sabato 16 giugno 2012

La formula della lettura

"Vive in una grande città del Nord Italia, in una casa piena di libri, è giovane, soprattutto è donna, usa molto Internet e il pc, ha una laurea o un diploma di scuola media superiore. È il ritratto, statistico e non solo, del lettore medio italiano, secondo l’ultima indagine Istat, “La produzione e la lettura di libri in Italia”. Ed è evidente, allora, che più che di lettore medio, bisognerebbe parlare di lettrice. Perché in Italia sono le donne le vere appassionate di libri. Sovrane lettrici, come confermano le statistiche e come sanno bene gli editori che oramai dedicano collane e titoli solo a loro. Comandano anche tra i “lettori forti”: hanno letto infatti dodici o più libri in un anno il 14,3% delle donne, contro il 13,1% degli uomini. Leggono dai 7 agli 11 libri l’anno il 13,9% degli uomini contro il 16,5% delle donne, e nella fascia da 4 a 6 libri i maschi si fermano al 23,9% e le femmine arrivano al 26%. Dunque non solo le donne leggono, ma leggono molto, in un Paese dove prevale il lettore “debole” e “debolissimo”: il 45,6% infatti legge solo fino a tre libri l’anno. Eppure le donne dispongono di meno tempo libero rispetto agli uomini, visto che in media dedicano 3 ore e 39 minuti al lavoro familiare contro un’ora e 14 minuti dei loro partner. Numeri che sono anche uno specchio sociale, come sempre. Persino le studentesse hanno meno tempo libero rispetto agli studenti: 4 ore e 56 minuti contro 5 e 51. Del resto la scelta di leggere è dettata solo in parte dalla quantità di tempo che si ha a disposizione: gli occupati leggono molto di più dei pensionati (51,2% contro 33,6%), le occupate molto di più delle casalinghe (66,8% contro 34,4%). Guardando alle cifre complessive, in Italia le lettrici sono al 51,6%, contro il 38,5% degli uomini. Dominano in ogni categoria, anche a parità di titolo di studio e in qualunque fascia di età. C’è un avvicinamento tra i due sessi solo tra i 6 e i 10 anni: i piccoli lettori sono il 49,8%, le piccole lettrici il 53,8%. Tra gli 11 e i 14 anni legge il 55,3% dei ragazzi, ma le ragazze arrivano al 69%, e continuano ad aumentare fino ad arrivare al 73,2% tra i 15 e i 17. I ragazzi rimangono indietro: già tra i 15 e i 17 anni sono al 44,5%, quasi 30 punti al di sotto delle loro coetanee. La percentuale di lettori tra le fasce di età decresce fino ad arrivare al 22,8% (maschi) e 22,7% (femmine) oltre i 75 anni: le differenze di sesso si annullano. «Non va dimenticato che è tra le donne anziane che si ritrovano i più bassi livelli di scolarizzazione – ricorda Luciana Quattrociocchi, dirigente del servizio “Struttura e dinamica sociale” dell’Istat – ed è probabilmente questo il motivo per cui le differenze di genere nei livelli di lettura, molto forti nelle fasce d’età più giovani, si annullano tra gli anziani». L’altra categoria di “grandi lettori” in Italia è costituita dai giovani, bambini compresi: infatti già dai 6 ai 10 anni la quota di lettori si posiziona oltre il 50%, per arrivare al 62% tra gli 11 e i 14 anni, e poi decrescere fino ai 19 anni (53,8%). Gli editori se ne sono accorti: nel 2011 le opere per ragazzi sono cresciute del 13,7% per numero di titoli e del 12,6% per tiratura. E non è vero che i ragazzi assidui frequentatori dei social network siano nemici della lettura: «La quota di giovani lettori che scaricano giornali, news, riviste da Internet è pari al 53,9% – spiega l’indagine, curata da Fabrizio Arosio, responsabile dell’unità operativa “Cultura, tempo libero e nuove tecnologie” dell’Istat – e quella di coloro che consultano un Wiki online è del 69%». Internet è dunque un formidabile alleato della lettura, e non solo per i più giovani: l’89,5% delle famiglie che possiedono oltre 200 libri tengono in casa anche un personal computer, contro il 20,8% di chi non ha a casa neanche un libro. Si potrebbe obiettare che tenere libri in casa non significa essere buoni lettori. Ma non è così: una buona biblioteca è un “buon esempio” per i bambini e un eccellente indicatore della quantità di tempo dedicato alla lettura da tutta la famiglia. «Se in media il 56,3% dei bambini e ragazzi dichiara di aver letto almeno un libro – spiega Luciana Quattrociocchi – la quota arriva al 75,1% nel caso siano presenti in casa più di 200 libri, mentre la percentuale scende al 20,8% se non ce ne sono affatto». Altro fattore che influenza fortemente i bambini è avere genitori che leggono: «Leggono libri il 72% dei ragazzi tra i 6 e i 14 anni con entrambi i genitori lettori contro il 39% di quelli i cui genitori non aprono mai un libro». Anche qui: i dati confermano un’intuizione diffusa, ma messi in fila possono diventare una molla per cambiare abitudini. Nel 2011 i lettori di libri sono passati dal 46,8 al 45,3%. Tutto sommato una lieve diminuzione, rispetto ai passi da gigante fatti dalla lettura in Italia in quasi 50 anni: nel 1965 la quota delle persone di 6 anni e più che leggono almeno un libro l’anno arrivava appena al 16,6% della popolazione. Però, osserva Quattrociocchi, «la diminuzione è in maggior misura spiegata dalla decrescita del numero di lettori nel Sud». La percentuale di lettori del Nord è superiore al 53% della popolazione, mentre al Sud si ferma al 31,8%, con un forte calo rispetto al 34,5% del 2010; per le Isole si passa dal 36,9 al 34,5%. Il lettore italiano, dunque, vive al Nord. Le Regioni che svettano sono Trentino Alto Adige (58,3%) e Friuli Venezia Giulia (58%), seguite da Liguria (55,8%), Veneto (54,2%) e Lombardia (54%), regione dove si vendono oltre un quinto dei libri in Italia (20,1%). In coda ci sono Campania (29,8%), Sicilia (30,5%) e Puglia (31,5%). Che succede al Sud? In effetti «la variabile che discrimina maggiormente il profilo del lettore è il titolo di studio», rileva Arosio. Legge nel tempo libero l’81,1% dei laureati, il 58,4% dei diplomati, il 38,5% di chi ha conseguito la licenza media e il 27,9% di chi possiede soltanto la licenza elementare o non ha nessun titolo di studio. Per cui «queste differenze regionali possono trovare una spiegazione nelle differenze socioeconomiche e socio-culturali, oltre che a una minore vitalità dell’editoria in genere nel Sud del Paese, in cui si concentrano soprattutto piccoli e medi editori mentre la grande editoria è al Nord». La formula della lettura è ancora lontana, eppure per far crescere la passione, basterebbe forse lavorare su queste tabelle." (da Rosaria Amato, La formula della lettura, "La Repubblica", 14/06/'12)

lunedì 11 giugno 2012

L'infinito cercare

"Vent’anni al mitico Istituto di Princeton che ospitò Einstein e Goedel, varie stagioni al Cern di Ginevra, una legislatura al Parlamento europeo, soggiorni di ricerca negli Stati Uniti, Russia, Giappone. Sempre con uno sguardo geniale e matematico puntato a indagare l’estremamente piccolo dell’atomo e l’estremamente grande delle galassie. Questo è Tullio Regge. L’universo è stato la sua casa, e ora la sua vita, 81 anni, è consegnata a una piacevolissima autobiografia scritta con Stefano Sandrelli, astronomo dell’Osservatorio di Brera ma anche narratore e abile comunicatore della scienza, L’infinito cercare. «Non è il titolo che avrei voluto», dice Regge sfogliando distrattamente il volume che Einaudi sta per mandare in libreria. «Con Rosanna, mia moglie, avevamo pensato a L’orizzonte degli eventi: sa, quel posto strano intorno a un buco nero, dove il tempo si ferma sull’orlo del pozzo gravitazionale». L’orizzonte degli eventi di Regge ora è la vetrata che inquadra il verde della collina di Torino: un salone con pianoforte, libreria, un telescopio di ottone firmato da una storica azienda ottica torinese che non esiste più. Comunque sia, perfetto è il sottotitolo, «Autobiografia di un curioso». Curioso è anche il Regge lettore, che infatti un giorno sentì il bisogno di penetrare nel libro dei libri, la Bibbia, e per farlo imparò l’ebraico, divertendosi poi a rilevare le discrepanze tra il testo originale e la sua vulgata, per esempio nell’episodio delle due spie di Josuha che vanno a Gerico e vengono ospitate da una prostituta, parola di solito occultata in un eufemismo. «Ho letto la Bibbia – racconta – per stupire gli amici con qualche parola in ebraico antico. E’ un’opera che contiene tutto e il contrario di tutto. Probabilmente la portò in casa mio padre, che comprava un sacco di libri usati sulle bancarelle di piazza Carlo Felice e del Balon. Era geometra. A Torino ci sono cinque case che ha progettato, sono in corso Casale e in corso Quintino Sella. Anche lui era curioso e si interessava alla scienza. Purtroppo non aveva avuto maestri, e quindi la sua testa era piena di concetti sbagliati». Che fine hanno fatto i libri che suo padre acquistava sulle bancarelle? «Molti li ho ancora, sono in soffitta. Altri li vede lì in quella libreria, lassù in alto: l’Ariosto (un fumettone, ma divertente), la Divina Commedia, L’astronomie populaire e Les étoiles di Camille Flammarion. Sui libri divulgativi di Flammarion ho incominciato a conoscere l’astronomia. Ma per me il testo più importante fu la Matematica dilettevole e curiosa di Italo Ghersi, un manuale pubblicato da Hoepli. L’ho letto quando ero alle elementari. Ho saltato quarta e quinta grazie a un esame che mi ha permesso di iscrivermi al primo anno delle medie in una scuola privata di via delle Rosine. All’orale di matematica, come risultato di un problema, saltò fuori il numero 47. Toh, guarda, è un numero primo, esclamai. Il professore che mi esaminava si stupì. E come lo sai, mi domandò. Semplice, dissi: ho letto il Ghersi». Altri libri dell’infanzia e dell’adolescenza? «Non Pinocchio, ma tanto Salgari. Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, che fu anche matematico: in fisica si chiama Gruppo di Carroll la descrizione di un mondo fittizio in cui la velocità della luce è nulla, qualcosa di simile al coniglio di Alice, che corre sempre e resta nello stesso posto. A scuola I promessi sposi mi lasciarono indifferente. Non mi dispiaceva Leopardi. Niente Carducci, che invece mia moglie apprezza. Al liceo ho avuto un professore di italiano che si chiamava Vanara. Un bravo professore, ma allora io amavo solo la matematica e odiavo i temi di critica letteraria. Mi bocciò. Poi mi sono preso la soddisfazione di scrivere centinaia di articoli di divulgazione scientifica per i giornali, a quanto pare decenti. Il fatto è che per scrivere bene servono due cose: conoscere l’argomento ed esserne appassionati. Detestavo gli autori latini. Forse li avrei amati se invece di Virgilio mi avessero fatto conoscere Lucrezio o Plinio. L’unico libro in latino che mi ha conquistato è del matematico Gauss, le Disquisitiones Arithmeticae, lo scrisse nel 1798, quando aveva appena 21 anni, fu il primo testo sistematico di teoria dei numeri». Romanzi? «Negli Anni '90 mi fecero questa domanda in un programma radio di Rai Tre. Parlai di Ippolito Nievo, Le confessioni di un ottuagenario: mia moglie ne fu commossa perché citai Colloredo, il paese friulano dove è nata. E poi Thomas Mann, specialmente il Doctor Faustus: mi piacque perché parla di un musicista, e la musica classica è una mia passione. E Robert Musil, che era un ingegnere meccanico, L’uomo senza qualità .... ». Fantascienza? «Sì, i romanzetti di Urania, ma anche Isaac Asimov e Fred Hoyle, autore della Nuvola Nera. Però la fantascienza non mi ha mai convinto. Neanche quando a scriverla sono gli scienziati, come Asimov, che era biologo, e Hoyle, che è stato un brillante fisico teorico. Pure lui tira fuori cose senza senso, come astronavi più veloci della luce. La scienza vera è più sorprendente di qualsiasi fantascienza. Quando pubblicai una raccolta di miei articoli divulgativi la intitolai Le meraviglie del reale in contrapposizione a Le meraviglie del possibile, antologia di racconti di fantascienza che Fruttero e Lucentini curarono per Einaudi nel 1959». Scrittori che ammira? «Primo Levi, naturalmente. La sua chiarezza, che gli viene dall’essere chimico, l’ironia, la nitidissima testimonianza sui lager nazisti. Ho potuto conoscerlo bene, da un nostro dialogo è venuto fuori un libretto. Non ho mai capito perché si sia ucciso. Ma il più vicino a me è Borges, specie quello di Finzioni: Funès o della memoria, La biblioteca di Babele. Vorrei essere Funès, ora che i miei ricordi evaporano! Di Borges mi piacciono i giochi di specchi, i labirinti, il brivido dell’infinito. Proprio per Tuttolibri nel 1981 mi divertii a calcolare le conseguenze fisiche di una biblioteca come quella immaginata da Borges: il numero di libri possibili è uguale a 25 elevato alla 656 mila, per scriverlo occorrono poco più di novecentomila cifre. Ma il volume dell’universo osservabile in centimetri cubi è un numero di appena 85 cifre. La Biblioteca di Babele non starebbe nell’universo ... ». Lei ha dato alla fisica contributi importanti. Quando le assegnarono il Premio Einstein o la Medaglia Dirac le motivazioni ricordarono i Poli di Regge, applicati in meccanica quantistica, il Regge Calculus, primo tentativo di quantizzare lo spaziotempo, ricerche sui buchi neri. Per anni ha tenuto la cattedra di relatività all’Università di Torino. Se dovesse consigliare a un lettore comune un libro per capire le teorie di Einstein sceglierebbe la biografia che ne ha scritto Abraham Pais o l’esposizione divulgativa della relatività dello stesso Einstein? «Entrambe». Dire Tullio Regge significa tante cose: l’illimitata voglia di capire il mondo, la lotta civile per le pari opportunità di un uomo che da tanti anni una malattia costringe su una carrozzella, l’interesse per la musica, il gusto di costruire al computer disegni satirici. Ma un’attenzione speciale merita l’attività di divulgatore: un campo nel quale Regge è stato pioniere con conferenze, libri, Cd-Rom, mostre (Experimenta), iniziative come GiovedìScienza, tutte cose che stanno sotto il cappello dell’Associazione CentroScienza, dove tuttora è presente accanto a Danilo Mainardi, Aldo Fasolo, Piero Angela. L’infinito cercare rappresenta bene tutte queste sfaccettature e colpisce per la leggerezza con cui Regge tratta le cose importanti che ha fatto e la serietà che talvolta riserva a cose leggere. Nel congedarmi, scorro gli scaffali. Vedo L’Orlando furioso nell’edizione dei Fratelli Treves del 1894 illustrata con 517 incisioni di Gustav Doré, Borges nei Meridiani Mondadori, i due volumi delle Opere di Levi, la Fisica di Feynman (Zanichelli), La nuova fisica di Davis (Bollati Boringhieri), libri di genetica di Watson e Crick, gli scopritori della doppia elica del Dna. Ogni tanto un titolo di Odifreddi inquina sacri testi di matematica. In un angolo, un libretto in giapponese. Gli autori sono Tullio Regge e Vittorio De Alfaro. Tratta dei «poli di Regge», il lavoro giovanile che lo lanciò nel mondo della fisica." (da Piero Bianucci, Tullio Regge: "Come Borges sento il brivido dell'infinito, "La Stampa", 09/06/'12)

sabato 9 giugno 2012

Storie d'amore

"L'amore al tempo della tecnologia. Che per alcuni è una promessa liberatrice che moltiplica le relazioni possibili, mentre per altri una minaccia che rischia di annientare i sentimenti. Una questione controversa di cui parliamo con Julia Kristeva in occasione dell'uscita di Storie d'amore (che Donzelli ha recuperato con nuovi contributi), un denso saggio in cui la celebre semiologa e psicanalista, a 71 anni, si confronta con le innumerevoli manifestazioni dell'amore. «Non sono sicura che il mondo a venire sarà ancora un mondo innamorato», spiega. «La nostra idea dell'amore nasce da una tradizione di esperienze e idee che si sono sviluppate nel tempo in Occidente, dalla cultura greca, ebraica e cristiana fino alla tradizione dell'illuminismo. Pur essendosi allontanato da questa tradizione, il mondo contemporaneo conserva pur sempre l'ambizione e la promessa dell'universo amoroso cantato dalla mitologia greca o dal Cantico dei Cantici. Insomma, siamo gli eredi di questa tradizione, che però corre il rischio di scomparire, di non essere capita o di essere ridotta a semplice visione mercantile. Da qui la necessità di trasmettere questa tradizione rinnovandola e adattandola alla nuove condizioni tecniche e economiche». In questa prospettiva, internet e le nuove tecnologie sono una minaccia o un'opportunità? «La tecnica e la comunicazione a prima vista sono esperienze interessanti, ricche di promesse e potenzialità. Ma l'iperconnessione e la velocità dei contatti ci trasforma in semplici terminali di una comunicazione che esclude la profondità della vita psichica, quella che chiamiamo la vita interiore. Il dominio della tecnica rischia di annientare l'esperienza interiore necessaria all'amore. Si spiega anche così il dilagare delle nuove malattie dell'anima, dei disturbi psicosomatici, delle depressioni, eccetera». Vuol dire che l'universo globalizzato della tecnica formatta gli individui e dunque l'esperienza amorosa, che invece dovrebbe essere un territorio di libertà? «Naturalmente non voglio demonizzare la tecnica. Di fronte ad essa, però, scegliamo spesso le soluzioni più semplici e immediate. Per quando riguarda l'amore, quelle che riducono l'esperienza amorosa alla performance. Ad esempio cercando di avere dei figli quando ciò non sarebbe possibile, utilizzando i progressi della medicina. Non si tratta evidentemente di mettere al bando la tecnica, ma solo di fare attenzione a non trasformarla in un fine in sé. La tecnica deve rimanere un mezzo per facilitare l'esperienza amorosa, la quale però nasce sempre dallo scambio, dal dialogo, dall'incontro con l'altro». Internet favorisce le relazioni a distanza e le false identità ... «Favorisce soprattutto le non-relazioni che appartengono alla sfera mercantile della comunicazione. Internet produce oggetti di desiderio che annullano la relazione profonda esistente tra un soggetto e un altro. Facilita la rapidità dei contatti e la velocità delle comunicazioni, ma annulla la dimensione del corpo, l'esperienza sensoriale e la profondità psichica che consentono ai desideri di approfondirsi e modularsi. L'uso sfrenato e dissennato delle nuove tecnologie minaccia i sogni, i fantasmi, la relazione con l'altro e tutte le diverse dimensioni della soggettività». Senza la presenza del corpo non c'è esperienza amorosa? «Possono esserci dei fantasmi, semplici evanescenze sfuggenti in cui il virtuale rischia di sostituirsi al reale. Purtroppo gli individui possono diventare schiavi di queste relazioni. La comunicazione, per quanto rapida, non crea automaticamente la libertà concreta della relazione amorosa, che per esistere ha bisogno di una presenza corpo a corpo, faccia a faccia, memoria a memoria. Il pericolo d'internet è proprio la liquidazione del corpo e della memoria». Per esistere, l'amore ha bisogno di essere raccontato? «L'accelerazione della comunicazione impoverisce il linguaggio, riducendolo a una sequenza di stereotipi prefabbricati. Il racconto è un antidoto a questa deriva. La relazione amorosa è indissociabile dal racconto, ne ha bisogno per strutturarsi e per prendere forma. Nel momento in cui l'innamorato racconta - e si racconta - la propria storia d'amore, sfugge agli schemi che gli sono stati inculcati dalla società. Inizia a parlare diversamente, s'investe nel linguaggio che diventa vivo. La relazione amorosa, quando non è solo sessuale, è uno scambio di parole e di narrazioni, in cui l'individuo ritrova la propria infanzia. La relazione amorosa è sempre un'infanzia ritrovata. Si ridiventa bambini e si ridiventa adulti ad ogni relazione». In rete molti raccontano i loro amori quasi in presa diretta, senza mediazioni. «Non mi sembrano racconti particolarmente ricchi e complessi. Spesso sono solamente manifestazioni di un narcisismo figlio dell'ebbrezza della trasparenza assoluta. Una trasparenza illusoria che rischia di eliminare la profondità e il segreto necessari alla relazione amorosa. Sono racconti esteriori e superficiali, incapaci di trasmettere la ricchezza e la complessità dei sentimenti amorosi». Oggi i grandi miti letterari della passione amorosa analizzati nel suo libro hanno ancora qualcosa da dirci? «Penso di sì, perché - dopo aver rinunciato al mito dell'amore assoluto, questa sorta di monoteismo dell'amore - davanti a noi si presenta ora una vasta pluralità di legami e oggetti amorosi, per la quale non sempre abbiamo le parole adatte. I miti della tradizione vengono in nostro soccorso, consentendoci di trovare le parole, le immagini, le figure retoriche per descrivere tale varietà del reale. Dove naturalmente non si tratta di semplice ripetizione ma di una vera propria reinvenzione, perché il Don Giovanni d'internet non è certo il Don Giovanni di Mozart. Rinasce diverso. Lo stesso accade per Romeo e Giulietta e per tutti gli altri eroi della letteratura amorosa. Sono miti insostituibili che possono reintrodurre la dimensione dell'immaginario nell'universo asettico e formattato delle nuove tecnologie. Sono miti che ci consentono di rendere più complesso e quindi più umano il mondo dell'iperconnessione. Insomma, delle storie d'amore avremo bisogno ancora a lungo»." (da Fabio Gambaro, Julia Kristeva: Il Web a lezione da Shakespeare. "L'amore ha bisogno di segreti, Facebook e' solo performance", "La Repubblica", 29/05/'12)

martedì 5 giugno 2012

L'arte della scrittura

"Il libro dev'essere vento e aprire le tende», dice un verso di Nazim Hikmet. Parto da questa frase per una conversazione sull'attività della scrittura letteraria. Non posso chiamarla lavoro nel mio caso. Quello è stato eseguito dal corpo che ha venduto il suo servizio in cambio di salario. Ho del verbo lavorare una notizia ristretta e manuale. Non le ho lasciate in pace, le mie mani, non le ho tenute in tascao nel fodero dei guanti. Quando le uso per tenere aperto un quaderno sopra le ginocchia e scriverci qualcosa, stanno riposando. Per me scrivere è tempo festivo, opposto al verbo lavorare. Il 1900 è stato il secolo degli operai e del riscatto del lavoro manuale. Scaduto quel tempo, dal riscatto si torna al ricatto del lavoro manuale: o si piega servile, senza dignità e diritti o viene espulso. Chi scrive oggi ha perfino smesso di impugnare una penna, invece sfiora con i polpastrelli una tastiera. Spolvera anziché imprimere. Lo schermetto illuminato risponde da soldatino, con righe impettite, ben allineate. Lo scrittore di tastiera agisce da sergente, quello su quaderno è ancora uno scolaro. Dylan Thomas conclude una sua pagina con il verso: «Le mani non versano lacrime» (Hands have no tears to flow). Non possono, è vero, ma quelle giuste sono capaci di asciugarle. Il 1900 si è dedicato alle scritture brevi. Le sue esperienze più numerose sono state le emigrazioni, le prigionie, le guerre di sterminio. Perciò il necessario della scrittura si è dovuto concentrare in poco spazio. Non c'era tempo né inchiostro e così il 1900 si è espresso meglio con le lettere e con le poesie. Da quando faccio l'attività di scrittore una gran parte del mio scrivere si è sparpagliato in lettere. Non ne conservo copia né rileggo prima di spedire, non devo correggere. Le lettere appartengono a chi le riceve. Qui di seguito rispondo alla richiesta di una persona giovane che mi chiede notizie circa la sua spinta a scrivere per il desiderio di vedere in stampa le sue pagine. Rispondo con il tu che si deve a chi sta alla stessa tavola, una sera di pochi clienti all'osteria. Non spedire le tue pagine a uno scrittore. Non si mandano scarpe fatte da sé ai calzolai, non si spedisce al pasticciere un dolce cotto in casa perché lo assaggi. Darsi per compito la scrittura non passa per la sponda di un altro scrittore. Serve una casa editrice: se la tua spedizione viene respinta, ignorata, perduta, non ricorrere alla lusinga di chi ti offre di pubblicarla ma a tue vive spese. Non farà ufficio stampa né la distribuzione promessa e nel giro di un anno ti chiederà di acquistare l'invenduto, altrimenti dovrà mandarlo al macero. Meglio se ti procuri una tipografia o se stampi da solo, oggi si può. Ne tiri un centinaio di copie e le distribuisci a chi ti vorrà leggere. Forse trovi il libraio che tiene per un po' il tuo libro in vetrina, se gli vai a genio. Darsi alla scrittura non è un percorso tratteggiato da puntini: riuniscili con la matita e apparirà l'immagine. Come in altre faccende nostre, si tratta di accettare lo zigzag, la divagazione, la permanenza nel deserto. Se ti metti a seguire le quarantadue tappe di Israele nel Sinai, scopri lo sbandare insistito di chi ha perso la via di casa. Gli Ebrei avevano fede in un'assistenza, confermata dal rifornimento della manna. Uno che invece ficca il suo bagaglio nel cartoccio della scrittura, deve incamminarsi senza nessun segnale di assistenza. Più che di solitudine, dev'essere capace di isolamento, una disciplina di silenzio pure dentro una folla. Chi scrive ha davanti a sé la modica vastità di un vuoto. Non lo deve riempire, lo deve abitare. Non avere capomastri. Puoi ammirare un'altra scrittura, ma poi devi scrollartela di dosso. Leggi le opere degli scrittori da lettore e non da collega dell'autore. Altrimenti può succederti quello che racconta Robert Walser dopo la sua lettura di Dickens: la disperazione di mettersi a scrivere dopo di lui. Si dispera perché ha letto Dickens da scrittore, sapendo di non poter mai scrivere quelle pagine come ha fatto lui. È logico, Dickens sta nel campo della sua storia e chi ci entra deve farlo da visitatore, è un ospite non un socio d'impresa. Leggi un camion di libri ma da lettore, senza pensiero di paragone tra quello che sfogli e le tue pagine. Il bravo allievo di un hasìd, titolo di sapienti ebrei dell'Europa orientale, veniva allontanato dal suo maestro che lo spediva a compiere il suo «oprichten goles», l' esilio volontario. Nel vagabondaggio lontano da biblioteche e scuole, nel rischio di cedere e smarrirsi, avviene il perfezionamento o la disfatta. Scrivere è un modesto sbaraglio da accettare senza condizioni. Per mare non ci stanno taverne. Impara una seconda lingua. Ne ho studiate alcune per inseguire i poeti dentro la loro tana. Mi spingeva l'ammirazione, un sentimento intransitivo. Si ammira senza il minimo pensiero di essere come, stabilire anche un minimo comparativo di minoranza tra la persona o l'opera ammirata e me stesso. L'ammirazione è opposta all'invidia, che è transitiva, ha desiderio di essere come, essere al posto di. L'invidia è un errore ottico, ignora la distanza, fa credere di trovarsi a portata di mano. Ho ammirato dei poeti, li ho seguiti nelle loro lingue e mi sono applicato a tradurre qualche loro verso. Ho forzato il mio vocabolario nella tensione di raggiungere la precisione. Anche se già tradotti e meglio, mi sono accanito in una mia fedeltà all' originale. Questa pratica dell'ammirazione ha migliorato la mia lingua. Non lo sapevo prima, lo riconosco adesso e perciò raccomando l'esperienza della traduzione. Il poeta tedesco Heinrich Heine racconta un suo episodio di giovane scolaro della lingua francese. Il professore gli chiede come si traduce «Glaube», fede. Lui non ricorda, ci pensa e infine al posto di «Foi», risponde «Credit», credito. La classe scoppia a ridere, il maestro lo rimprovera. Da quel momento, conclude Heine, si guastò irreparabilmente il suo rapporto con la religione. A me il suo errore spiega qualcosa in più. La fede, che ho visto in quelli che l'abitano, è una continua richiesta alla divinità di essere nella sua vita quotidiana. Il credente, in obbedienza al participio presente del verbo, è chi continua a credere, rinnovando il suo atto di fede. La fede è così una ribadita apertura di credito nei confronti della divinità. L'errore di Heine mi ha aiutato a saperlo. Nelle traduzioni l'urto e l'accostamento tra le parole di due lingue aumentano la loro energia. Marcos Ana ha passato ventidue anni della sua vita in prigione, al tempo della dittatura di Franco, dopo la guerra civile spagnola. Torturato, condannato a morte, pena poi commutata in carcere a vita, alla morte del dittatoreè uscito dalle celle. In prigione ha imparatoa scrivere versi. E' stato uno degli innumerevoli poeti del 1900 che hanno vissuto dietro le sbarre. Riabituarsi all'aria aperta è stato difficile, specialmente guardare l'orizzonte. Lo spazio spalancato davanti gli procurava vomito e vertigini. Da uomo libero ha incontrato il celebre poeta spagnolo, premio Nobel, Miguel Angel Asturias. Hanno parlato di poesia e Marcos Ana riferisce un passaggio della loro conversazione. Asturias gli disse che quando in un verso gli veniva un aggettivo troppo semplice, lui cercava nel vocabolario quello più prezioso. Marcos rispose che lui faceva il contrario. Quando gli sembrava che la sua parola non fosse la più semplice, cercava nel vocabolario il termine più corrente. Auguro a te di non sfogliare il dizionario per nessuna delle due ragioni. Aprilo invece per la sua bellezza, per il deposito di storie contenute in ogni vocabolo. Se ne leggi una pagina vedrai spuntare pensieri, storie, ricordi. Le parole di un dizionario sono conchiglie, sembrano vuote ma dentro ci puoi sentire il mare. Non frugare quel solenne elenco come il cercatore dentro una miniera, per estrarne una cosa sola, ma come uno che percorre un campo e legge il brulichìo delle specie viventi. Considera la tua pagina una sequenza di passi in montagna, dove è rischioso a morte il margine di errore. Le sillabe sono passi su piccoli appoggi, devi posarci il peso della frase, della voce. Usa la virgola, il punto, l'accapo. Il 1800 ha usato molto il punto esclamativo, il 1900 poco, io faccio senza, ma non è una regola, solo un'astinenza. Mi devono bastare le parole scritte a suscitare il punto esclamativo in chi le sta leggendo. Altrimenti è un effetto artificiale, come il cartello «applausi» in una trasmissione televisiva. Fai che la tua scrittura risenta il callo del dialetto di origine. L'Italiano più che dal latino proviene da un' Amazzonia di dialetti, un bacino alluvionale di parlate locali arroccate in centinaia di borghi, suddivise in millesimi di sfumature, dialetti rimasti inespugnabili per secoli. L'italiano sta a valle di innumerevoli affluenti, indipendenti e fieri del loro vocabolario, dell'accento irripetibile da chi non ci è nato." (da Erri De Luca, L'arte della scrittura, "La Repubblica", 03/06/'12) Erri De Luca su IBS