lunedì 29 aprile 2013

Noi scrittori e i nostri ''nativi''


"La carta batte - anzi straccia - il digitale, almeno per ora. I numeri parlano chiaro: #Natidigitali, una ricerca online (di Filastrocche.it, Mamamò, Happi e Nati per Leggere) che ha esplorato le abitudini di lettura delle famiglie italiane racconta che oltre il 60% dei genitori preferisce ancora leggere ai propri figli libri cartacei. Che solo il 30% ha usato libri digitali (app, pdf, ePub, eBook); che quasi il 18% è contrario e che il 14% non sa che esistono libri per pc o device mobili pensati ad hoc per bambini.

Entrando nelle case degli «scrittori con figli» la tendenza è confermata: lunga vita alla carta, ma con qualche sorpresa. Per Antonio Scurati, infanzia e libro vanno d'accordo solo se a unirli è la carta: «I bambini - dice pensando a sua figlia Lucia, 4 anni - vogliono reggere il libro tra le mani, mentre glielo leggi, scorrere il ditino sulla parola e strappare una pagina se li rende tristi». E aggiunge: «Il digitale arriva dopo. E in quel momento qualcosa va perduto». Luca Crovi, scrittore e conduttore radiofonico, si assume la «colpa» di aver cresciuto bambini (quattro, di età tra i 9 e i 5 anni) che cui piace, ancora, il libro da sfogliare.

«L'approccio è anzitutto tattile. Partono dal contatto fisico con l'oggetto-libro e poi passano alle immagini». Le storie digitali per ora sono off limits, anche perché, ammette, «in casa non abbiamo un ereader o un tablet; accadrà presto e allora vedremo». Dove, invece, i supporti digitali non mancano è in casa Zaccuri: «Stefano, l'ultimo dei miei tre figli, - spiega Alessandro, scrittore e giornalista - è un nativo digitale e si vede. Ama leggere e passa senza soluzione di continuità dai volumi della biblioteca al Kindle». Ultimo download? «L'ebook-app The Fantastic Flying Books of Mr. Morris che poi abbiamo letto insieme».

C'è, poi, chi come Francesco, 9 anni, ha iniziato la «guerra dell'ereader» contro papà e mamma, la scrittrice Elisabetta Bucciarelli. «Ne abbiamo due in casa - spiega -, ora lui ne vuole uno tutto per sé». L'importante è che «guardi al libro come a un gioco, tutto sommato sia o no di carta poco importa». Poi precisa: «Certo con il digitale la lettura è meno continuativa, ci sono più "distrazioni", ma è anche più stimolante e coinvolgente». E proprio queste, insieme all'aspetto educativo e alla possibilità di far pratica con le lingue straniere, sono le virtù che i genitori riconoscono e ricercano in un libro digitale. Il timore più grande (71,8%), invece, è che faccia perdere la magia del libro, soprattutto delle storie della buonanotte.

Infine, da chi al digitale deve il suo successo ci si potrebbe aspettare una difesa d'ufficio, invece Anna Premoli, mamma di Marco, 4 anni, e scrittrice del bestseller nato in ebook Ti prego lasciati odiare, è contraria ai libri per bambini su tablet e ereader. «Marco sa già navigare, si cerca i video dei cartoni, gioca con il tablet. Se avesse un libro digitale non leggerebbe, devierebbe per mettersi a fare altro. Io leggo solo su ereader ma per mio figlio preferisco libri di carta».

E gli esperti che ne pensano? Secondo uno studio del Joan Ganz Cooney Center, gli ebook - in particolare quelli «potenziati» con video, audio e contributi multimediali - distraggono i bambini dalla storia e impediscono loro di ricordare i dettagli narrativi. A essere penalizzati sono, secondo i ricercatori, «apprendimento e comprensione del testo».
Ma la lettura non è solo questo. I libri elettronici grazie all'aspetto ludico e di coinvolgimento riescono, infatti, «a catturare l'attenzione di bambini che non sono attirati dalla lettura tradizionale», osservano gli esperti.
Insomma la questione è calda e il dibattito aperto. Se ne parlerà anche alla prossima edizione di Kids - Generazione 0-10, il 10 e l'11 maggio al Palazzo delle Stelline, che ha per tema: «Crescere bambini digitali»." (da Severino Colombo, Noi scrittori e i nostri ''nativi'', "Corriere della sera", 27/04/2013)

martedì 23 aprile 2013

Il mondo (del libro) salvato dai ragazzini

"Il mondo (del libro) salvato dai ragazzini: al cospetto del lavoro svolto in questi ultimi trent’anni anni dalla libreria Giannino Stoppani di Bologna, intitolata a Gian Burrasca e pensata per il pubblico dei bambini e degli adolescenti, viene in mente il titolo della celebre raccolta di poesie di Elsa Morante. È dal 1983 infatti che a Bologna, dapprima a Palazzo Bentivoglio e poi nei centralissimi locali di Palazzo Re Enzo, la Giannino Stoppani contribuisce a formare nuovi lettori. E intende assolutamente continuare. «Eravamo in cinque», racconta Silvana Sola, «studiavamo pedagogia e seguivamo le lezioni di Antonio Faeti, che allora era il solo a tenere un corso specifico sulla letteratura per ragazzi. Nessuna di noi aveva mai lavorato in libreria e non sapevamo nulla né di mercato né di economia. Però avevamo questo sogno, che era anche una sfida: come avrebbe risposto Bologna? L’idea di dedicare la nostra libreria al monello del Vamba era il nostro manifesto».

All’epoca le librerie che trattavano la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza la relegavano in fondo a destra, non solo dopo i bestseller e la saggistica ma anche dopo il turismo. «Oggi non più, per fortuna. Ma noi avvertimmo subito il desiderio di offrire ai piccoli lettori uno spazio dove incontrare i libri pensati per loro. La nostra prima sede era molto piccola, appena sessanta metri quadri, e però cercammo di farla diventare uno spazio aperto, invitando le classi la mattina, organizzando visite guidate in cui gli scaffali erano come le sale di un museo o i sentieri di un parco. Già nell’85 ci adoperavamo per promuovere il libro e la lettura, chiedemmo a Lorenzo Mattotti di fare da noi una mostra a partire dai classici e lui disegnò il suo Pinocchio, destinato ad approdare al cinema. La mostra ebbe un tale riscontro che poi venne ospitata dalla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, per noi fu un segnale importante».

La Giannino Stoppani del resto ha sempre puntato molto non solo sulle storie ma anche sulle immagini che le illustrano. «Abbiamo organizzato tantissime mostre, anche con disegnatori americani, e le abbiamo portate nelle scuole e nelle biblioteche, cercando di aprirci, di portare la libreria fuori dai suoi spazi». Che nel 1991 si sono ampliati. «Col trasloco a Palazzo Re Enzo è iniziata un’avventura ancora diversa, perché nella nuova sede davvero potevamo accogliere con agio intere classi, dando vita a letture condivise, coinvolgendo i genitori, e ospitando autori e illustratori, cercando sempre di intessere nuove relazioni». E presto la Giannino Stoppani si è fatta conoscere oltre i confini felsinei, ha dando vita a una cooperativa culturale che promuove mostre e laboratori per ragazzi, incontri di formazione e programmi di promozione alla lettura. «Visti i risultati del lavoro sul territorio, con le scuole e le biblioteche, ci siamo dette che valeva la pena di allargare gli orizzonti, far girare le mostre e distribuire i cataloghi così da raggiungere realtà anche molto lontane, condividendo storie».

Il tutto facendo i conti con un mercato che intanto cambiava, perché nel frattempo i libri per ragazzi avevano iniziato a ritagliarsi spazi più importanti all’interno di librerie indipendenti e di catena.
«Certo anche la Giannino Stoppani ha attraversato fasi alterne, momenti più o meno felici. Noi abbiamo deciso che la nostra arma in più non poteva essere la politica degli sconti, ma la competenza: le nostre libraie e i nostri librai dovevano conoscere i libri, leggerli, e anche criticarli, ma in ogni caso mostrarsi capaci di rapportarsi con un pubblico di bambini, ragazzi e adulti facendo loro sentire che cosa c’era dentro i libri». E non a caso, dieci anni fa la Cooperativa Culturale Giannino Stoppani ha dato vita all’Accademia Drosselmeier. «Continuavamo a ricevere richieste da parte di persone che ci domandavano di aprire laboratori e corsi per ragazzi, e allora abbiamo pensato di fondare un’accademia per librai e giocattolai, rivolta ai giovani intenzionati a intraprendere un percorso formativo nell’ambito della cultura per l’infanzia. In tanti poi hanno aperto librerie: a Rimini, Vignola, Cagliari, Cremona. E la soddisfazione più grande per noi è l’aver creato questa rete di condivisione di contenuti». Quanto alla crisi del settore, che nel 2012 ha colpito duro tutti i soggetti operanti nel mondo del libro, dai librai agli editori, Silvana Sola ha un’unica ricetta: «In un contesto come quello attuale, in cui si sente la difficoltà di mantenersi indipendenti in città dove gli affitti sono altissimi e si fatica a far quadrare i conti, noi abbiamo sempre cercato di non abbassare la qualità delle nostre proposte, casomai di alzarla ancora. Quest’anno abbiamo messo in piedi tre mostre: una sui libri che in paesi diversi parlano di migranti, una sulla nuova famiglia nei libri per ragazzi, e una sul rapporto tra infanzia e natura».

E il luogo comune dei ragazzi che leggono meno rispetto ai loro coetanei di un tempo e agli adulti? «Vede, io credo che sia necessario ribaltare il tutto. Se a leggere è il 60% dei ragazzi, il problema è avvicinare alla lettura il 40% rimanente. Ma se uno non incontra i libri sulla sua strada come può esercitare il diritto alla lettura? Quel 40% è fatto di ragazzi potenzialmente pronti per leggere. Dobbiamo dare loro la possibilità di accedere ai libri. È una questione di consuetudine: ci vogliono più biblioteche, più librerie, e più libri nelle case degli italiani. La qualità della vita di ciascuno di noi passa anche per i libri che ha letto, non crede?». Altroché." (da Giuseppe Culicchia, Il mondo (del libro) salvato dai ragazzini, "La Stampa", 23/04/2013)

sabato 13 aprile 2013

Adolescenti e ricerca di sé, il diario è meglio di FaceBook


"Commenta Anna Frank nel 1942, dal rifugio clandestino in cui vive per sfuggire alle persecuzioni naziste contro gli ebrei: «Per una come me, scrivere un diario fa un curioso effetto. Non soltanto perché non ho mai scritto, ma perché mi sembra che più tardi né io né altri potremo trovare interessanti gli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Però, a dire il vero, non è di questo che si tratta; a me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente».
Quel diario non solo le permetterà di emergere dalle strettoie di una convivenza forzata ma anni dopo, tradotto in quasi tutte le lingue, sarà inserito dall’Unesco nelle Memorie del mondo. Poche ragazzine aspirano a tanto ma il diario rimane ancora oggi la più diffusa forma di scrittura femminile e adolescenziale. Tenere un diario, per lo più scritto a mano, in bella calligrafia e con una ricerca di stile, è una scelta controcorrente nell’epoca del Web, quando si digita per impulso, senza riflettere, senza selezionare.
Premendo rapidamente i pulsanti, i ragazzi cercano di sincronizzare i battiti del cuore con quelli del telefonino, di trasmettere le emozioni nel momento stesso in cui le provano. La scrittura tradizionale richiede invece di attendere il tempo e il luogo più opportuni, sottraendosi alla fretta di concludere, alla tentazione di restare perennemente connessi per sfuggire alla solitudine.

Il diario costituisce un appuntamento con sé, un incontro programmato con la propria intimità. Spesso, sigillato da un lucchetto più simbolico che reale, pretende il segreto. Anche se «casualmente» viene dimenticato in modo che la mamma lo possa leggere, altrettanto casualmente. Ma non è lei l’interlocutore privilegiato, chi scrive, anche quando evoca un corrispondente immaginario, si rivolge a se stesso nell’intento di scandagliare le parti in ombra della sua personalità e di fissare le ambivalenze e le intermittenze dei sentimenti.
Le pagine del diario sono uno schermo su cui l’adolescente delinea la propria identità in modo creativo e personale, sottraendola alle attese degli altri e agli stereotipi della cultura. In esse palpitano amori immaginari e fantasie erotiche che si confidano solo all’amica del cuore, ma anche spirazioni e i desideri che orientano il futuro. Mentre le comunicazioni digitali si disperdono nella nebulosa mobile e illimitata di una fantasia collettiva, il diario conserva, nella forma autobiografica, l’unicità e la continuità della propria storia.
Durante l’adolescenza, nonostante una progressiva omologazione, i maschi s’impegnano soprattutto nella conquista del mondo esterno, le femmine nell’esplorazione del mondo interno, nella forma romantica dell’introspezione e del sogno d’amore. Prende così forma l’autobiografia, intesa come racconto congiunto dei fatti e delle emozioni, come nucleo stabile di una identità sempre più frammentata nella pluralità dell’Io e nella fragilità delle relazioni. La scrittura periodica del diario consente all’adolescente di operare un distacco critico dalla famiglia senza esasperare i conflitti, senza provocare dolorose lacerazioni. Le immagini dei genitori, mediate dalla scrittura, si allontano e si ridimensionano pur restando insostituibili figure di riferimento, mentre il dolore di vivere si stempera in una narrazione che protegge e cura. Molti anni dopo sarà possibile riconoscere, in quell’opera letteraria in miniatura, il filo rosso della propria vita, quello che ci ha aiutato a diventare al tempo stesso autrici e protagoniste della nostra storia.
Per molte donne e per tante «piccole donne» il diario rappresenta quella «stanza tutta per sé» in cui Virginia Woolf riconosceva l’ambito di una fragile libertà femminile da proteggere e conservare. Ma la scrittura autobiografica, non è solo una faccenda di donne, serve anche agli uomini per ritrovare ed esprimere la parte femminile di sé.
Per la sua capacità evolutiva andrebbe incentivata nella scuola senza scindere, come spesso accade, l’allievo dall’adolescente, la ricerca di sé dall’apprendimento, l’introspezione dalla conoscenza obiettiva. Il compito di disegnare la propria identità è fondamentale perché dà senso a ciò che chiediamo ai ragazzi e significato ai loro inquieti processi creativi. Accompagnandoli in questa impresa, gli educatori stabiliscono con loro una alleanza che dura nel tempo e che offre , al diventare adulti, un orizzonte possibile e desiderabile." (da Silvia Vegetti Finzi, Adolescenti e ricerca di sé, il diario è meglio di FaceBook, "Corriere della sera", 13/04/'13)

Silvia Vegetti Finzi su IBS

mercoledì 10 aprile 2013

I bambini nell'era di Facebook leggono più di mamma e papà

"Leggono più di mamma e papà. Resistono alle lusinghe totalizzanti di Facebook, YouTube, Nintendo e iPad e considerano il libro il miglior amico dell'uomo.
Sono il 58% dei bambini e ragazzi che, dai 6 ai 17 anni, si appassionano a romanzi, fantasy, gialli e favole. Basta che siano libri. Mentre i loro genitori non hanno mai tempo.
Gli adulti, di fronte alle pagine stampate, riscoprono l'ozio o al contrario il fascino di un'esistenza workaholic.
Solo il 46% si salva. Ben il 12% in meno di figli o nipoti. A dimostrare che gli intellettuali si nascondono tra i più piccoli, naturalmente escludendo i libri di scuola, è una ricerca dell'Associazione Italiana Editori.
E le sorprese aumentano entrando nel dettaglio. Tra i più accaniti lettori ci sono quelli che non sanno ancora leggere, cioè il 63% dei bambini tra i 2 e i 5 anni. I piccoli sfogliano, colorano e guardano volumi tutti i giorni mentre si disinteressano allegramente di internet. I fratelli più grandi, quelli dai 6 ai 10 anni, in più della metà dei casi leggono con gusto mentre nel 4,7% scoprono il piacere del web quotidiano. Sono ancora innamorati di Harry Potter o della Schiappa il 60% dei ragazzi, tra gli 11 e i 14 anni, e solo il 33% li tradiscono con una dose quotidiana di internet. Con gli adolescenti le cose cambiano: il 59,8% divorano libri e quasi la stessa percentuale preferisce internet. Insomma, purtroppo sono diventati grandi.
I maschi come le femmine? Neanche a parlarne. Le differenze di genere si cominciano a sentire da piccoli e le bambine, sin dai 5 anni, leggono molto di più dei bambini. Tra i poteri taumaturgici del libro c'è il miglioramento dell'autonomia e delle relazioni con i genitori: se l'82% legge da solo, l'85% lo fa con mamma e papà.
«I ragazzi sono sempre stati dei buoni lettori», spiega Giovanni Peresson, responsabile ufficio studi di AIE, «ma la vera novità è come il dato della lettura under 18 resista all'aumento delle sollecitazioni esterne e addirittura aumenti. Se qualche anno fa la forbice di separazione dagli adulti era di 8 punti ora sono addirittura 12. I bambini e gli adolescenti hanno un'intensa vita sociale fatta di nuoto, ginnastica, calcio, scuola di lingue, diciamo che avrebbero tutte le giustificazioni per leggere meno e invece si oppongono con forza». Non solo. «Negli ultimi anni i ragazzi hanno stravolto la loro vita grazie a internet tanto che già nel 2008 il 91% possedeva un telefono o un computer o usava quello dei genitori. Incredibilmente nel 2012 la media dei lettori è addirittura aumentata».
Un "mistero positivo" che Peresson spiega in molti modi: «Nella prima fascia di età la lettura crea un elemento di relazione tra bimbo e genitore, poi c'è stata la capacità degli editori di rinnovarsi inventando nuovi formati e generi, illustrazioni moderne, diverse fasce di prezzo. Tramontano così i grandi classici alla Giulio Verne e i nuovi eroi vivono nei cartoni animati come nei film».
Un'altra chiave di successo sta nelle librerie. Dice Antonio Monaco, responsabile del settore ragazzi dell'AIE: «Nascono librerie dedicate e anche nelle tradizionali ci sono spazi piacevoli dove coinvolgere i giovani». E nella capacità di diversificare: «La letteratura junior risponde a un'esigenza di differenziazione degli interessi con micro segmenti come il fantasy, la serialità e persino una certa visione negativa del futuro, inevitabile dato il momento che stiamo vivendo». Ad esultare per la passione dei più piccoli sono naturalmente gli editori. Titoli come Pimpa o La principessa dei ghiacci trainano le vendite anche in periodi difficili. «Negli ultimi tre anni il settore si è assestato su un valore di 200 milioni di euro con circa 200 editori attivi e più di 20 milioni di copie distribuite», spiega Monaco, «il 2013 è partito bene con il successo della Schiappa e le conferme di Peppa Pig e di Geronimo Stilton». Non aiutano le biblioteche scolastiche: con un solo nuovo libro per 10 studenti e una spesa di 68 centesimi per alunno destinati all'acquisto di volumi." (da Irene Maria Scalise, I bambini nell'era di Facebook leggono più di mamma e papà, "La Repubblica" 07/04/'13)

venerdì 5 aprile 2013

La nostra Repubblica fondata sulla cultura. Ecco perché leggere un libro è alla base della democrazia


"La società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, di persone che si conoscono reciprocamente. È un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono come facenti parte di una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Come può esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti?
Qui entra in gioco la cultura. Consideriamo l’espressione: io mi riconosco in… Quando sono numerosi coloro che non si conoscono reciprocamente, ma si riconoscono nella stessa cosa, quale che sia, ecco formata una società. Questo “qualche cosa” di comune è “un terzo” che sta al di sopra di ogni uno e di ogni altro e questo “terzo” è condizione sine qua non d’ogni tipo di società, non necessariamente società politica. Il terzo è ciò che consente una “triangolazione”: tutti e ciascuno si riconoscono in un punto che li sovrasta e, da questo riconoscimento, discende il senso di un’appartenenza e di un’esistenza che va al di là della semplice vita biologica individuale e dei rapporti interindividuali. Quando parliamo di fraternità (nella tradizione illuminista) o di solidarietà (nella tradizione cattolica e socialista) implicitamente ci riferiamo a qualcosa che “sta più su” dei singoli fratelli o sodali: fratelli o sodali in qualcosa, in una comunanza, in una missione, in un destino comune. Noi siamo immersi in una visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, nel senso sopra detto? Per niente. Anzi, il bisogno si pone con impellenza, precisamente a causa dei suoi presupposti costituzionali: la libertà e l’uguaglianza, i due pilastri delle concezioni politiche del nostro tempo, che se lasciati liberi di operare fuori di un contesto societario, mettono in moto forze egoistiche produttive di effetti distruttivi della con-vivenza.
Non si può convivere stabilmente in grandi aggregati di esseri umani che nemmeno si conoscono facendo conto solo su patti degli uni con gli altri, come pensano i contrattualisti. A parte ogni considerazione realistica, una volta stabilita una regolazione contrattuale degli interessi in campo, a chi o a che cosa ci si potrebbe richiamare per richiedere l’adempimento degli obblighi assunti, ogni volta che l’interesse mutato spingesse qualcuna delle parti a violarli? Ogni contratto, senza una garanzia terza, sarebbe flatus vocis.
Per molti secoli, questa garanzia era riposta nella religione; oggi, nell’età della secolarizzazione, non può che essere la cultura.
«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento », dice l’art. 33, primo comma, della Costituzione. Questa norma di principio è da considerare la base della “costituzione culturale”, così come esiste una “costituzione politica” e una “costituzione economica”, ciascuna delle quali contribuisce, per la sua parte, alla costruzione della “tri-funzionalità” su cui si regge la società, secondo quanto già detto. La Costituzione, senza aggettivi, è la sintesi di queste costituzioni particolari. Innanzitutto, dicendosi che l’arte e la scienza sono libere e che libero ne è l’insegnamento si dà una definizione. L’attività intellettuale non libera, cioè asservita a interessi d’altra natura non è arte, né scienza: è prosecuzione con altri mezzi di politica ed economia. Si dirà, tuttavia: non è arte la scultura di Fidia, perché al servizio della gloria di Pericle? Non è arte la poesia di Virgilio, perché celebrativa della Roma di Cesare Augusto? E non è arte quella di Michelangelo, commissionata da Giulio II e Paolo III? La loro non è arte perché voluta, comandata, perfino imposta da altri, che non l’artista? Naturalmente no. Ma non è arte per la componente priva di libertà, esecutiva del volere del committente; è arte, per la parte che l’artista riserva alla sua libera creazione.
Cose analoghe si possono dire per le opere dell’ingegno al servizio dell’economia, cioè della pubblicità di prodotti commerciali. Anche a questo proposito, l’impasto di attività esecutiva e di attività creativa è evidente. Il rapporto tra l’una e l’altra è variabile. Normalmente, prevale l’aspetto strumentale: far nascere bisogni, orientare il consumo, combattere la concorrenza, promuovere le vendite: tutte cose che riguardano gli stili di vita, le aspettative, i sogni, ecc. In certo senso, formano cultura, e nel modo più efficace possibile. Ma, per questo aspetto, non sono esse stesse espressione della libertà della cultura; sono invece funzione dell’economia. Non rientrano nella definizione costituzionale. Vale anche qui, però, la forza purificatrice del tempo. A distanza d’anni, quando s’è persa la nozione dell’interesse originario, anche le opere di pubblicità possono depurarsi dal loro aspetto strumentale ed essere rivalutate e apprezzate nel loro valore artistico.
Non si tratta, comunque, di teorizzare una “cultura per la cultura”, senza contenuto, come pura evasione. La cultura come cultura ha una sua funzione e una sua responsabilità sociale, come s’è detto: una funzione che esige libertà. Sotto questo aspetto, il verbo “essere” che troviamo nella norma costituzionale assume il significato non d’una definizione, ma d’una prescrizione: “la cultura deve essere libera”. La difficoltà nasce dal fatto che deve essere libera, ma non può vivere isolata.
La prima insidia, qui, sta nella tentazione della consulenza. Il nostro mondo è sempre più ricco di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Questa – del consulente – è la versione odierna dell’“intellettuale organico” gramsciano, una figura tragica che si collegava alle grandi forze storiche della società per la conquista della “egemonia”: un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. I consiglieri di oggi sono gli imboscati nell’inesauribile miniera di ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., che si legano al piccolo o grande potere, offrendo i propri servigi intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori, emolumenti. La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che vendono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva in sé, ma lo sono quando sono essi stessi che si offrono e accettano di entrare “nell’organico” di questo o quel potentato. L’uomo di cultura diventa uomo di compiacenza.
La seconda insidia all’autonomia della funzione intellettuale è la tentazione di cercare il successo in questa, per poi spenderlo nelle altre funzioni. Ciò che è giusto in una sfera, può diventare corruzione delle altre sfere. Così, l’affermazione nella sfera dell’economia non deve essere usata strumentalmente per affermarsi nel campo della politica o in quello della cultura; l’affermazione nella sfera politica non deve essere il ponte per conquistare posizioni di potere nella sfera economica o in quella culturale; l’attività nella sfera culturale non deve corrompersi cercando approvazione e consenso, in vista di candidature, carriere e benefici che possono provenire dalla politica o dall’economia.
Merita qualche parola anche il binomio “libertà della cultura” e “democrazia”. La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove, quindi, è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società dove pressoché tutte le decisioni politiche hanno una decisiva componente scientifica e tecnica, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Per prendere decisioni democraticamente e consapevolmente in campi specialistici, chi non sa nulla deve potersi fidare di chi detiene le conoscenze necessarie. Non in nome della Verità, che non sta da nessuna parte, ma in nome almeno dell’onestà, che può stare presso di noi. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, la cultura come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza sarebbe un corpo morto.
Di quali mezzi si avvale oggi la cultura? Semplificando: chat o book? Dov’è la radice della differenza? È nel fattore tempo, un fattore determinante nella qualità di tutte le relazioni sociali. La chat e i suoi fratelli – blog, twitter, social forum, newsgroup, mailing list, facebook, messaggi immediati d’ogni tipo – appartengono al mondo dell’istantaneità; i libri al mondo della durata. I messaggi immediati appartengono alla comunicazione; i libri, alla formazione. La comunicazione vive dell’istante, la formazione si alimenta nel tempo. La comunicazione non ha onere d’argomentazione e non attende risposte. Il suo fine è dire e ridire su ciò che è stato detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Il libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico – appartiene a un altro mondo. Nasce e vive in un tempo disteso, di studio e riflessione. Se sul bancone d’una libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick, innanzitutto è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho impiegato a essere pensato e scritto? E tu, quanto tempo e quanta concentrazione pensi di potermi dedicare? L’invasione degli instant books è la conseguenza della medesima risposta a entrambe le domande, rivolte agli autori e ai lettori: poco, molto poco, forse sempre meno tempo e meno concentrazione.
Ma, allora, è chiaro che la sopravvivenza del libro non è una rivendicazione a favore di una élite di pochi fortunati lettori. La diffusione della lettura non appartiene al superfluo di una società non solo, com’è ovvio, perché ha a che vedere con la diffusione dell’istruzione. Siamo, infatti, pienamente nel campo della cittadinanza, cioè della condizione di partecipazione attiva, consapevole e responsabile a quanto c’è di più decisivo per la tenuta della compagine sociale, cioè la partecipazione a una delle tre “funzioni sociali”: la funzione politica di fondo, meno visibile ma, in realtà, nel formare mentalità, più determinante della stessa azione politica in senso stretto, la quale, nella prima trova i suoi limiti e i suoi fini. Si tratta, per l’appunto, della cultura." (da Gustavo Zagrebelsky, ''La nostra Repubblica fondata sulla cultura. Ecco perché leggere un libro è alla base della democrazia'', "La Repubblica", 05/04/2013)

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