitario, ma anche Sebastiano Vassalli ammette di trascorrere molto tempo a «curare il giardino» nel suo rifugio nella campagna novarese. Come ricorda Delfina Rattazzi nel suo libro Storie di insospettabili giardinieri (Cairo editore), Emily Dickinson coltivava rose, narcisi e dalie. Nondimeno, Charles Darwin si dedicava a orchidee e rampicanti. Il giardino ha catturato Stevenson e Monet, Paul Valery e Marguerite Yourcenar. Quest'ultima, in Scritto in giardino (edito nel 2004 da Il Melangolo) rifletteva sulla resistenza passiva dei fiori davanti alla violenza del mondo. Ma il più delizioso di tutti è stato il ceco Karel Capek, finissimo narratore, fiero oppositore del nazismo, che narrò le vicende di un coltivatore dilettante nel volumetto L'anno del giardiniere (Sellerio). In barba alla critica, che per tutta la sua vita disprezzò questa sua attitudine alla «scrittura leggera»." (da Roberta Scorranese, Vita come Voltaire e Karen: scrittori innamorati dei fiori, "Corriere della Sera", 15/06/'13)

Trame, festival dei libri sulle mafie


"Si parte domani con una giornata interamente dedicata alle donne. E poi si va avanti fino a domenica, con il ministro dei beni culturali Massimo Bray che discuterà della straordinaria bellezza della Calabria. In mezzo, per cinque giorni interi, cento ospiti si alterneranno sui palchi delle piazze di Lamezia Terme per affrontare il tema della criminalità organizzata attraverso la presentazione di 40 libri.

Quest'anno Trame, festival dei libri sulle mafie è un appuntamento al femminile, dedicato a "Quelle che resistono". In cartellone sessanta incontri letterari, musicali e teatrali, laboratori, proiezioni di film, reading. Al centro dell'edizione 2013, organizzata dalla Fondazione Trame, dall'Associazione Antiracket di Lamezia, dall'Associazione Italiana Editori e dal Comune ci saranno "loro": sindache, giornaliste, magistrate, scrittrici, insegnanti, mogli, madri, figlie, che con la loro determinazione, la loro forza e spesso con la loro ribellione stanno creando vere rivoluzioni sociali in Calabria e nel resto del Paese. Tanti i libri che parlano al femminile con autrici, testimoni, donne magistrato, rappresentanti dell'associazionismo impegnato nell'antimafia. Protagoniste come Maria Carmela Lanzetta ed Elisabetta Tripodi sindache di Monasterace e Rosarno, che hanno subìto attentati e minacce mafiose. E alle donne calabresi è dedicato anche il libro di Lirio Abbate "Fimmine Ribelli", che sarà presentato in apertura dal nuovo Procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e pm Alessandra Cerreti. Tanti incontri, senza tralasciare i problemi dei giornalisti a rischio di cui si discuterà in diverse occasioni negli appuntamenti curati da Ossigeno per l'informazione. Tra gli ospiti magistrati come Nicola Gratteri, Giancarlo Capalbo, Michele Prestino; studiosi del fenomeno mafioso come Nando Dalla Chiesa, Enzo Ciconte e Francesco Forgione e firme del giornalismo italiano come Attilio Bolzoni e Carlo Bonini.

Libri ma non solo. Gaetano Savatteri, direttore artistico della terza edizione del festival dopo Lirio Abbate, ha spiegato che quest'anno si è deciso "di esplorare altri territori rispetto a quelli della saggistica e del giornalismo d'inchiesta, allargando il discorso sulla legalità e contro le mafie ai linguaggi dell'arte, del cinema, della letteratura, della musica". E infatti il festival coinvolge artisti, registi, scrittori, musicisti per uno sguardo trasversale sui temi portanti della manifestazione. Ci saranno istallazioni artistiche, le proiezioni dei film di Roberto Andò, Mimmo Calopresti e Pasquale Scimeca e di documentari, come "Mafia Bunker" di John Dickie ed Elena Cosentino. Oltre ai libri d'inchiesta spazio alla letteratura con Gianrico Carofiglio e Mimmo Gangemi. Tra gli eventi il produttore cinematografico Gaetano Di Vaio presenta, in anteprima nazionale, il libro "Non mi avrete mai", scritto con Guido Lombardi sulla realtà delle periferie napoletane. Le mattinate del festival saranno poi dedicate ai giovani con cinque workshop tematici.

Per il sindaco Gianni Speranza "quella di Trame è una tradizione che si consolida". Che "diventa sempre più ricca e coinvolgente, cui prendono parte tanti ragazzi di tutt'Italia che a Lamezia lavorano, studia e s'informano". Il sindaco mette l'accento sulle donne "che in Calabria e nel Paese stanno dimostrando di essere il vero motore della società, nella lotta alle mafie e non solo". Savatteri ricorda infine a Lamezia prende voce "l'altra Calabria e l'altro Sud, quello di chi lotta ogni giorno per il riscatto della propria terra, di chi ci mette la faccia sui posti di lavoro e nella vita quotidiana". (da Giuseppe Baldessarro, La forza delle donne quante "Trame" da leggere, "La Repubblica", 18/06/'13)

sabato 15 giugno 2013

No Web


"Quattro uomini tra i 30 e 45 anni, cravatte strette, camicie a quadri, niente giacca. Pranzano da Friedman's Lunch dentro il Chelsea Market nella parte bassa di New York. C'è qualcosa di insolito che attira lo sguardo: i loro smartphone sono impilati al centro della tavola. Dove una volta c'erano i fiori, c'è un totem tecnologico. Ma non è adorazione, è un esorcismo. I quattro si stanno sfidando al gioco più in voga nelle ultime settimane: si va al ristorante, si mettono i telefonini in vista e il primo che tocca il proprio per rispondere o controllare una e-mail paga il conto. Kim e i suoi tre amici sono ingegneri informatici che lavorano da Google che ha la sede lì a due passi. E la roulette è un'invenzione appunto della Silicon Valley.
Michael e Barbara sono due professori, lui insegna all'università, lei alle elementari. Vivono nel North Carolina e stanno decidendo in questi giorni dove godersi le vacanze. Discutono su tutto, tranne su una cosa: ovunque andranno la parola d'ordine è "non fare niente".
E oggi per non fare proprio niente c'è una sola strada da percorrere: staccare la spina, spegnere Internet. Con uno slogan vincente: l'arte della disconnessione è la nuova tendenza americana. E la ragione è semplice. L'onda è uno tsunami: coinvolge tutti noi, che per lavorare abbiamo bisogno della tecnologia. Persone che, in meno di una generazione, sono passate dal fascino della connessione alla voglia di fuggirne prima che sia troppo tardi. Ci sono malattie nuove che hanno costretto i medici ad aggiornare il loro vocabolario: nomophobia (la paura di non aver segnale) o l'acronimo Fomo (che sono quelli spaventati da perdersi una e-mail, un post di Facebook). Gli ultimi studi rivelano che stiamo smarrendo la capacità di guardarci negli occhi. In teoria, secondo la scienza, abbiamo bisogno di 60/70 secondi per accendere un'empatia, ma ora, a causa dei nostri dispositivi digitali, siamo scesi ad una media che va dai 30 ai 60. «Tra i giovani è ormai dato per acclarato che si può stare assieme senza guardarsi in faccia, controllando di continuo il proprio telefonino», dice Noah Zandan, un esperto di dinamiche sociali. È un danno umano, ma persino economico tanto che nascono corsi per insegnare ai manager a riprendere a fissare negli occhi i loro interlocutori. E alcune aziende offrono incentivi a chi abbandona il proprio cubicolo in ufficio per andare a incontrare i colleghi. La Intel invece obbliga i ricercatori ad alcune ore alla settimana di black out informatico per ricaricare le pile e pulire la mente. I benefici sono enormi: quando si ritorna dal viaggio dentro questo rilassante buco nero l'efficienza aumenta sino all'80%. Come spesso accade, la cura nasce dove il problema è più acuto.
Robin Sloan usa una vecchia penna Bic, scrive su un block notes e per telefonare si affida a un modello preistorico. Legge solo libri di carta e adora sfogliare i giornali. Ed è uno dei migliori strateghi della Rete, grande esperto di Twitter, new media e giornalismo digitale. Quando si mette a scrivere il suo primo libro scopre che l'assedio digitale è insopportabile, gli porta via tempoe fantasia e così decide di spegnere tutto per qualche ora al giorno. Abitudine che gli rimane anche finito il saggio: «Il mio esperimento è stato un successo: certo guardo ancora la posta, ma non mentre bevo il caffè o sto parlando con qualcuno. Mi sento come se avessi imparato qualcosa di decisivo».
Even Sharp è il fondatore di Pinterest, la piattaforma digitale per la condivisione delle immagini. Uno che sull'essere connessi ci ha costruito una fortuna, la sua. Ma ora sente il bisogno di fermarsi. «Figuratevi se io posso essere contro la tecnologia. Non potrei vivere senza il mio smartphone, ma penso che sia giusto e salutare prenderci delle pause». E così lui e la moglie almeno un weekend al mese si concedono due giorni e mezzo senza Internet. Cercano sulla mappa dove il telefonino ha poco campo, salgono in auto e via verso la libertà. Gli americani passano oltre otto ore e mezzo davanti a un video, tempo raddoppiato dal 2005 al 2009 e in continua ascesa. Gli adolescenti ricevono quasi cento messaggini al giorno e tutti noi buttiamo l'occhio sul nostro smartphone oltre 150 volte. «Il vero problema è che usiamo gli stessi oggetti sia per lo svago che per il lavoro. Leggiamo una e-mail del nostro capo e un minuto dopo siamo sempre sullo stesso dispositivo a cercare il ristorante per andare a cena con gli amici: non distinguiamo più. Sono cadute le barriere che una volta separavano i vari momenti della nostra giornata e questo ci crea disturbi di attenzionee ansia», spiega Janet Sternberg, docente alla Fordham University di New York.
Da qui la reazione.
C'è un libro che è diventato di culto per i fautori della vita "unplugged". Si intitola The Winter of Our Disconnect, l'inverno della nostra disconnessione, e l'ha scritto due anni fa Susan Maushart. Su Amazon sta vivendo una seconda giovinezza. È la storia di una mamma «che dormiva con l'iPhone sotto il cuscino» che decide di tornare all'antico e spegnere i gadget dei suoi tre figli.
«All'inizio fu un incubo, loro non mi ascoltarono neanche, troppo presi dai giochi elettronici o altro.
Poi, piano piano, scoprimmo piaceri che avevamo perduto», racconta lei. E adesso sono sempre di più i genitori che seguono l'esempio. George ci prova in vacanza, in spicchi limitati di tempo: niente cellulari a tavola, niente nelle camere da letto. E anche per lui è come riaprire gli occhi: «Quando sei l'unico non connesso ti accorgi di quello che succede attorno a te. C'era gente che si portava il tablet anche nella sauna della Spa». E il mercato del divertimento si adegua. La catena di hotel Marriott è la prima grande società che offre pacchetti "Internet free" ai propri clienti. Ci sono zone dove non c'è il wifi ed è vietato l'uso dei gadget tecnologici. Oasi di pace nate dopo che un sondaggio ha rivelato che ben l'85% delle persone è infastidito dall'invasione tecnologica e che il 31% ha pensato almeno una volta, dopo l'ennesima comunicazione di lavoro, di gettare il proprio telefonino in acqua. E le cronache raccontano di un bagnino di un piccolo resort in Florida applaudito con una standing ovation dai clienti a bordo piscina dopo che aveva invitato un signore a spegnere il cellulare perché in quella zona era vietato.
Aumentano i corsi e i manuali che insegnano le regole base per disintossicarsi. Alcune al confine tra il pratico e il ridicolo: dimenticarsi il carica batterie quando si parte. Altre più realistiche, come decidere che alcune stanze della casa sono denuclearizzate, oppure che ci sono fasce orarie in cui la tecnologia riposa nei cassetti. Si spiega alla gente come staccare i vari "alert" o disattivare Twitter, Facebook, e-mail e sms lasciando invece in funzione la possibilità di ricevere chiamate per le emergenze: «Tanto le telefonate sono così in disuso che nessuno vi disturberà».
E siccome Internet tutto crea, tutto distrugge e tutto ricrea sono sempre di più le applicazioni che aiutano chi vuole prendersi una pausa. I blog dal titolo The art of disconnecting in un apparente paradosso sono i più cliccati. E su Internet un'agenzia immobiliare con un forte senso dell'umorismo mette in vendita case «in zone dove il telefonino prende poco e male».
«Non penso sarà la solita moda passeggera, risponde ad un'esigenza fondamentale per la nostra vita: trovare tempo per noi. Non per fuggire in campagna ma per fare meglio quello che dobbiamo fare negli altri giorni», dice Janet Sternberg. Al tavolo del ristorante di Manhattan un cellulare vibra. La pila rischia di crollare. I quattro incrociano gli sguardi. Un duello da Far West. Poi allungano le mani in contemporanea, di scatto, e quasi sradicano l'oggetto del desiderio, perché, nonostante la rima, è molto più difficile smettere di telefonare che di fumare". (da Massimo Vincenzi, No Web/1, "La Repubblica, 05/06/'13)

I ragazzi Burgess


"Elizabeth Strout è una delle scrittrici più profonde e raffinate della scena letteraria americana. Schiva, ironica ed estremamente acuta, vive nel Maine, limitando le frequentazioni sociali: il mondo culturale newyorchese è una realtà con cui si confronta a piccole dosi e con la massima cautela, mentre il mondo rurale dello stato in cui è nata rappresenta il retroterra imprescindibile di una commedia umana nella quale sa individuare con ammirevole capacità introspettiva splendori e miserie, speranze e delusioni. Non è un caso che nelle sue storie ci siano personaggi ricorrenti. Prima che un piacere, la scrittura per la Strout rappresenta una necessità catartica, che lei affronta con rigore quasi monastico: da questo punto di vista, il suo lavoro è paragonabile a quello di Alice Munro e Annie Proulx. In questi giorni è uscito per Fazi I ragazzi Burgess, pubblicato a cinque anni di distanza da Olive Kitteridge, la raccolta di racconti che l'ha resa celebre e con cui ha vinto il Pulitzer. Le recensioni americane sono state ottime: il Washington Post ha scritto che "il libro dimostra come il lavoro di questa straordinaria scrittrice continui a evolvere e migliorare" e il Boston Globe
lo ha definito il suo "romanzo migliore". E se il New York Times ha espresso riserve su alcune soluzioni narrative, Time è arrivato a paragonarlo a Pastorale Americana di Philip Roth. I due libri sono in realtà diversissimi, ma è analogo il senso ineluttabile di declino che investe i protagonisti, e la descrizione, all'interno di una comunità provinciale, di avvenimenti tragici e violenti che finiscono per travolgere personaggi ad essi estranei.

I ragazzi Burgess ha una scrittura cristallina e un tono sobrio, asciutto, che consente alla Strout di essere particolarmente efficace nelle descrizioni psicologiche dei protagonisti: Jim Burgess, un avvocato di grande successo e straordinaria popolarità mediatica; il fratello Bob, che vive nella sua ombra ed esercita la stessa professione con pochissime gratificazioni, e la sorella Susan, amara e terribilmente sola, il cui figlio Zach si è messo nei guai lanciando una testa di maiale in una moschea durante le celebrazioni del Ramadan. Questo gesto sconsiderato, che il ragazzo non riesce neanche a spiegare razionalmente, riunisce la famiglia, e costringe i componenti a confrontarsi con un tragico incidente nel quale molti anni prima aveva perso la vita il padre.

"Quando ho letto che citavano Pastorale Americana a proposito del mio libro mi sono sentito lusingata e ho provato un'enorme emozione", racconta la scrittrice. "Roth è un grande maestro, e credo che uno degli elementi in comune con il mio romanzo sia l'ambientazione in una comunità chiusa, nel quale l'elemento razziale finisce per imporsi irreversibilmente ".

Da dove nasce il suo libro?
"Non riesco a rispondere razionalmente: so solo che era da molti anni che avevo abbozzato la storia di un incidente che sconvolge le vite di alcuni personaggi, ma che diventa un tabù. Ogni piccola città ha la sua tragedia, e nella mia c'era quella di un ragazzo che aveva ucciso per sbaglio il fratello. Io conoscevo la sorella dei due ragazzi e da piccola mi inquietava il fatto che di quel dramma non si potesse parlare".

Immagini di essere un'aspirante scrittrice che deve vendere I ragazzi Burgess a un editore: come lo descriverebbe?

"La storia di uomini e donne che sono costretti ad affrontare un dolore rimosso dal quale si sono illusi di poter sfuggire. E che ora possono crescere, sapendo che con ogni probabilità sbaglieranno di nuovo ".

Samuel Beckett diceva "prova di nuovo, sbaglia di nuovo, sbaglia meglio".

"È una massima che riassume perfettamente il senso ultimo di un romanzo che vuole interrogarsi sul rapporto tra tempo e dolore, responsabilità e fuga".

Ancora una volta ambienta una sua storia nel Maine.
"È il luogo nel quale sono nata e vivo. I miei antenati si stabilirono qui nel 1603. Provengo da un mondo puritano, dove non si parla dei dolori personali".

Il suo protagonista Jim è un uomo di legge di grande successo: come suo marito, che ha lo stesso nome, ed è stato procuratore generale del Maine.
"Ho iniziato a scrivere il libro prima di conoscere mio marito. Il personaggio è nato con quel nome e non sono riuscita a cambiarlo. Immaginavo che molti lettori lo avrebbero identificato con lui, ma cambiare il nome di Jim Burgess mi sembrava in qualche modo snaturarlo. Molti pensano che sia il personaggio meno simpatico, ma io lo amo particolarmente per il dolore che si porta dentro".

Uno dei temi del libro è l'isolamento all'interno della famiglia, un tema affrontato da molti autori, tra cui Jonathan Franzen.

"È un tema che mi ha sempre affascinato, e il fatto che sia comune ad altri ci deve invitare a riflettere sulla nostra società. Tuttavia spero che il libro dica qualcosa anche sul fatto che il passato non finisce mai di parlarti e a volte perseguitarti. Così come dei conflitti razziali che esplodono in un microcosmo".

Lei ha seguito un procedimento opposto rispetto a molti autori, passati dal romanzo al racconto: come mai?
"Non so spiegarmi l'attuale proliferare di libri di racconti, specie in un mondo dell'editoria che non li ha mai prediletti e che oggi vive una crisi generale. Questa storia è nata da sempre come un romanzo. Prima di questo ritorno, i racconti, molto popolari negli anni Settanta, sono stati tenuti in vita da grandi scrittori come Alice Munro".

Pensa che ci sia qualcosa di prettamente femminile nella sua scrittura?

"Non sono in grado di dirlo, ma certamente il fatto che io sia una donna ha un ruolo imprescindibile. La sua domanda mi ha fatto venire in mente che uno degli autori che ho apprezzato maggiormente negli ultimi tempi è la scrittrice italiana Elena Ferrante. Ho letto con molta sorpresa che non si sa nulla di lei e che c'è chi dice che dietro il nome di questa eccellente autrice possa in realtà nascondersi un uomo".  (da Antonio Monda, Elizabeth Strout e I ragazzi Burgess. "Altro che Roth, amo Elena Ferrante", "La Repubblica", 14/06/'13)

Elizabeth Strout: By the Book (The New York Times)

Perché l'amore fa soffrire


"Si può immaginare Catherine di Cime tempestose lamentarsi via social network della scomparsa di Heathcliff, scatenando la solidarietà di centinaia di blogger? Oppure Emma Bovary in seduta face to face dallo psicologo? Sono più o meno questi gli scenari che la sociologa israeliana Eva Illouz lascia intravvedere in un impegnativo volume sull'amore, Perché l'amore fa soffrire  (il Mulino). Il libro è in tutto e per tutto un saggio, con piglio e apparato accademico, che, pubblicato negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia è diventato un caso editoriale, conferendo all'autrice lo status di una teorica rivoluzionaria (sarà tra i relatori del Festival Filosofia di Modena, in settembre). Si vede che Warum Liebe weh tut. Eine soziologische Erklärung (nell'edizione originale tedesca il titolo proseguiva con: «una spiegazione sociologica»), perché l'amore faccia soffrire è argomento che ancora tocca nervi sensibili, anche se da quell'amore romantico celebrato dalla letteratura di fine Ottocento e dalla Hollywood del secolo scorso sembravamo esserci smarcati.

Il problema nuovo, pare sostenere il testo, è proprio in quell'enorme e malinteso uso della libertà emotivo-sessuale-sentimentale, che allorquando pareva salvarci da struggimenti per relazioni incontrollabili (soprattutto da parte delle donne) quali matrimoni non desiderati e non più negoziabili, amanti che non potevano essere dichiarati, solitudini protratte nell'attesa di una lettera che non giungeva, proprio in quel momento lì, la conquistata libertà si rivelava come ingestibile e quindi generatrice di nuove afflizioni. Le donne moderne non potevano scegliere.

Le donne post-moderne non sanno cosa scegliere, data l'enormità dell'offerta, e se scelgono qualcosa che finisce (qualcuno che le lascia) si sentono inadeguate. Come se fosse tutta e solo colpa loro (o del partner), mentre nella prospettiva sociologica dell'autrice la sofferenza emotiva è in relazione, seppur in modo complesso, con l'organizzazione del potere politico ed economico.

Dichiarato e insistito è il tentativo di applicare all'amore romantico ciò che Marx ha applicato ai beni: mostrare che le pene d'amore sono determinate dai rapporti sociali, che non circolano liberamente e senza restrizioni, e che concentrano in sé le istituzioni della modernità. E se la libertà in economia non dà sempre risultati sostenibili, perché non dovrebbe essere vero anche per l'amore? Questo non certo per raffreddare l'argomento, bensì per proteggere le persone coinvolte nelle pene del cuore da un esagerato senso di colpa, per comprendere che non si tratta di fallimenti individuali, con conseguente drammatica demonizzazione del sé, bensì di variabili e costanti che possono essere discusse in un insieme più ampio.

Il malinteso, suggerisce ancora il testo, quello che oggi precipiterebbe Anna Karenina in una semplice Bridget Jones (evitandole quindi, però, l'impatto con il treno ...), è stato veicolato proprio dall'avvento delle teorie freudiane: la cultura del nostro tempo insiste nell'affermare che il mal d'amore è solo conseguenza di maturazioni psichiche insufficienti o lacu-nose. Ovvero: le sofferenze sentimentali sono inevitabili e auto inflitte, ci scegliamo per analogie o contrappassi con noi e i nostri genitori ... Inoltre vi è tutta una terminologia fuorviante che accompagna il malinteso, come la teoria che le donne vengano da Venere e gli uomini da Marte, cioè che siano insiemi irriducibili per natura, e non per dettami sociali, l'uno all'altro. La psicologia ha assunto un ruolo cruciale nel delegare tutto ciò che riguarda l'esperienza sentimentale ed erotica unicamente alla responsabilità dell'individuo, forse perché d'altro canto offriva la speranza di poterle risolvere.

Ma a starci troppo, sul lettino dello psicologo, si assiste a un processo di 'distacco' non meno doloroso di quello del Dottor Zivago quando guarda scomparire la slitta di Lara dietro dune di neve: emergono autonomia, edonismo, cinismo e ironia. A questo punto, attenzione: se al lettore (come a chi scrive) queste ultime dovessero sembrare categorie salvifiche ancorché ego-centrate, e talvolta persino divertenti, l'autrice mette in guardia dal goderne: è qui infatti che l'amore romantico diviene il luogo di un processo paradossale. Perché se l'amante moderno è infinitamente meglio equipaggiato per gestire esperienze reiterate di abbandono, proprio per questo, poiché si pensa di essere più attrezzati, meno si tollerano i dubbi e le incertezze implicati nell'amare. Insomma è vero che i femminili sono pieni di posta del cuore, e i talk show aiutano a sentirsi meno soli, ma non si soffre per questo di meno: si soffre comunque molto, anzi quanto e come Lucia ne La Boheme. L'unica differenza tra il suo dolore e quello di Carrie in Sex and the City risiede nella coloritura e nella consistenza dello stesso.

Ed ecco che dunque l'infelicità sentimentale dell'uomo e della donna contengono, rappresentano e mettono in atto gli enigmi della modernità. Ma allora se la libertà non è un valore astratto bensì una pratica culturale istituzionalizzata e condiziona la scelta; se la scelta genera fobia da impegno; e l'impegno mancato genera perdita di valore; e la perdita di valore rigenera una nuova categorizzazione costellata di sprezzante ironia: una speranza la Illouz ce la dà? Nelle conclusioni (ma non come conclusione) arriva, più che una speranza, una formula: «Quando l'uomo o la donna, siano essi impegnati in una relazione omosessuale o eterosessuale che sia, onorano gli impegni di parità, libertà, ricerca di soddisfazione sessuale, dimostrazione di attenzioni e di autonomia al di là del genere, allora la loro relazione è felice". Chi? Come? Quando?" (da Valeria Parrella, Le conseguenze dell'amore.  "La Repubblica", 12/06/'13)

Valeria Parrella su IBS

lunedì 10 giugno 2013

Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur


"Se la storia del l'uomo è ormai diventata quella delle sue città, bisogna dire che mai come nel Novecento la filosofia ha trattato di simili temi. Dalle analogie avanzate da Wittgenstein sul rapporto fra linguaggio e metropoli, alle ben più vaste considerazioni di Heidegger sulla differenza fra abitare e costruire, la città ha occupato un posto rilevante nella riflessione contemporanea. Lo dimostra Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di Franco Riva (Castelvecchi). L'opera del grande studioso di ermeneutica, morto pochi anni fa, uscì nel 2008 da Città Aperta, ma ritorna ora con un ampio apparato tematico e una nuova introduzione di Riva, vero libro nel libro, che analizza la contrapposizione tra il decostruzionismo di Lyotard e Derrida da un lato, e la rilettura del costruire in senso narrativo di Ricoeur dall'altro. Ma veniamo ai quattro testi (escludendo l'ultimo, che l'autore stesso chiama una "semplice nota"), sulla base di un commento di Carmelo Schillagi e del gruppo di studio Petra Dura. Il primo capitolo suggerisce come l'architettura sia per lo spazio ciò che la narrativa è per il tempo. Nella stessa maniera in cui l'architettura agisce sullo spazio per modificarlo, la narrativa interviene sul tempo per organizzarlo. In tal senso, concetti di durata e durezza si rivelano affini. «Se la scrittura conferisce durata alla cosa letteraria, la durezza del materiale assicura durata alla cosa costruita». Tuttavia, benché definibile come "pietra che dura", l'architettura è solo una conquista provvisoria, sotto gli assalti della natura e dell'uomo. Ma ecco la grande mossa di Ricoeur: egli propone infatti di applicare all'arte del costruire gli stessi parametri cari all' arte del narrare, ossia i concetti di prefigurazione, configurazione e riconfigurazione. L'esito di tale operazione si rivela tanto complesso quanto suggestivo. Assai più semplice appare invece il secondo testo, un'intervista del 1994. Qui l'autore sostiene che la sopravvivenza della città, messa costantemente e fondamentalmente in pericolo (secondo l'intuizione di Hannah Arendt), dipende soprattutto da noi. Poiché la città costituisce un progetto rivolto all' avvenire, la nostra responsabilità starà nel sorvegliarne la crescita, senza abbandonarla agli specialisti. Infatti, per Ricoeur, l'architettura non può né deve rientrare tra i saperi scientifici. In tale prospettiva, essa assomiglia alla politica, la cui gestione non è delegabile a tecnici. Vediamo perché: «Il politico è predisposto a dei mali caratteristici per il fatto stesso che sembra capace di esistere al di sopra di noi o, al limite, contro di noi. In quanto puro fenomeno di potere può perciò corrompersi, indipendentemente dalla sua base sociale ed economica. Per questo il politico deve rimanere sotto sorveglianza» (quando si dice l'attualità del filosofo ...). Arriviamo così al terzo testo, dedicato ai quattro requisiti di ogni centro urbano da cui derivano altrettante patologie. La prima dipende dalla moltiplicazione delle relazioni e degli scambi. Dato che la città rappresenta un crocevia di persone, il rischio insito in tale struttura risiederà nell' anonimato delle relazioni, come risposta a un mondo sovraccarico di impulsi. La seconda malattia deriva invece dalla mobilità accelerata, ed è legata al pericolo di un disorientamento e di una perdita del centro. Diversa l'aberrazione successiva, che consiste nel ben noto "fenomeno canceroso" della burocrazia. Quanto all'ultimo guasto urbano, esso discende dal predominio della tecnologia, davanti a cui l'abitante potrebbe finire per sentirsi un semplice ingranaggio in un contesto alienato e privo di progetto comune. Sono passati quasi vent'anni dalla stesura di queste pagine, eppure lo sguardo del pensatore protestante non ha perduto nulla del nitore con cui seppe guardare al nesso architettonico fra uomo, spazio e tempo." (da Valerio Magrelli, Perché i tecnici non sono utili alle nostre città, "La Repubblica", 09/06/'13)