lunedì 30 luglio 2012

Sotto controllo


"Con la nascita dell'Europa moderna l'accesso delle donne alla lettura si fa più frequente e regolare. Fenomeni del genere hanno sempre una preistoria, talvolta lunga. Negli ultimi secoli del Medioevo, un nuovo modo di raffigurare il libro - non più come nell'Alto Medioevo chiuso o offerto (il che rinvia al libro come oggetto sacro e fonte di dottrina) ma aperto e letto - segnalava già fondamentali modifiche nell'accesso alla cultura scritta, grazie alla lettura. In molte di queste rappresentazioni, il libro è tenuto aperto e letto da figure femminili, prima fra tutte la Vergine Maria.

Ricostruendo la storia delle scuole a Venezia del Tre e Quattrocento, Gherardo Ortalli aveva già avvertito che, malgrado l'impossibilità di fornire dati precisi, non si può parlare allora di alfabetismo massiccio. Certo è che nel Cinquecento, anche per il progredire delle fonti scritte, come quelle del S. Uffizio, ora accessibili agli storici, il fenomeno appare più ampio e complesso. Lo dimostra il recente e importante libro di Xenia von Tippelskirch, Sotto controllo. Letture femminili in Italia nella prima età moderna (Viella).

Si trattò di un fenomeno che dovette fare i conti con ostacoli di ogni genere, anzitutto di carattere sociale. Si è ad esempio calcolato che a Venezia verso la fine del Cinquecento quasi il 15 per cento dei "putti" andava a scuola da un maestro contro soltanto lo 0,1% delle ragazze peraltro nobili e cittadine. È vero che l'educazione delle ragazze avveniva per lo più in casa, il che rende difficile farsi un'idea più precisa del fenomeno. Ma è anche vero che proprio per questa ragione le ragazze di estrazione popolare rimanevano escluse da potere apprendere a leggere e a scrivere.

La percentuale di ragazze che avevano imparato a leggere in ambito domestico doveva comunque essere alta se, sempre a Venezia, alla fine del Cinquecento, circa il 13% delle donne sapevano leggere (contro però il 33% degli adulti maschi). Preso nel suo insieme, l'alfabetismo in molte regioni dell'Italia nella prima età moderna appare comunque più alto di quanto non si fosse pensato. Stando a Xenia von Tippelskirch è quindi difficile ora sostenere la tesi secondo cui l'alfabetismo nell'Europa cattolica fosse allora meno ampio rispetto all'Europa protestante del nord Europa.

Alle ragazze si insegnava a leggere ma non necessariamente a scrivere. A Venezia, nel 1584, in occasione della visita pastorale si ricorda alle monache del monastero di Santa Marta «che non dobbiate - insegnare alle fie che havete in monasterio a cantar sonar balar né scrivere». Per molto tempo in Europa, saper leggere non significava affatto sapere anche scrivere e questo divario valeva soprattutto per il mondo femminile. Inoltre, l'insegnamento doveva avvenire in ambiti ben definiti. Singolare è la vicenda che interessa un gruppo di «sei zitelle» che a Perugia accoglievano nella loro casa «una quantità di piccole per imparare di leggere e cominciano dall'ABC». Il prete Giovan Stefano Spinola le aiutava, organizzandone il finanziamento e persino il vescovo di Spoleto espresse il suo apprezzamento. Richiesto dall'inquisitore di Perugia come comportarsi, il S. Uffizio ordinò però - siamo nel 1640 - di far sciogliere la comunità.

La società tout court assiste con sospetto a questo progres- sivo ampliamento della lettura femminile. Già nella novellistica italiana dal Tre al Seicento, l'alfabetismo era considerato come un pericolo per la moralità della donna. Ludovico Domenici, autore di un diffuso trattato su La nobilità delle donne (1565), riesce però a prendere le distanze parlando con ironia di certi «uomini da poco» che temono che se la moglie «legge i sonetti del Petrarca, le novelle del Boccaccio o i romanzi dell'Ariosto» rischia di perdere «la honestà sua, et subito non si doni in preda a gli amadori suoi».

Talvolta, sono le stesse donne a farsi carico dei limiti imposti dalla società, laica e religiosa. Maria di Portogallo, moglie di Alessandro Farnese, che sapeva leggere in portoghese (la sua madrelingua), italiano, spagnolo e latino, si autodisciplina rifiutando di leggere «libri che trattassero d'amore, e a lei stessa ho sentito dire che mai non havea letto né Petrarca, né Furioso, se non una o due volte venti o trenta versi» (1578). Santa Teresa d'Avila racconta nella sua Vita (1601) che in gioventù «se non havevo qualche libro nuovo, non mi pareva esser contenta». Ma ora le pare «esser mala cosa di consumare molte hore del giorno, e della notte» nella lettura (si trattava dei romanzi cavallereschi, come Don Chisciotte), che considera «sì vano essercitio».
Non sorprende insomma se nel Cinquecento si impone un duplice ideale di lettrice - colta e devota. L'immagine della lettrice colta traspare, ad esempio, dall'aumento di libri che contengono dediche alle donne. Di 1.400 titoli cinquecenteschi scelti tra i formati piccoli nei fondi di tre biblioteche milanesi (Braidense, Trivulziana, Sormani), 134, ossia circa il 10%, sono dedicati a una o più donne. E' una percentuale molto alta se messa a confronto con l'alfabetismo femminile in Italia.

L'immagine di lettrice colta deve però convivere con quella di lettrice devota. Nel suo Theatro delle donne letterate (1620), dedicato alla duchessa di Mantova Margherita di Savoia, Francesco Agostino Della Chiesa, cosmografo e storiografo alla corte sabauda, dirà che Lucrezia della Rovere (morta nel 1579), essendo rimasta vedova «si diede alla lettione dele cose scritte in lingua toscana, e in quella si compacque tanto», ma «tutto spendeva nel studio de buoni libri, e massime di quelli che trattano delle cose sacre»." (da Agostino Paravicini Bagliani, Lettura: sostantivo femminile, "La Repubblica", 26/07/'12)


lunedì 9 luglio 2012

L'età dell'ignoranza. È possibile una democrazia senza cultura?


" «Non si sente parlare che di "società dell'informazione", ma siamo entrati senza accorgercene nell'età dell'ignoranza». L'incipit del libro di Fabrizio Tonello (Bruno Mondadori), docente di Scienza dell'opinione pubblica all'università di Padova, scritto in modo accattivante e godibile, è un'affermazione che sa di paradosso: internet ha diffuso l'illusione che la cultura sia alla portata di tutti, mentre invece opera un esproprio delle conoscenze del cittadino medio, generando indifferenza e incapacità critica.


Nelle scuole entrano portatili e iPad; i nuovi telefoni cellulari ci permettono di scaricare musica, parole o immagini; sul web possiamo ascoltare la radio italiana anche in Australia o leggere qualsiasi giornale a Capo Nord, dove siamo magari arrivati in macchina seguendo le indicazioni di Google Maps. Oggi i canali tv "all news" in tutte le lingue portano il mondo in casa e la convergenza dei mezzi di comunicazione mette
chiunque nella condizione di essere informato in tempo reale, quasi come un giornalista in redazione. «Purtroppo l'ingenuo ottimismo dei cantori della modernità tende a ignorare molti problemi che ci stanno di fronte», aggiunge Tonello, che anzitutto invita a «guardare al fossato che si sta approfondendo fra chi ha accesso a internet e chi non ce l'ha».


Nel dicembre 2011 i giornali italiani hanno commentato con soddisfazione che il traguardo del 50% della popolazione italiana connessa a internet era stato raggiunto, anche se in un giorno medio erano - allora - 12 milioni gli italiani in Rete (adesso sono circa 1 milione in più). Ma persino negli Stati Uniti, dove quattro adulti su cinque sono abituali utenti di internet, il 20% degli esclusi sono più di 50 milioni di persone, una cifra assai vicina a quella dei cittadini americani che vivono in povertà.

Sta avvenendo una sorta di selezione darwiniana della specie umana, rivisitata in chiave XXI secolo: «Volete un biglietto aereo? Niente più agenzia di viaggi: fate da voi risparmiando con una prenotazione on line, se siete capaci; volete un nuovo divano? Ikea ve lo offre a basso prezzo, a condizione che ve lo portiate a casa da soli e ve lo montiate nel tempo libero». Più in generale si tratta di un'evoluzione del rapporto tra i fornitori di beni e servizi e i loro clienti, dove saltano i livelli intermedi tra produzione e consumo, come fanno le banche con il bancomat invece del cassiere o le ferrovie con le emettitrici automatiche di biglietti al posto degli sportelli con l'operatore.


Ma «avere a disposizione miliardi di informazioni non equivale a comprenderle, né a saperle usare correttamente: al contrario, il rumore di fondo può diventare un ostacolo all'uso dell'intelligenza critica». I "nativi digitali", la prima generazione cresciuta con internet (solitamente riferita a chi è nato dopo il 1996, l'anno della diffusione dei primi "browser" come Netscape Navigator, poi seguito da Internet Explorer della Microsoft), trovano sempre qualcosa quando cercano informazioni sulla Rete, ma non è detto che siano le cose migliori e soprattutto che siano affidabili.


«Questo atteggiamento di ingenuo determinismo tecnologico – aggiunge il nostro autore - è particolarmente visibile nelle aspettative create da Wikipedia e, più recentemente, da Facebook, Twitter e altre piattaforme simili». Purtroppo il web non è la bacchetta magica della democrazia: «Chi usa internet per mettere le foto delle vacanze su Facebook non diventerà per questo un cittadino responsabile».

Se ad esempio le scuole spendono nelle nuove tecnologie, mentre tagliano i bilanci e licenziano gli insegnanti, questo approccio non migliora l'apprendimento di base, perché «i buoni insegnanti possono fare un buon uso dei computer, mentre i cattivi insegnanti non vengono trasformati in buoni docenti da un software, con in più l'aggravante che loro e i loro studenti finiscono facilmente per essere distratti dalla tecnologia». Secondo uno studio dell'agenzia di stampa americana Ap, citato nelle ultime pagine del libro, su questo tema le prospettive non sono molto confortanti: «In futuro il consumo di notizie sarà sempre più irregolare e superficiale, affidato a un rapido esame dei titoli sul telefono cellulare o alla home page dei fornitori di posta elettronica. Gli iPhone, iPad o altri "tablet" rafforzano uno stile di vita in cui la ricerca dell'approfondimento e della riflessione tendono a scomparire»".  (da Pietro Fornara, Il paradosso del web: più informati, meno istruiti, "Il Sole 24 ore", 06/07/'12)


Io viaggio da sola


"Per quanto Simone de Beauvoir sostenesse che «Donne si diventa» certo non si è mai sognata di negare che a ottenere tale risultato occorra un' abbondante predisposizione naturale. Un' inclinazione di appena minor importanza serve per essere viaggiatrici. Ma, detto questo, se una donna che viaggia o viaggerebbe vuole impararlo a farlo da sola allora troverà nel libro che Maria Perosino ha appunto intitolato Io viaggio da sola,  un'ottima guida (Einaudi). E «guida» in un senso assai più ampio di quello turistico del termine, per quanto di dritte giuste su ristoranti, alberghi e luoghi il suo libro ne dia anche svariate. Già storica e critica d' arte, responsabile dell' ufficio iconografico di Einaudi, poi curatrice di mostre e organizzatrice di eventi (come il Festival della Scienza di Genova), Perosino è una viaggiatrice più che collaudata. Dovendo contemperare la propensione e la necessità al viaggio con diverse evenienze della vita, belle e brutte, è divenuta una vera e propria conoscitrice dell'esperienza-viaggio, come una sommelier lo è dell' esperienza-degustazione o un' intenditrice d' arte lo è dell'esperienza-opera (e anche queste altre due esperienze sono familiarissime all' autrice). Non c'è sfumatura o retrogusto di una stazione ferroviaria o di una hall di albergo che le possa sfuggire. Il libro prende origine da un aforisma che, con elegante perentorietà, precipita la lettrice nel cuore del problema e che l'editore ha saggiamente scelto come frase emblematica: «Viaggiare da sole non significa affatto essere sole. Significa che vi dovete arrangiare a portare la valigia». Questo impone per esempio oculatezza nella selezione della valigia medesima e poi nella scelta di cosa vi entrerà. Perosino avrà poi tempo di spiegare come neppure viaggiare con un uomo garantisca sempre un minimo di galante servizio di facchinaggio: nella caratterologia maschile che il libro propone l' affetto non diminuisce la severità del giudizio, che anzi impugna a tratti la sferza del sarcasmo. Ma gli uomini, nel senso dei maschi, entrano ben poco nel discorso: il libro ce ne fa sì incontrare diversi in veste di amici, amanti, compagni, parenti o estranei, ma sempre in ruoli da comparse o figuranti. Che si tratti di un aperitivo davanti al Bosforo o della decodificazione delle sigle ferroviarie che aiuta a scegliere il treno migliore o anche del modo per farsi trattare decentemente in un ristorante, al centro del libro sta una donna, di una qualsiasi età compatibile con la voglia, l'energia, la possibilità economica e motoria di starsene in giro. Il compito che si è data Perosino è di renderle al possibile allegra e comunque piena e appagante l'esperienza del viaggio, aggirando eventuali malinconie, carenze affettive e di bilancio, difficoltà logistiche e pregiudizi sociali. Quella che ne esce è una vera filosofia di vita, spicciola e arguta, che si sospetta possa essere utile non soltanto alle donne che viaggiano accompagnate, e neppure soltanto alle donne che amano starsene a casa ma, se non è osare troppo, persino agli uomini (almeno alcuni). Ancora più imponente e preziosa della sua collezione di biglietti da visita di posti per dormire e per mangiare è la mappa mentale che Perosino ha infatti compilato negli anni a proposito delle diverse evenienze che possono rallegrare o guastare un viaggio. Per le donne, la necessità di farci caso è più acuta, perché il mondo resta ancora molto maschilista, e il punto di vista del libro di una donna per le donne consente moltissimi spunti di ironia e osservazione leggera e acuta che fanno del libro di Perosino una lettura piacevolissima. Ma (potrei anche sbagliarmi) alla fine il punto vero non riguarda tanto il gender. Lo introdurrei così: non confondiamo il viaggio con il chilometraggio. Per «viaggio»è meglio intendere quell' intermittente atteggiamento in cui siamo più motivati e incuriositi a percepire, abbiamo più attenzione e meno siamo immersi nell' usuale monologo interiore egotistico. È più facile avere tale atteggiamento in viaggio che a casa propria, guardando cose e panorami nuovi: però non è un caso se una delle pagine più belle è quella in cui Perosino si trova a contemplare la nebbia. È più importante quel che si guarda o il fatto di avere gli occhi aperti? Bisogna sapere come esaltarlo, quel certo atteggiamento, e non frustrarlo o annegarlo nella marea di banali autocommiserazioni di cui ognuno di noi può facilmente disporre. Chi è in preda a dispiaceri a volte viaggia «per distrarsi»; per certi versi è anche il caso di Perosino, ma una volta partite quello che chiamiamo «distrazione» è anche il meccanismo più importante del viaggiare. Viaggiare è imparare a dare meno importanza a sé, cosa che poi si rivela una delle migliori che possiamo fare a quel certo sé, il quale è solo beneficato dal perdere ogni tanto di vista le proprie ossessioni (a partire dall'ossessione di sé medesimo). Con la scusa di consigliare l'uso cromatico dei foulard o le cose da notare nell'ingresso di una trattoria per decidere se mangiare lì, Perosino suggerisce di uscire e di prendere il meglio che il mondo esterno ha da darci. È molto utile, datemi retta, lo dico per esperienza. Da quando conosco Maria, viaggio un po' da sola persino io." (da Stefano Bartezzaghi, Se il mondo è un'avventura per viaggiatrici solitarie, "La Repubblica", 06/07/'12)

lunedì 2 luglio 2012

Il parco dei libri



"Qualsiasi dibattito sulla rinascita culturale dell'Italia, e in particolare del Sud, deve partire dalle biblioteche e dalla lettura, quei servizi indispensabili quanto gli asili nido e i pompieri che nel Sud sono assenti, o presenti solo di nome, in molte regioni. Ma occorre riflettere anche attorno alla scuola perché ormai sappiamo che milioni di italiani sanno riconoscere i caratteri a stampa ma di fatto non riescono a seguire un discorso sulla pagina scritta. Il dibattito di questi mesi su vari giornali e in vari festival ha fornito una quantità di dati in materia. La scuola dovrebbe portare alla maturità quasi tutti i ragazzi e permettere a una quota rilevante di loro di accedere all' università. Cosa accade, invece? Nella classe d'età fra 20 e 24 anni solo il 6% dei giovani è laureato, il 64% è diplomato. Il che significa che il 30%, quasi un giovane italiano su tre, non arriva nemmeno alla maturità, con percentuali molto più alte al Sud. Nessuno ha ancora avanzato proposte concrete per riparare al disastro della scuola italiana, un comparto che nei fatti il governo Monti non sembra intenzionato a trattare diversamente da com'era stato trattato dal governo Berlusconi.
Che ruolo possono avere le biblioteche in tutto questo? Le biblioteche possono essere un'ancora di salvezza, non perché abbiano virtù taumaturgiche ma perché esse sono uno spazio comune, dove anche chi è stato emarginato dalla scuola può scoprire un libro, un giornale, un sito web che ridia speranza o almeno susciti interesse. Le biblioteche sono luoghi di scoperta, di possibilità, a condizione che siano ben concepite e ben gestite, in modo innovativo. Anche in Italia ce ne sono, quasi sempre nel centro nord: grandi biblioteche come Sala Borsa a Bologna o la San Giorgio a Pistoia, o la Delfini a Modena, biblioteche di quartiere a Torino, Milano, Roma, biblioteche di piccoli comuni come Maiolati Spontini (AN), la Memo a Fano, le nuovissime di Meda e di Mortara in Lombardia, Pieris in Friuli o il centro culturale di Cinisello Balsamo, di imminente apertura. Negli ultimi anni sono veramente molte la biblioteche che hanno fatto grandi sforzi per rinnovarsi. Da qualche tempo si parla molto di "beni comuni", facendo una gran confusione tra gli acquedotti e le opere d'arte, fra un museo del cinema e le piscine comunali. La biblioteca deve mostrare la sua indispensabilità come risorsa a disposizione della comunità: per farlo deve essere risorsa "aperta", non autoreferenziale o gestita nel modo gerarchico e burocratico tipico del settore pubblico italiano, deve essere invece uno spazio flessibile e neutrale, un luogo accogliente, dove domanda e offerta di cultura possano incontrarsi, dove le domande sociali possono trovare le competenze necessarie per realizzarsi. Non esistono altre istituzioni che possano accogliere tutti i ceti sociali, tutte le età, tutte le nazionalità. In questo sta la superiorità della biblioteca civica rispetto ai musei, alle librerie, ai festival, alle scuole: essa è un luogo dove si incontrano italiani e immigrati, studenti e professori, casalinghe e pensionati. Ha una vocazione a ricevere tutti su basi di uguaglianza e a rendersi utile a tutti: è un servizio universale che potrebbe reinventarsi fondendosi con altre istituzioni culturali in fondazioni che siano fuori dalle pastoie del pubblico impiego. Una biblioteca-teatro-cinema-museo-scuola per adulti è ciò di cui abbiamo bisogno, una sorta di "pronto soccorso" culturale. C' è una generazione di giovani da salvare e la nostra capacità di trovare informazioni, ampliare i contesti, dare spessore alla ricerca può essere messa al servizio di esperimenti di partecipazione che coinvolgano operatori del welfare, utenti, cittadini. La biblioteca è un luogo dove affluiscono persone con risorse culturali molto diverse: fare in modo che queste risorse vengano almeno parzialmente condivise stimolando la partecipazione dei cittadini può diventare una forma di welfare di nuovo tipo, un tentativo di auto-organizzazione della società sempre più necessario. Questo Nuovo Welfare si deve porre due obiettivi: uno è l'emergenza, l'aiuto ai cittadini in difficoltà attraverso la messa in comune di risorse culturali e organizzative, l'altro è l' obiettivo di lungo periodo di costruire una cittadinanza informata e competente. Gli amministratori che oggi pensano di tagliare i bilanci delle biblioteche non si rendono conto di stare segando il ramo su cui sono seduti: non ci possono essere consumi culturali per il museo del cinema, per i teatri o i concerti se non c' è un'educazione paziente al godimento di questi prodotti. Non saranno i telefonini, e neppure la scuola in crisi, a creare gli acquirenti di libri, i frequentatori del balletto o i visitatori dei bronzi di Riace di domani. I consumi culturali hanno bisogno di un ecosistema favorevole, continuamente alimentato da iniziative diverse, da un'offerta ricca e attraente. Possiamo creare dei nuovi fruitori solo se offriamo ai giovani la possibilità di entrare in contatto con un'offerta culturale diversa da quella veicolata dalla televisione o dalle multinazionali della musica. Da questo punto di vista è necessario creare nel Sud mille luoghi come il Parco della Musica di Roma, dove accade di tutto e dove la musica classica, i concerti rock, le letture sull' antica Grecia e le lezioni sulla storia della città convivono felicemente, con un grande successo di pubblico." (da Antonella Agnoli, Il parco dei libri, "La Repubblica", 30/06/'12)