venerdì 30 marzo 2012

Se l'ebreo errante leggesse gli e-book


"Da bambino, non distinguevo chiaramente tra la mia propria identità e quella che i libri creavano per me. Non distinguevo, cioè, coscientemente tra i ruoli che i libri inventavano per me (Sinbad o Crusoe per esempio) e quelli che mi derivavano da circostanze familiari e o da dotazione genetica. Io ero quel protagonista di cui leggevo e sognavo, mentre il mondo dei libri usciva dalla pagina per inondare la realtà convenzionale e viceversa. Lo spazio era quello che attraversava il magico tappeto di Sinbad e il tempo erano i lunghi anni che Crusoe aveva trascorso in attesa di essere salvato. Più tardi, quando la differenza tra la vita di ogni giorno e le storie notturne si insinuò in me, mi resi conto che, in una certa misura, grazie ai miei libri, mi erano state date le parole che rendevano comprensibile la prima e decifrabili le seconde, offrendo in entrambi i casi una certa consolazione. Può essere che, di tutti gli strumenti che ci siamo inventati per aiutarci lungo il cammino della conoscenza di noi stessi, i libri siano i più utili, i più pratici e i più concreti. Prestando parole alla nostra sbalorditiva esperienza, i libri diventano le bussole che segnano i quattro punti cardinali: mobilità e stanzialità, introspezione e tensione verso l'esterno. L'antica metafora che vede il mondo come un libro che leggiamo e in cui noi stessi siamo letti, semplicemente riconosce questa qualità di guida e di orientamento. In un libro, nessun punto è esclusivamente il nord, infatti, se anche ne scegli uno, gli altri rimangono attivamente presenti. Persino dopo che Ulisse è tornato a casa per trovare pace, Itaca resta un porto di scalo sulle coste di un mare allettante, uno degli innumerevoli volumi della biblioteca universale. Dante, cercando la suprema visione dell'amore che tiene «legato in un volume ciò che per l'universo si squaderna», sente il suo desiderio e la sua volontà virare verso quell'amore «che muove il sole e le altre stelle» («Ma già volgeva il mio disio e il velle, / sì come rota ch'igualmente è mossa, / l'amor che move il sole e l'altre stelle»). È così anche per il lettore che, alla fine, trova la pagina scritta per lui, una parte di quell'enorme, mostruoso volume formato da tutte le biblioteche e che dà un senso all'universo. Ciononostante, quasi tutte le rappresentazioni dell'Ebreo Errante lo mostrano senza libri, impegnato a cercare la salvezza in un mondo di carne e pietra, non in quello delle parole. Questo suona sbagliato. Nella più popolare delle versioni romanzate, il feuilleton ottocentesco di Eugène Sue, il tema centrale è quello del malvagio complotto gesuita per governare il mondo; l'impresa intellettuale del Vagabondo senza tempo non viene esplorata. Nel vagabondaggio di Ahasverus, secondo questo autore, le biblioteche sono principalmente ambienti conviviali in case aristocratiche, mentre i libri o sono trattati bigotti o perversi cataloghi di peccati sotto l'apparenza di manuali gesuiti per la confessione. Ma è difficile credere che un Dio misericordioso condannerebbe qualcunoa restare in una sala d'attesa di dimensioni mondiali senza qualcosa da leggere. Invece, m'immagino Ahasverus al quale sono stati garantiti duemila anni di lettura itinerante; lo immagino visitare le più grandi biblioteche e librerie del mondo, esausto a furia di riempire la sua borsa di libri con tutte le ultime novità uscite durante i suoi viaggi, da Il Milione di Marco Polo al Don Chisciotte di Cervantes, da Il sogno della camera rossa all'Orlando di Virginia Woolf, in cui (come ogni lettore) troverà tracce del proprio curioso destino.
Avvicinandosi ai nostri tempi, per non essere troppo carico, il nostro Vagabondo viaggerà forse con un e-book che periodicamente ricaricherà negli internet caffé. E nella sua testa di lettore, le pagine, stampate e virtuali, si mescolano e si sovrappongono e creano nuove storie dalla quantità colossale di memorie e di letture ricordate solo in parte, moltiplicando a migliaia i suoi libri, e poi ancora ed ancora. Eppure, persino nella Biblioteca Universale, l'Ebreo Errante, come il Lettore Ideale, non potrà mai essere soddisfatto, non potrà mai essere confinato nel perimetro di una sola Itaca, di una sola ricerca, di un solo libro. Per lui, l'orizzonte di ogni pagina deve sempre - per fortuna, diciamo noi - superare la sua comprensione e il suo spirito, così che da ogni ultima pagina nasca sempre una nuova prima pagina. Poiché, come abbiamo detto, ogni libro una volta terminato ci conduce ad un altro che giace in paziente attesa, e ogni rilettura garantisce al libro una nuova vita in forma diversa.
La biblioteca di Ahasverus (che, come tutti i migliori lettori, la porta in gran parte con sé nella propria testa) riecheggia attraverso una galleria di specchi che rimandano commenti e glosse di ogni testo. Ogni biblioteca è una biblioteca fatta di ricordi: in primo luogo perché conserva le esperienze del passato e in secondo luogo perché vive nella testa di ogni lettore. L'Ebreo conosce bene questa pratica." (da Alberto Manguel, Se l'ebreo errante leggesse gli e-book, "La Repubblica", 30/03/'12)

martedì 27 marzo 2012

Eddy il santo


"Ci sono libri che, in corso di lettura, ti fanno venire voglia di conoscere uno dei personaggi che li abitano; non l’autore, badate bene, che a volte può essere una delusione. Ecco, io di questo libro ne vorrei conoscere due. Il primo è l’ineffabile Eddy Stein, truffatore part-time e musicista di strada talentuoso ma pigro; buontempone, cortese ed onestissimo a Kreutzberg, il quartiere di Berlino dove vive, e abilissimo alleggeritore di portafogli e altro nel resto della metropoli. Una specie di Johann von Allmen in versione beat (per chi conosce il personaggio di Suter, ho già detto molto; per chi non lo conosce, magari se lo va a leggere, e mi ringrazierà). L’altro personaggio notevole è il suo collega Arkadi: collega di note, e non di truffe, perché il buon Arkadi è a conoscenza dell’attività criminale di Eddy, ma non vuole esserci coinvolto neanche lontanamente.

Conscio di questo, il buon Eddy non lo coinvolgerà affatto in una truffa, bensì in un omicidio.
Accade infatti che, in modo assolutamente fortuito e involontario, Eddy provochi la morte di un noto ed odiaterrimo industriale della città, Horst Konig, facendolo andare a sbattere contro un mobile; tutto questo nel palazzo dove Eddy abita, e con la simpatica consapevolezza che fuori dall’unica uscita del palazzo ci sono due guardie del corpo del de cuius. Defunto che non è un mostro di popolarità a Berlino, avendo svenduto – dopo averla rilevata – un’industria da ottomila dipendenti, i quali si sono trovati in mezzo alla strada con rapidità tutta teutonica.

Per trarsi d’impiccio, Eddy farà ricorso ad Arkadi e ad uno dei tre o quattro colpi di genio disseminati lungo il libro; dopodiché, roso nell’animo, tenterà di scaricarsi cercando di spiegare alla figlia del deceduto che la sua uccisione è stata, in tutto e per tutto, una disgrazia.

Di un libro del genere, meno si parla della trama e meglio è; anche perché la trama stessa riserva qualche sorpresa. E che il fatto sia ambientato a Berlino, a mio avviso, è poco rilevante, a meno che non serva a sottolineare la scarsità di comunicazione e di scambi tra quartieri diversi di una città, al punto che uno come Eddy può permettersi di fare il menestrello sulle strade della capitale del Brandeburgo, pur avendo messo su una solida attività di truffatore nella stessa città. O anche il fatto che una persona possa vendere un’attività da ottomila persone senza che nemmeno un politico emetta un rumore, cosa che a dire il vero ultimamente sta diventando di moda anche da noi.

Quello che più attrae del libro sono proprio i personaggi, a partire da Eddy, che all’inizio non fa molto per risultare simpatico (difficilmente i truffatori lo risultano) ma che si rivaluta parecchio nel corso della storia; piuttosto azzeccati, in particolare, i soliloqui interni con cui Eddy classifica le sue potenziali vittime. Altro personaggio notevole è un giornalista di gossip, Braake detto Schaabrake, uno di quei personaggi troppo brutti e schifosi per essere veri, ma che in un romanzo del genere ci stanno benissimo, e con cui Eddy si confronterà a distanza variabile per tutta la storia.

Ecco, questo forse è il punto focale: perché la storia ha un che di poco verosimile, e i personaggi anche. Un poco troppo indovinati, un poco troppo esagerati, un poco troppo perfetti nella loro interpretazione. Ma è mal di poco, intendiamoci: nessuno chiederebbe a James Bond o a Indiana Jones di fare cose credibili, ed è la loro onnipotenza a tutto tondo che li rende attracchi affidabili per i nostri diporti intellettivi.

Qui Arjouni stabilisce un patto col lettore, e lo mantiene dall’inizio alla fine di duecento pagine di lettura scorrevole e divertente, con una scrittura spigliata ma controllata. Con una storia che, alla fine, ha una soluzione non scontata e non buonista, ma molto realista (che mi ha ricordato un altro bel libro della Marcos, Alla grande, di Cristiano Cavina) e soprattutto logica e coerente con tutto quello che è venuto prima, storia e personaggi inclusi. Il che, in un’epoca di serial killer spietati quanto deliranti, non è poco." (Marco Malvaldi, Trappola a Berlino
per santo truffatore
, "La Stampa", 24/03/'12)

Anche stasera. Come l'opera ti cambia la vita


"In Italia 686. In Francia 147. In Ispagna soltanto 6, ma in Svizzera son già 43. Totale generale, ad oggi: 1100. Prosegua così e il suo catalogo supererà presto quello di Don Giovanni. No, non esiste una terapia per la sindrome di cui si soffre, lui lo sa bene ed è lietissimo di rimanere un portatore sano di mal di lirica.

Anche stasera. Come l’opera ti cambia la vita - in uscita per Mondadori (sarà presentato il 3 aprile a Milano al Bookshop della Scala e il 4 aprile al Piccolo Regio di Torino, con il direttore della Stampa Mario Calabresi e il Sovrintendente del Regio Walter Vergnano), è l’autobiografia di Alberto Mattioli come spettatore d’opera, attività che svolge da quando è nato. Quarantré anni, professione principale «operoinomane», poi anche giornalista e inviato di questo giornale a Parigi, l’autore ha uno scopo preciso: egli è un untore, vuole estendere il virus quanto più è possibile.

«Di tutte le seccature inventate dall’uomo, l’opera è la più costosa», diceva Molière. Eppure, giunta ormai al suo quinto secolo di esistenza, questa seccatura nata in Italia agli inizi del Seicento è una forma d’arte ancora in fase di espansione geografica; nessun continente è immune dal made in Italy globalmente più diffuso: si cantano le opere italiane a New York e a Pechino, a Buenos Aires e a San Pietroburgo. E quando il direttore è in forma, l’orchestra reattiva, i cantanti in parte, e il regista coglie nel seno – circostanze che raramente si verificano tutte assieme – allora il piacere può essere sublime, mentre accade lì davanti a te che guardi, ascolti, ti commuovi e credi che tutto diventi possibile, perfino che un soprano muoia cantando. Anche se il signore accanto sta scartando con infinita lentezza una caramella, anche se la giovane coppia «glamour» seduta lì e capitata chissà come alla prima della Scala, scopre con terrore in quel momento che Tristano e Isotta è cantato in tedesco, dura quattro ore, ma loro non potranno fuggire.

Le pagine di costume e di satira rivelano un tratto narrativo affilato e veloce che candida Mattioli ad ereditare lo scettro di Alberto Arbasino. Anche questo suo viaggio inizia in provincia, quella emiliana naturalmente, nei teatri dove il loggione è sempre in agguato, pronto a infilzare di fischi il malcapitato, ma anche a lanciare carriere mirabolanti, come quella di Luciano Pavarotti. Tra tenori e soprani, prevalgono le signore: le Katie e le Raine, le Mirelle e le Marielle, le Waltraud e le Edite, e tutte quelle che continuano a cantare anche quando non dovrebbero più, prolungando all’infinito il loro «ultimo concerto».

Anche stasera è un libro di pancia e di testa, in equilibrio tra passione ed analisi. Le antipatie: verso Riccardo Muti, di cui Mattioli proprio non rimpiange gli anni scaligeri, ricordando l’infelice Europa riconosciuta , l’opera di Antonio Salieri con cui il direttore decise di inaugurare la Scala al ritorno nella sede restaurata dopo l’esilio agli Arcimboldi, e fu il trionfo della noia. Dal resto, l’autore dichiara di «amare Abbado più di me stesso». Subito dopo, nella classifica delle antipatie, vengono le «care salme», cioè il pubblico che non sopporta le novità, e i colleghi critici (lui fieramente dichiara di non appartenere a questa «casta»), rimproverati di eccesso di ovvietà o di servilismo. A pari merito gli intellettuali modaioli che sentono l’impulso di occuparsi d’opera, inanellando diademi di castronerie, e i giornalisti che soffrono della stessa vanità. Memorabile l’infortunio di Vittorio Feltri, in occasione del Candide di Bernstein allestito a Parigi con la regia di Robert Carsen, che in una scena rappresentava Putin, Chirac, Blair, Bush junior e Berlusconi vestiti soltanto di boxer e cravatta nei rispettivi colori nazionali. L’allestimento doveva approdare alla Scala e dunque nevrastenia generale: invettive dei politici del centrodestra, presa di distanza del teatro, e il memorabile granchio di Libero che in un editoriale del direttore attaccò Leonard Bernstein, l’autore del Candide , ritenendolo ancora vivo. Eppure, c’è Wikipedia.

Il racconto scende in profondità nei capitoli dedicati al teatro musicale barocco, in particolare di Haendel, di cui l’autore sa cogliere non solo la bellezza vocale e strumentale, ma la modernità drammaturgica e anche politica, e a Verdi «arcitaliano»: «Verdi è stato un grande antropologo dell’Italia, un raccontatore di vizi e di virtù, figure e figuri, “tipi” e costanti nazionali. Uno degli intellettuali che ci hanno raccontati per come siamo e non per come dovremmo essere, con uno sguardo spietato e che non rimane meno lucido perché appassionato. In questo, Verdi è in piccola ma scelta compagnia, insieme al Leopardi che non fanno leggere a scuola, a Gramsci, a Fellini».

Così, il teatro d’opera diventa anche una casa di civiltà, un’«architettura della memoria» che, soprattutto noi italiani, abbiamo ricevuto in dono dalle generazioni precedenti e avremmo il dovere di consegnare - in una salute magari migliore di quella di oggi – alle future.

Il «Bignamino lirico» che chiude le 200 pagine evidenzia la capacità di sintesi, tutta giornalistica, dell’autore. Però, Mattioli, la sua visione di Parsifal è tendenziosa: l’ultima di Wagner non è un’opera «di redenzione», al contrario narra disperazione. La sfido, per dimostrarglielo. Dove? A Bayreuth, naturalmente, la «Lourdes musicale» dove ci si inebria di pura mistica al profumo di birra e salsicce. Si presenti con libretto e partitura. All’armi, all’armiiiiiiiiiiiiiii! (senza abbassare l’acuto, come invece fece quella sera Pavarotti, ricorda?, perché lei naturalmente c’era)." (da Sandro Cappelletto, Finché c'è opera c'è speranza, "La Stampa", 27/03/'12)

lunedì 26 marzo 2012

Per favore, dite e tutti cosa state leggendo


"Forse non c'è proprio nulla da fare. Nemmeno le crisi del cinema e della tv generalista, abbinate al mutato clima di montiana sobrietà, portano italiani verso il libro, anzi; né vale più la tradizionale consolazione del libro come prodotto anticiclico, che va bene quando il resto va male. Oggi il resto va male, il libro va malissimo. Quando si è alle prese con un'impasse italiana, per provare a uscirne è buona misura cercare l'elemento astratto in primo piano (ce n'è sempre almeno uno) e quello concreto nascosto (c'è sempre anche quello). L'elemento astratto qui sta nella liturgica esortazione alla lettura. «Italiani, leggete; leggete di più, e qualsiasi cosa: l'importante è leggere perché leggere vi rende migliori». Guai a specificare come, cosa, dove. La lettura è vista come la preghiera: un atto intimo o pia intenzione che (quando c'è la fede) trova il suo modo di funzionare da sé, e per via sovrannaturale. Cosa sia, di preciso, nessuno lo sa o lo dice: ma almeno come placebo, deve funzionare senz'altro. Lo dicono tutti! L'elemento concreto sarebbe invece il libro, che in Italia è perfettamente invisibile fuori dai luoghi in cui lo si vende o lo si promuove. Quando mai un personaggio pubblico è stato fotografato nell'atto di leggerne uno? Quando mai un presidente del Consiglio ha citato un libro, e magari non Pinocchio, Il piccolo Principe o la Bibbia? Non si parla di Berlusconi, che va beh; anche questi nostri raffinatissimi governanti attuali sembrano perpetuare l'equivoco della luce accesa a Palazzo Venezia sino a tardi, per provvedere a noi. Leggere è da fannulloni e bamboccioni. Bisogna averlo fatto a vent'anni. Finita la formazione, il lavoro non darà mai più modo di aprire un libro: purtroppo. Quanti rimpianti. Il bello è che tutti di libri ne scrivono, o almeno ne firmano; oppure li presentano, per esempio se l'autore è Bruno Vespa. Ma in quanto a leggere e servirsene, mistero. Cosa legge, il Capo? Non lo sappiamo del premier Monti, ma del mister Montella sappiamo che dava ai suoi giocatori L'alchimista di Paulo Coelho. È qualcosa. Ma Fornero? Marchionne? Marcegaglia, Squinzi, Camusso, Montezemolo, Confalonieri, Armani, Draghi, Fiorello, Passera, Bagnasco, Casini, Pausini, Manganelli (il capo della Polizia), Bertone, Mentana ...? Quando mai a uno degli uomini e o a una delle donne (ma sono quasi tutti uomini) più influenti d'Italia è scappato detto qualcosa di non banale o banalmente emozionale a proposito di un libro? La lettura è un'attitudine imitativa, si prende se si vede che gli altri ce l'hanno. Per questo, dire che leggere fa bene non serve a nulla, se nessuno ci ha mai visto farlo. Tullio De Mauro ha detto che il livello culturale di un italiano non è più (come era una volta) funzione del reddito della sua famiglia, ma del numero di libri presenti nella sua casa natale. Molti bambini leggono; poi già durante le elementari o le medie non vedono più alcun coetaneo o alcuna coetanea che legga per piacere e non per costrizione: allora, via i libri. A differenza di chi sta lavorando, telefonando o chiacchierando, chi legge può essere sempre interrotto: è così annoiato da aver addirittura voglia di leggere. Si leggeva in stazione: ora è impossibile, ci sono ovunque video pubblicitari fracassoni che impediscono di concentrarsi sia pure su Tex. A giudicare insomma da quanto si vede in Italia è chiaro che la lettura è un passatempo del tutto ozioso, adatto a quei pochi eccentrici a cui andare a scuola piaceva. Gli slogan possono esortare alla lettura, a parole: ma nei fatti la dichiarano vana e snob." (da Stefano Bartezzaghi, Per favore, dite e tutti cosa state leggendo, "La Repubblica", 24/03/'12)

Il Paese dei lettori deboli


"Per gli editori è uno schiaffo che fa male, o forse qualcosa di più. Per tutti gli altri è una catastrofe culturale, sempre nell'accezione classica: non una tragedia, ma un radicale passaggio d'epoca. «Sicuramente è un dato pesante che, se viene confermato alla fine del 2012, potrebbe determinare una crisi molto grave dell' editoria libraria». Non sono parole leggere quelle pronunciate da Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il Libro, mentre illustra il sondaggio realizzato da Nielsen su lettura e vendita in Italia nell'arco del 2011. A preoccupare non sono tanto le cifre complessive, che anzi attenuano i nostri complessi di comunità non leggente, quanto il raffronto tra l'ultimo trimestre dell' anno passato con il corrispondente trimestre del 2010. Gli acquirenti sono calati del 10%, e la spesa complessiva del trimestre è scesa del 20%, da 587 a 471 milioni di euro. In altri termini, compriamo meno libri, scegliendo tra quelli a minor costo. Un trend al ribasso che appare confermato dal primo trimestre del 2012 (anche in assenza di dati ufficiali). «Ora bisogna aspettare», suggerisce Ferrari. «La campanella d'allarme potrebbe tradursi in qualcosa di più serio. Un comparto fondamentale della nostra industria culturale viene messo a dura prova da una sberla bestiale. E piccoli e medi editori sono quelli più esposti. Ma prima di pronunciare profezie apocalittiche preferisco attendere i dati complessivi di tutto l'anno». Al momento la mappatura di Nielsen, che rileva mese dopo mese acquisti e letture di 9.000 famiglie (dai 14 anni in su), non è certo rassicurante. Possiamo forse mitigare la nostra consueta mortificazione, rispetto alla comunità internazionale, grazie al nuovo dato che innalza al 49% gli italiani lettori: la cifra vuol dire che metà della popolazione prende in mano almeno un libro all'anno. Un gigantesco passo in avanti rispetto agli esordi nazionali di centocinquant'anni fa, caratterizzati da una schiacciante maggioranza di analfabeti. Ma può far riflettere il dato che il 70% di lettori sia nella fascia tra i 14 e i 19 anni, ossia tra gli studenti delle superiori «costretti» alla lettura dagli insegnanti. Ed è una consolazione mesta, la crescita della cifra complessiva di leggenti, se ci concentriamo su quel secondo elemento, «almeno un libro all'anno». Perché rimangono pochi, pochissimi coloro i quali hanno reale dimestichezza con le pagine scritte. Pochi che sono sempre gli stessi, laureati e socialmente attrezzati, a conferma che il nostro è un paese di lettori a struttura piramidale, che poggia sul vertice e non sulla base. «Da noi la lettura», commenta Ferrari, «continua a essere un bene elitario e poco diffuso. La platea di lettori è ampia ma rada, tranne un fortilizio agguerrito che macina ogni anno dai dodici titoli in su». Il 5% della popolazione italiana consuma il 41% del mercato, due milioni e mezzo di italiani che non hanno niente da invidiare ai lettori tedeschi o francesi. Ma anche questo fortilizio si va erodendo. Anche l'ultimo bastione mostra cedimenti, con un calo di lettori forti intorno al 18% (e degli acquirenti del 20%): cifra che, seppur ristretta all'ultimo trimestre del 2011, sembra confermare il tracollo segnalato recentemente da Giovanni Peresson sulla base di cifre Istat. Guardando tutte queste cifre Marco Polillo, presidente dell'Aie, non ha dubbi: "sono dati disastrosi e allarmanti". Anche perché l'esodo dal libro di carta non è certo compensato dal rifugio nell'e-book. Anche qui le cifre disegnano un mercato ristretto (tra 1,1% e il 2,3%), molto distante dai vaticinii dei profeti elettronici. E certo colpisce la rilevante differenza tra gli e-book letti (1 milione e 100.000) e gli e-book acquistati (567.000), a conferma che sul campo gravano ancora la pirateria e l'assenza di regole certe. «Il libro elettronico rimane lo strumento del futuro», rimarca Ferrari, «ma questo futuro in Italia appare ancora lontano. E noi oggi dobbiamo misurarci con un mercato tradizionale segnato da altri problemi». Un mercato che presenta una struttura quasi arcaica anche nella distribuzione. In tempi segnati dall'online, scopriamo che l'edicola continua a esercitare grande fascino, superiore a quello della rete. Può sorprendere che l' acquisto dei libri in Internet sia sotto il 9% (in Germania e in Inghilterra supera il 20%), surclassato dalla spesa in edicola, in abbinamento ai giornali (5%) e non in abbinamento (7%). Ferrari richiama l'attenzione sulla resistenza della libreria tradizionale (25%) rispetto alla libreria di catena (17%), che si mostra sofferente rispetto alla grande distribuzione (17% tra ipermercati, supermercati e autogrill). Un dato che acquista una luce diversa a seconda del punto di vista: cambiando prospettiva, si potrebbe dire che solo un quarto del mercato dei libri passa attraverso le librerie indipendenti. La crisi batte, e colpisce duro. L'acquirente si rivolge prevalentemente alle fasce basse di prezzo, con un aumento crescente dei libri dai sei ai dieci euro, mentre la copertina più penalizzata è quella tra i 20 e 25 euro. Segno che le collanine low cost e le sigle discount hanno saputo veder lontano. Siamo dunque risparmiatori, ma meno provinciali di quel che dice la vulgata. Il numero degli autori stranieri acquistati dagli italiani si mantiene abbastanza alto (40%), niente di paragonabile agli sciovinisti francesi o ai lettori anglosassoni, felicemente autosufficienti. «Solo noi e i tedeschi», commenta Ferrari, «mostriamo grande attenzione per il resto del mondo. O forse è un complesso di inferiorità che ci portiamo dietro dalla batosta della seconda guerra mondiale». Con una curiosità: nell'acquisto dei libri privilegiamo nettamente i nostri autori, mentre nella lettura ci lasciamo andare più liberamente ai narratori di altre contrade (la percentuale sale di otto punti). Misteriose alchimie che illuminano aspetti nascosti del carattere italiano." (da Simonetta Fiori, Il Paese dei lettori deboli, "La Repubblica", 24/03/'12)

Ricuperati, 'Su quel taxi a Manhattan. Il mio ricordo di Antonio Tabucchi'


"La sola cosa buona di aver incontrato Antonio Tabucchi così poche volte è lo splendido nitore che avvolge tutti i carati del ricordo – quattro occasioni, in quattro città del mondo diverse, New York, Bucarest, Lisbona, Parigi, più una lunga telefonata da Torino, in poco più di sei mesi di intensa frequentazione mentale. Poi il nulla – e la stretta annacquata di un rimorso senza grinta, ora, in questa domenica di primavera con le ombre finalmente chiare fino a sera, a poche ore dalla notizia che Antonio non respira più con noi. Avrei dovuto capire meglio: avrei dovuto chiarire: avrei dovuto vederci meglio, perché ero quello più giovane e solo gli adolescenti e i vecchi possono permettersi di essere permalosi - e quando l'ho conosciuto non ero vecchio, e non ero adolescente da un pezzo.
Ho conosciuto Antonio Tabucchi alla fine dell'estate 2007, quando lui aveva sessantatrè anni e io ventinove – a New York, su un tassì, attraversando Manhattan da Midtown al Lower East Side, dove stavamo andando perché avevo chiesto a un suo amico caro, Norman Manea - scrittore ebreo rumeno che ha avuto la singolare ventura di essere stato perseguitato in una sola vita dai comunisti (Ceausescu) e dai nazisti (nella Buchovna dei primi anni '40) - di partecipare alla presentazione americana di Abitare, rivista allora diretta da Stefano Boeri, il quale aveva affidato a me, scrittore-non-scrittore, l'impervia idea che guidava l'intero progetto editoriale: abbinare l'architettura alla letteratura contemporanea, presentare ogni edificio insieme a un racconto d'autore. Manea aveva esteso l'invito a Tabucchi, che era lì per qualche iniziativa del PEN Club, e in uno di quei giri di valzer tra porte scorrevoli, borse piene di libri e traffico cittadino, sull'orlo del marciapiede, abbiamo deciso di imbarcarci tutti e tre sulla stessa auto, diretta verso Polizzotti Park – dove si teneva l'evento. Tabucchi era un intellettuale completo e curioso, ma credo che l'avesse fatto perché c'entrava il suo amico Manea, e perché c'entrava un gruppo di giovani, e soprattutto perché era un uomo generoso e gli uomini generosi sono generosi soprattutto con quelli nati dopo di loro.
Un paio di giorni dopo saremmo andati a mangiare una pasta in un ristorante italiano, nell'Upper West Side, io lui e la moglie: credo di aver girato un filmino con il cellulare, ma non voglio rivederlo, perché da quel che ricordo Tabucchi si stava lamentando di qualcosa, probabilmente parlavamo di Pd o di Berlusconi, e non voglio associare questi due diversi generi di fallimento italiano alla memoria di uno scrittore.
La seconda volta fu a Parigi – nel suo appartamento di Rue de l'Universitè, di cui trattengo con precisione solo una specie di tinello con un fax, e il nostro incontro interrotto da due telefonate diverse: una con un giornale italiano, una con Milan Kundera, che aveva invitato Tabucchi a una manifestazione cinematografica parigina. In casa c'era una studiosa che collaborava con lui, e conservo due cose di quel pomeriggio: un lungo ragionamento intorno a Robert Walser, il grande eccentrico autore svizzero sulla cui Passeggiata (Adelphi) Tabucchi mi avrebbe inscritto una bellissima dedica; e la strana, invidiabile condizione di appartenere alla ristretta élite di ‘international authors' pubblicati e tradotti ovunque, presenti sui grandi giornali e nel dibattito di attualità, invitati dalle università e dalle istituzioni di qualsiasi latitudine.
La terza volta avvenne a Lisbona – anzi, nella casa del mare della famiglia Tabucchi-Lancaistre, nella baia di Troia, a mezz'ora di treno dalla capitale portoghese, e so di aver fatto un breve viaggio in traghetto, e all'approdo di aver visto il grande manierista postmoderno di Notturno Indiano che viene a prendere un giovane che non è stato suo allievo, che non ha niente da dargli in cambio, che non ha curato monografie né ha investito in complimenti o adulazioni: poi un tragitto in una lingua di terra adombrata dal quasi-tramonto, una deliziosa cena insieme alla deliziosa bimbetta, nipotina con i capelli ricci bellissimi, e la sensazione netta di un rito letterario che si compiva – con tutta l'ironia del caso. Come ne Lo Scrittore Fantasma di Philip Roth, quando Zuckerman si trova a dormire ospite nella magione del grande Lonoff, e una fuga di fantasmi e libere associazioni si traslano nell'aria che separa e unisce l'esordiente e il venerato maestro. In questi casi una promessa d'incomunicabilità si mantiene ancor prima di essere formulata, e quel pomeriggio in tasca avevo una copia del mio romanzo preferito degli ultimi trent'anni, Gli anelli di Saturno di W. G. Sebald, e Tabucchi lo conosceva ma non lo aveva letto, e visto che dormiva poco e io ero stanchissimo ricordo di essermi ritirato dopo averlo visto con certezza tra le sue mani – un'edizione Bompiani, tascabile, consumata fino all'osso. E l'indomani mattina, con il sole e il traghetto da prendere, e dopo una visita ad alcune ville moderniste nei dintorni, diventa difficile dimenticare la magistrale umiltà con cui uno dei più noti letterati italiani globali riceveva il consiglio di un semi-sconosciuto, semi-arrogante, semi-simpatico ventinovenne che aveva appena ospitato a casa sua, nutrito, accompagnato: «non l'avevo mai letto, davvero straordinario».
L'ultimo incontro fu a Bucarest, in un hotel, di nuovo in compagnia di Norman Manea, perché entrambi ricevevano la laurea honoris causa dalla facoltà di Lettere locale, e insieme avevamo nel frattempo progettato un viaggio fatto di immagini e parole attraverso la Buchovina, la regione natale di Manea. Doveva diventare un libro, ma non se ne sarebbe fatto nulla. Ricordo una cena, la signorilità di Tabucchi nel sistemare il conto e la simpatica petulanza nei confronti di Orhan Pamuk, che riceveva la laurea insieme a loro, e viveva tuttavia al riparo da ogni convivialità protetto da un muro di guardie di scorta.
C'è infine un timbro puramente acustico, in questa breve collezione di istanti – una telefonata che Tabucchi mi fece insistendo perchè mi rivolgessi a un avvocato prima di intrapendere un progetto narrativo che stavo coltivando, riguardante un importante politico italiano sul quale poi sarebbe stato girato un importante lungometraggio da un importante regista. Era un gesto d'affetto e di rispetto, di protezione aggiuntiva – portata all'orecchio con insistenza da quella voce con l'accento toscano, da centinaia di chilometri di distanza." (da Gianluigi Ricuperati, Su quel taxi a Manhattan. Il mio ricordo di Antonio Tabucchi, "Il Sole 24 Ore", 25/03/'12)


Addio ad Antonio Tabucchi autore di Sostiene Pereira

Addio Tabucchi, il nostro agente a Lisbona

Dalla magia all'impegno etico-politico in una Lisbona fantastica e reale

Betibù


"Thriller dall'anima rosa, ambientato in uno scorcio lussuoso della brulicante Buenos Aries, dove al posto del classico tango si balla al ritmo di cronaca nera e enigmatici delitti. Dopo il successo di Tua, la contadora de historias Claudia Pineiro, torna sugli scaffali italiani con Betibù edito da Feltrinelli e tradotto da Pino Cacucci.
Copertina gialla, dove campeggia teneramente ammiccante, l'iconica silhouette fumettosa di Betty Boop, per un romanzo a metà strada fra il poliziesco e il romantico con riferimenti autobiografici, pervaso dalla capacità peculiare della penna di Pineiro, di indagare oltre che sui delitti sui sentimenti dei singoli e delle comunità umane. La Betibù del titolo è Nurit Iscar, il nomignolo le deriva dalla somiglianza con Betty Boop, "la dama nera" autrice di libri gialli ormai sul viale del tramonto dopo la stroncatura del suo unico romanzo d'amore, è incaricata dal cinico Rinaldi direttore del giornale El Tiburno di investigare sul presunto suicidio del signor Pedro Charazzeta, trovato sgozzato nella sua abitazione.
La accompagnano alla ricerca della verità , "il ragazzo della cronaca nera" incompetente ma mago del web e Jaime Brena, saggio cronista ormai, erroneamente, considerato anziano e fuori gioco e sostituito dal novellino. L'improbabile e bislacco terzetto setaccia il luogo del delitto: il country-club La Maravillosa. Roccaforte inespugnabile ed elitaria dove tutti hanno il dovere di sentirsi felici, fin quando l'apparente vita da nababbi del quartiere si tinge di sangue, altre morti considerate accidentali precedono quella di Pedro, si inizia a scavare nel passato, alla ricerca della mano vendicativa che sopprime i potenziali testimoni di qualcosa di terribile. Cosa? Chi è l'assassino?
La risposta, con classico colpo di scena finale, è nelle rutilanti e affilate pagine, senza virgolettato nei dialoghi, nella effervescente fantasia dell'autrice sudamericana. Montato come una sceneggiatura cinematografica, infatti presto diventerà un film per la regia del regista argentino Miguel Cohan, il romanzo scorre teso e veloce, immerso in un atmosfera dal battito ironicamente noir, con i personaggi che bucano le pagine per profondità e originalità. Le storie di vita quotidiana incrociano la vicenda gialla: sodali amicizie femminili, amori persi e ritrovati, tradimenti, dissertazioni sul giornalismo, sulle regole del diritto di cronaca, compagni di scuola custodi di misteri. Il tutto illuminato da pillole di sapienza del consumato cronista: «Trova il tempo per leggere romanzi, ragazzo. Non c'è mai stato un bravo giornalista che non fosse innanzitutto un buon lettore»." (da Francesca Motta, Betty Boop cerca il killer dei ricchi a Buenos Aires, "Il Sole 24 Ore", 24/03/'12)

mercoledì 21 marzo 2012

Il maestro del Giudizio universale


"Due colpi di pistola e il lettore è risucchiato in una girandola di eventi che sconfinano in deliri e fatali ossessioni. E’ inevitabile in un thriller come Il maestro del Giudizio Universale del grande Leo Perutz, uscito in Italia quasi trent’anni fa presso Neri Pozza e che Adelphi propone ora nella scorrevole versione di Margherita Belardetti.

Lo scrittore, che Ian Fleming, il padre di James Bond, definì un genio, lo pubblicò nel 1923 con enorme successo. Borges non esitò a inserirlo nella sua collana dei più importanti romanzi gialli del ‘900. Un genere che Perutz, nato a Praga l’anno prima di Kafka nel 1882, adattò mirabilmente all’atmosfera della Mitteleuropea percorsa da inquietudini e visionarietà ebraica. Le sue pagine - in romanzi come Il mistero dell’albero di mango, Il marchese di Bolibar, Dalle nove alle nove - lievitano dalla tradizione di E. Th. Hoffmann e dal clima irreale che percorre le contrade di Boemia, ma sono anche puzzle assemblati da una perfetta razionalità ribaltata in totale illusione.

In effetti Perutz, definito «il risultato di una scappatella di Franz Kafka con Agatha Christie», fu un matematico di talento, una mente loica che, memore dei fantasmi del ghetto praghese, disseminava dubbi sull’identità dei suoi personaggi e il loro fantasmatico milieu. A cominciare dallo stesso protagonista del Maestro del Giudizio Universale, il barone von Yosch che già nella prefazione ricostruisce fatti inattendibili. Certo, quei colpi di pistola hanno segnato la fine dell’attore di corte Eugen Bischoff: il suo cadavere nel padiglione del giardino è una prova irrefutabile. Ma chi lo ha ucciso? Non certo Yosch, sostiene l’ingegnere Solgrub contro l’opinione dell’amico Felix. Potrebbe, anzi, trattarsi di un suicidio. Bischoff attraversava infatti un periodo difficile: era insoddisfatto delle proprie interpretazioni e aveva problemi con il direttore del teatro. Tuttavia il mistero s’infittisce. La sua morte sembra ricalcata su quella di un giovane ufficiale di cui lui stesso, poco prima, presenti la moglie Dina e il cognato Felix, aveva raccontato ad alcuni amici: Yosch, il dottor Gorski, il giovane ingegnere Solgrub. Poi si era chiuso nel padiglione in giardino da cui all’improvviso si udirono urla terribili.

Alla sua morte ne seguiranno presto altre, fra i vicoli e i palazzi di Vienna, dove s’annidano paure e sensi di colpa che esondano in immagini oniriche, in richiami grotteschi, con strane e inquietanti figure come quella dell’usuraio e collezionista d’arte Gabriel Albarachy o della giovane farmacista Leopoldine non disposta «ad aspettare più a lungo il Giudizio Universale» e presto vittima di una forza oscura. A Solgrub tocca il ruolo del detective il suo intuito obbedisce al gioco di Perutz che depista e prolunga i tempi del suspense. Forse l’assassino esiste, è enorme, mostruoso, un’icona terrificante. Potrebbe essere italiano, e chissà che non si nasconda in un libro o magari in una formula. Solgrub lo appurerà a sue spese: l’esperimento è talmente spaventoso da causargli un colpo apoplettico. Prima di morire riesce però a distruggere ciò che uccide e che per poco non ha coinvolto lo stesso Yosch.

L’itinerario ossessivo dei personaggi è miscelato da Perutz con gli ingredienti di una letteratura di consumo che accende però la miccia dell’immaginazione e riesuma ombre nate dal sonno della ragione. Imprevedibili sono i suoi percorsi: fino ad un enorme volume in-folio zeppo di carte geografiche, fino alla relazione di Pompeo dei Bene, organista fiorentino del primo Cinquecento, sul pittore Giovansimone Chigi, noto come Maestro del Giudizio universale. Là si cela il mistero che è poi l’azzardo della fantasia che sfida ogni paura pur di creare. Magari anche come fa Yosch, che per rimuovere le proprie responsabilità si lancia in un racconto immaginario: verso una visione, un barlume folgorante capace di riscattare, anche solo per un attimo, una vita macchiata dalla colpa ..." (da Luigi Forte, Perutz, chi ha ucciso a Vienna l'attore di corte?, "La Stampa", 17/03/'12)

Quel carciofo che è Rabelais



"Tra una chiacchiera d’ufficio e l’altra, nella torinese stanza condivisa in via Biancamano, Italo Calvino mi fece dono di una strabiliante immagine: «I capolavori letterari sono libri-carciofo: li apri e sotto ogni lembo scopri qualcosa di nuovo e di diverso». E non esitò a semplificare: «La Commedia, il Chisciotte, Gargantua e Pantagruel ...».

La traduzione del capolavoro di Rabelais, di cui allora disponevo, era quella, per l’appunto einaudiana, del compianto Marco Bonfantini: ero solito menar vanto (arrossisco nel ricordarlo) di saperne a memoria alcuni passaggi lubrichi. Ora potrò rinfrescarla sulla nuova versione, che il nostro francesista principe Lionello Sozzi ha realizzato - testo a fronte a cura di Mireille Huchon - insieme a quattro validi colleghi, ad apertura di una nuova collana di classici, diretta dal bruniano Nuccio Ordine per Bompiani.

Il «Carciofo» di Rabelais contiene di tutto, proprio di tutto: nel concatenarsi sempre stringente, in base ad un sapientissimo calcolo, delle più disparate avventure si susseguono gestazioni di undici mesi, sbornie e mangiate colossali, vestimenta smisurate, giocattoli monumentali, cavalcature enormi, inversioni strabilianti (come quella di un nettaculo a base di cappello di pelo, «perché asterge completamente la materia fecale»): e siamo neppure a metà del primo dei cinque libri del romanzo.

Su questi aspetti comici del plot rabelaisiano scrisse un libro memorabile, intitolato l’Opera di Rabelais - la cultura popolare, uno studioso russo, Mikhail Bachtin (apparve in inglese nel 1968 e undici anni dopo presso Einaudi, suscitando un’ampia e molto stimolante eco).

Bachtin insisteva sulla «matrice popolare del riso di Rabelais», il quale, a suo avviso, elevava «a dignità letteraria ... una visione “bassa” del mondo», arricchendo del proprio superiore talento una tradizione popolare da lui definita «carnevalesca, perché legata al mondo subalterno, e per di più grottesca, materiale, corporea, connessa, ad esempio, col grande tema della ghiottoneria popolare, e una netta antitesi con la cultura seria e ufficiale delle classi dominanti».

Ho citato un passo della mirabile traduzione del Sozzi, quarantotto pagine fitte fitte, che sono al tempo stesso una rassegna completa ed organica degli studi non solo su Rabelais, ma sull’intero Rinascimento europeo (vi sfilano grandi nomi come Auerbach, Febvre, ma anche i nostri grandi Garin e Cantimori), ed una serrata introduzione alla multiforme personalità di Rabelais ed alla sua sterminata cultura.

Su questi due punti vale la pena tentare un inadeguato riassunto. Rabelais, figlio di un avvocato, studiò legge, prese gli ordini del frate francescano, passando poi al più dotto ordine benedettino, fu medico per laurea e professione, poi monaco, canonico e infine curato. Viaggiò, per l’epoca, molto: fu a Roma ben tre volte, visitando en route Firenze, e per due anni (1540 - 42: aveva all’epoca tra i 57 e i 59 anni) in Piemonte al seguito dell’allora governatore Guillaume du Bellay. Si può facilmente dedurne che un/due volte frate-monaco-prete secolare abbia alle sue spalle una notevole cultura religiosa e classico-umanistica. Il Sozzi, nelle sue fondamentali pagine, parla di una mole di letture-studio «addirittura portentosa»: vi si racchiudono «Platone e Luciano, Virgilio e Lucrezio, Pulci e Folengo, Budé e Tommaso Moro, il pensiero eretico ed Erasmo, senza contare la conoscenza dei testi sacri, dalla Bibbia ai Padri della Chiesa». La tesi sostenuta dall’eccellente studioso torinese è questa, se non la glosso malamente: è vero che nel monumentale romanzo Rabelais propone «una satira del sapere libresco, la gioconda irrisione delle convenzioni diffuse, un inno gioioso alla vita, ai gustosi sapori del mondo», ma occorre vedere ciò che è sotteso a codeste prese di posizione per positivo. Ed è, ad esempio, l’elogio «di una dignità umana concepita come efficienza», la coscienza che nell’individuo contano un «attivo impegno, senso dell’onore, buon umore, prudenza, serenità, perspicuità, civiltà». Come Rabelais stesso suggerisce nel prologo al Quarto libro dell’opera, non è colpevole dimostrare «una certa gaiezza di spirito», quando essa sia «fondata nel disprezzo delle cose fortuite». Ed, infine, non è una pericolosa audacia sostenere - come Gargantua scrive a Pantagruel - che la formazione dell’uomo dev’essere basata sulle «vive e istruttive parole» della cultura, ma, con la stessa intensità, su «lodevoli esempi», che l’esistenza altrui ci propone: dal momento che «scienza senza coscienza è la rovina dell’anima»." (da Guido Davico Bonino, Quel carciofo che e' Rabelais, "La Stampa", 20/03/'12)

martedì 20 marzo 2012

Profondo rosa


"C'e' una certa apprensione nel debilitato universo dei libri: si annuncia infatti per giugno una nuova tenzone libresca che già si chiama, fosse neanche un film, la guerra dei Rosa. Infatti, dopo almeno tre decenni di volontario e superbo esilio, il potente esercito del Rosa Rosa, rappresentato in Italia dalle edizioni Arlequin Mondadori, che impera in nascosto trionfo in edicole, supermercati, direct marketing, vendite online, ed è in Italia il secondo produttore di e-book, ha deciso finalmente di uscire dal suo soffice e ricco ghetto e di invadere le un tempo aristocratiche librerie, del resto da qualche anno già appesantite (o alleggerite?) da un altro Rosa, un Rosa non poi tanto occulto, in ogni caso ritenuto degno di affiancare Jane Austen e Charles Dickens, Jonathan Franzen e Wislawa Szymborska, grandi autori letterari, di cui sino ad ora, per venerazione o semplice pigrizia, ci si era rifiutati di valutare la meravigliosa, suprema vena Rosa.
Ma intanto tutti, o quasi tutti gli editori, constatato che il lettore anche se infrequente, è soprattutto donna, quindi facile preda di qualsiasi storia dove una ragazza meglio se matura e bruttina trova l'amore, hanno cominciato a invadere il mercato di varie sfumature di Rosa, dall'esangue allo shocking: ma sempre con la scusa della buona letteratura cosiddetta di intrattenimento. Quindi il Rosa camuffato da Giallo, da Fantasy, da Fantascienza, da Poesia, da Classico, da Inchiesta, da Grande Storia, da Biografia e Autobiografia, da Politica e Sociologia, inventando persino il Rosa Bellico, il Rosa islamico, il Rosa Geisha, il Rosa Avventura, il Rosa Comico, il Rosa Porno e finalmente, il Rosa Gay. Le classifiche dei libri più venduti sono diventate sempre più Rosa e per settimane e settimane sono stati ai primi posti romanzi in grado di provocare molta puzza sotto il naso al lettore maschio e sofisticato, ma anche con un po' di ipocrisia, alla lettrice femmina e smaliziata e persino ai non lettori eppur presuntuosi ambosessi. E per esempio è tuttora fervidamente acquistato Amore zucchero e cannella (per ora 125 mila copie, dell'inglese Amy Bratley, Newton Compton): che così eccita la passione delle lettrici in cerca di oblio domestico: «C' è un solo rimedio per alleviare le pene d'amore. I buoni vecchi consigli della nonna».
Mentre per mesi e mesi ha stravinto Un regalo da Tiffany, (280 mila copie, dell'irlandese Melissa Hill) e pure Un diamante da Tiffany (114 mila copie di altra autrice, Karen Swan, ma dello stesso fortunato editore, Newton Compton). Il primo definito in copertina, con un certo disordine lessicale, «Ammaliante come uno Chanel n. 5, divertente come Sophie Kinsella, affascinante come Audrey Hepburn. Sfogliate le prime pagine, farete invidia a tutti». Boh! I possibili recensori, sempre donna, di romanzi di questo tipo impilati nelle librerie più prestigiose, scritti da donne, per donne, vengono settimanalmente sommersi da una tal massa di letteratura che anziché Rosa viene definita dagli editori Divertente o Romantica, da costringerli ad avviarsi verso l'odio per le donne, oltre che per l'Amore.
Perché bisogna avere il coraggio di essere snob e dire che questi romanzi sono più o meno tutti uguali, e non lasciano tracce non si dice letterarie, ma neppure umane, scritti o tradotti con distratta frettolosità, anche se pare proprio questo il loro immutabile fascino sin dai tempi dell'archeologia Rosa. Quando generazioni di donne in grado di leggere si innamorarono di Rina o l'angelo delle Alpi (1877, Carolina Invernizio), di Schiava o regina? (1910, di Jeanne-Marie e Frédéric Petitjean, fratello e sorella che si firmavano Delly), sino a Signorsì (1931, prima opera della modernissima signora Amalia Liana Cambiasi Negretti Odescalchi, detta Liala, la più amata e aristocratica delle scrittrici marchiate Rosa). Il fatto è che la vita delle donne che allora lacrimavano su quei romanzi, è passata attraverso impressionanti rivoluzioni sociali, economiche, personali. Siamo a "Se non ora quando" eppure eccoci ancora, a migliaia, tuttora lacrimanti su un luminoso finale come quello di Amore zucchero e cannella: quando Lei finalmente si siede accanto a Lui, si appoggia alla sua spalla e ... «Poi quello che avevo sperato accadesse, accadde». Certo come romantiche lettrici magari siamo contente, ma come donne responsabili proprio no, ma come, siamo ancora qui con la vita più o meno a pezzi a consolarci per una scema che facendo da mangiare e tornando al ricamo vince che cosa? Un uomo!! Per carità, si dovrebbe pensare se milioni di donne nel mondo non fossero inguaribilmente fregate da quel Rosa, balsamico e anestetico, che riesce a lenire le falle della vita e a far sopportare villanzoni e noiosi reali. O invece no, non li fa sopportare, ma è comunque al Rosa che in questo caso ci si appoggia per rivalsae consolazione; perché, dopo averle fatte molto soffrire (l'uomo Rosa si sa, ama virilmente quindi crudelmente), gli amanti diventano come ci si ostina a pretendere almeno nel Rosa, e si vorrebbe, invano, nella realtà: Innamorati per Sempre, e in che vita dorata!, senza fregature e delusioni. Negli Stati Uniti il Rosa è da sempre ospite delle librerie anche più raffinate e in questi tempi difficili anche là, è stato divorato più che mai dal suo fedele popolo femminile, sia giovane che senile. Esiste una potente associazione americana di Scrittrici di Rosa dette Romance Writers, che maneggiano con spietata competenza l'industria del Rosa, e offrono dati terrorizzanti: nel 2010 le storie d'amore con obbligatorio lieto fine (matrimonio o comunque cattura di maschio dopo infiniti ostacoli) hanno rappresentato il 13,4% del mercato librario, cioè la parte più consistente, con un fatturato di 1.358 miliardi di dollari, seguite a distanza siderale dalla fiction a sfondo religioso (759 milioni) dai mystery (682), dalla fantascienza (559) e infine dalla letteratura cosiddetta classica cioè di un certo livello (455). Sempre nel 2010, negli Stati Uniti, sono stati pubblicati 8.240 nuovi titoli Rosa: 74,8 milioni di americane leggono almeno un Rosa l'anno. Varrà la pena, se uno vuol far soldi, star lì a soffrire per scrivere il grande libro, il capolavoro dell'anno, il romanzo che la critica approverà, arrivando l'autore alla massima consacrazione italiana, essere ospite addirittura di Che tempo che fa? Sudando sulla propria creatività, sarà difficile non invidiare l'americana Nora Roberts, autrice del Rosa più fortunato, (passato da Harmony ad editori più eterogenei), autrice di più di 150 titoli, 800 settimane di seguito nella lista dei bestseller del NYT, venduti in 35 paesi per 280 milioni di copie. Dipende dal peso della propria ambizione, e naturalmente dalla piattezza di un mercato come quello italiano, dove oggi dilaga inarrestabile la Cucina, nuovo Rosa Culinario, con certe dive del ramo agganciate dagli editori con anticipi milionari. In Italia il monopolio del vero Rosa ce l'ha Harmony, brand della canadese Harlequin consociata con Mondadori, che ha da poco compiuto 30 anni: un parco di 1200 scrittrici-lampo angloamericane le forniscono 600 titoli l'anno per più di 6 milioni di copie, divisi in ben 25 collane, tipo Amore, Passione, Paranormal, Destiny, History. Gran successo con gli ebook essendo le attuali lettrici romantiche ma anche tecnologiche e veloci: a leggere un Harmony impiegano in media due ore, tanto è il loro effetto psicofarmacologico. Essendo ripreso il nervosismo delle donne e quindi la valanga di pubblicazioni di lamentele, rabbie, inchieste femministe come se ben poco fosse cambiato dagli anni '70 (titoli freschi in libreria Un gioco da ragazze di Marina Terragni e O i figli o il lavoro di Chiara Valentini) ci si chiede se poi le lettrici non siano le stesse, quelle che si specchiano in queste analisi approfondite della condizione femminile ancora oggi dissestata, per poi ubriacarsi un po' con Petali nel vento, La proposta del capo, Diamanti e desiderio. Ma il Rosa sta talmente trionfando in tempi in cui ogni telegiornale o notizia su carta o online è truce e menagramo, da dilagare ormai anche nei film che per questo vincono gli Oscar, mentre i funerali di celebrità risultano essere gli spettacoli più Rosa e applauditi, soprattutto se il defunto è gay: a confermare il trionfo del Rosa, il successo grandioso dei nuovi autori maschi, tipo Fabio Volo, anche con l'ultimo romanzo per signore e ragazze, Le prime luci del mattino." (da Natalia Aspesi, Profondo rosa, "La Repubblica", 18/03/'12)

Lacrime & bestseller


"Domenica 4 marzo, mentre Massimo Gramellini presentava a Che tempo che fa il suo ultimo romanzo Fai bei sogni (Longanesi), l'alacre e solitamente petulante accademia di taglio e cucito che è Twitter stranamente taceva. C'era nell'aria una certa perplessità, forse anche un po' di sgomento.

Gramellini stava spiegando di avere scritto un romanzo attorno alle reali circostanze della morte della madre, avvenuta quando lui aveva nove anni e che gli era stata spiegata come dovuta a un infarto. Queste circostanze non venivano specificate al pubblico televisivo, si è detto, per non svelare un "colpo di scena" del libro ma anche per evitare che l'intervistato fosse sopraffatto dalla commozione in diretta tv. Gramellini ha sostenuto di aver sempre evitato di fare e farsi domande al proposito, di avere ricevuto la rivelazione da un'amica di famiglia, a più di quarant'anni di distanza dai fatti, e di avere allora provato una forte rabbia postuma nei confronti della madre.

La verità non era proprio difficile da indovinare, per lo spettatore. Per controllarla avrebbe potuto consultare su Internet l'archivio del giornale La Stampa (Gramellini ha reso pubblica in tv la data dell'evento e ha precisato che il quotidiano di cui ora è vicedirettore aveva dato a suo tempo la notizia in cronaca). Un altro modo di saperlo era recarsi ad acquistare il libro, cosa che, nella settimana intercorsa dall'uscita in libreria a oggi, hanno fatto in 50.000. Cinquantamila, in lettere. Partenza a razzo? Sì, e in senso stretto: la differenza di velocità con gli altri best-seller (non con i libri normali) e questo è stata la medesima che intercorre tra la partenza di un Gran Premio di Formula Uno rispetto a quella di uno Shuttle da Cape Kennedy.

Non che Gramellini sia il primo a scrivere di una dolorosa storia famigliare. L'autobiografismo e la narrazione del dolore sono al contrario la caratteristica che accomuna molti fra i libri che (da sempre, ma soprattutto di recente) hanno interessato il pubblico più vasto. Basterà menzionare Emmanuel Carrère, la spietata anamnesi del dolore provocato dallo tsunami, dalla morte di una bambina e dalla malattia mortale di una cognata, in un libro sintomaticamente intitolato Vite che non sono la mia (Einaudi). O il caso di Profezia, un vero capolavoro che Sandro Veronesi ha scritto sulla morte di suo padre e che si legge nell'ultima raccolta di racconti Baci scagliati altrove (Fandango). La tragica morte di David Foster Wallace ha messo in evidenza come i suoi romanzi e i suoi racconti parlassero ossessivamente di depressione, psicofarmaci, tendenze suicide. L'autobiografismo più accanito, elaborato (ed elaborante) esce dall'ambito narrativo e tracima per esempio nelle arti figurative, con il lavoro di Sophie Calle sulla morte di sua madre (Pas pu saisir la mort, Biennale Arte del 2007) o la strenua messa in arte del proprio corpo, e anche della propria morte futura, compiuta da Marina Abramovic. La morte della madre, in particolare, è stato un elemento determinante nella biografia di molti scrittori, come Giorgio Manganelli (che non pubblicò nulla, sin che la madre visse). Ma abbiamo poi la morte di una figlia in Isabel Allende (Paula, Feltrinelli) o Philippe Forest (Tutti i bambini tranne uno, L'amore nuovo e Anche se avessi torto, Alet), i clamorosi casi italiani di Susanna Tamaro e Oriana Fallaci (sul figlio non nato e sul compagno), o la Joan Didion che parla della malattia della figlia e della morte del marito, improvvise e concomitanti (L'anno del pensiero magico e Blue Nights, Il Saggiatore). L'esperienza del lutto e del dolore è la più forte, ma non è la sola: la filosofa Michela Marzano ha fatto i conti con l'anoressia e il groviglio di rapporti famigliari che ha dovuto affrontare tramite un libro di totale franchezza, rivolto al grande pubblico (Volevo essere una farfalla, Mondadori).

Nella patria di Giovanni Pascoli (morte del padre), di Carlo Emilio Gadda (morte del fratello e della madre) o più recentemente di Aldo Nove (morte dei genitori e adolescenza perduta nell'attraversamento del doppio trauma, La vita oscena, Einaudi) non è certo il fatto di raccontare un vasto e persistente dolore a poter apparire anomalo, o commercialmente sospetto. Del resto, di cosa dovrebbe occuparsi la letteratura? L'America e la Luna sono state scoperte, Atlantide non c'era, gli dèi se ne sono andati, gli Ufo non sono arrivati mai. Per dirla una volta in più con il Gadda saggista, finiti tutti i Viaggi possibili, l'altrove di cui resta da parlare è la Morte. Ma appunto, come farlo? Ed è possibile distinguere tra la letteratura e un'editoria del dolore, che dalla letteratura prescinda?

Per Gadda il dolore era oggetto e tramite di cognizione. Ai tempi di Primo Levi la letteratura era il linguaggio che consentiva di esprimere il dolore, mediandolo razionalmente e cioè imponendo all'espressione una sorveglianza che lo rendeva comunicabile. Il libro rendeva pubblico ciò che non si sarebbe potuto, se non per via letteraria. Ma poi è arrivata la tv del dolore. Da Portobello al Maurizio Costanzo show ha offerto la possibilità dello sfogo, già tipica del rotocalco popolare ma anche delle chiacchiere in treno tra sconosciuti, sempre ben provvisti di rocambolesche disgrazie da raccontare. Oggi andare in tv a piangere la morte del gatto è da reality show; andarci per promuovere un libro, una canzone, un film o una fiction (che a loro volta parlino di un lutto, privato o collettivo che sia) è invece da artisti. L'affinamento dell'industria del dolore prevede ora il libro come oggetto transizionale: scrivo il dolore, così in tv vado a parlare del libro. Il libro, infatti, non è più visto come un oggetto pubblico (forse si sospetta che non verrà mai letto davvero, o capito, o ricordato). Di conseguenza, nel libro la mediazione non è più necessaria: se voglio, posso metterci le viscere allo stato grezzo, o il loro semilavorato. Tutto me lo consiglia: viviamo in un'epoca in cui l'emozione deve essere comunicata con meno mediazioni possibili.

La cosa che parte e arriva dalla pancia (senza passare dalla testa se non per il tempo di un breve marameo) una volta si chiamava colpo basso (o peggio). Ma erano i tempi in cui si teneva in onore la più nota poesia di Fernando Pessoa, quella che dice: «Il poeta è un fingitore / finge tanto interamente /che sa finger che è dolore / il vero dolor che sente». Oggi si preferisce la sincerità." (da Stefano Bartezzaghi, Lacrime & bestseller, "La Repubblica", 16/03/'12)

Tim Parks, Insegnaci la quiete
Lisa Genova, Perdersi
Martin Suter, Com'è piccolo il mondo
Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi
Kyung-Sook Shin, Prenditi cura di lei
Alice Munro, Away from her (Away from her - Lontano da lei)

Gramellini, amore e paura di madre (da "La Stampa")

lunedì 19 marzo 2012

Nessun luogo. Da nessuna parte


"Ogni tanto, stufi del bello scrivere degli anglo-americani, smerigliato e insopportabilmente giusto, si torna a un certo scrivere europeo, immensamente meno confezionato, così incauto e ambizioso, irregolare. Va da sé che ci vuole più pazienza, e più dedizione - forse addirittura più cultura e gusto - ma talvolta è un ritorno glorioso. Nessun Luogo. Da nessuna parte è secondo me il capolavoro di Christa Wolf, con buona pace di Cassandra. Quando lo lessi la prima volta - era un edizione Bur, e io ancora mi annoiavo a leggere Hemingway - ero abbastanza giovane da rimanerne folgorato: fu un'epifania scoprire cosa riusciva quella donna a fare con il marmo severissimo della sua scrittura, le curve e le morbidezze che riusciva a suscitare col suo scalpello. Non avevo mai letto qualcosa di più gelidamente tiepido. Ed era tutto commovente, senza mai smettere di essere severo. Molti anni dopo, la riedizione della e/o me l'ha fatto ritornare sotto gli occhi, e mi ricordo che lo aprii temendo molto, perché gli amori dei trent'anni hanno spesso una scadenza, come gli yogurt. E invece era ancora lì, quella bellezza inimitabile, intatta ed evidente, perfino resa più preziosa dal mio aver imparato, nel frattempo, le domande a cui quel libro rispondeva. Non vorrei, con questo, generare false aspettative: è un libro tosto, per lettori forti, e anime sghembe.
Astenersi perditempo e lettori di thriller. Accade tutto in un salotto borghese, un pomeriggio del 1804, a Winkel sul Reno - benché accadere non sia probabilmente il termine giusto, se non per quelli che lo applicano anche a cose invisibili, micromovimenti dell'anima, frasi appena pronunciate. Gli altri direbbero che non accade nulla. Nel mite salotto borghese, dove buona educazione e disciplinata intelligenza sono la regola, il caso ha riunito due anime irregolari, un uomo e una donna, giovani, scandalo e attrazione della compagnia. Lui se ne sta in un angolo, le dita strette sul bracciolo della poltrona, le nocche bianche: un naufrago che si tiene aggrappato. Lei ha una qualche bellezza che la tiene al centro dell' attenzione, e un'intelligenza che è come un gorgo a cui la gente si avvicina per curiosità e si allontana per prudenza. Non si erano mai visti prima. In quel salotto si conoscono, dunque, ma la parola giusta, qui, è, ovviamente, riconoscono. Belli i loro nomi: Kleist, lui, Günderrode, lei. Christa Wolf li prese in prestito dalla Storia: sono due personaggi effettivamente esistiti, entrambi poeti, entrambi morti suicidi. Non sembra che nella realtà si siano mai incontrati. Nel libro si sfiorano, e tanto basta a farli sembrare due lancette sorelle, sul quadrante del mondo, a segnare un'ora irragionevole e malata. Se avete esperienza diretta del male che fa un eccesso di sensibilità, in questo libro ritroverete le parole che lo pronunciano, con ferocia e delicatezza. Qua e là, perle magnifiche. C'è anche la più elegante dichiarazione d'amore che io abbia mai letto: «Volevo dirLe che sarebbe certo una cosa terribilmente innaturale che noi due non diventassimo amici strettissimi». Proprio nella prima pagina c'è una citazione di Kleist, quello vero, che a lungo mi è parsa tutto ciò che avevo da dire di me stesso: «Dentro di me io porto un cuore, come una terra del Nord il germe di un frutto del Sud. Si sforza, si sforza, ma non riesce a maturare» (mi sopravvalutavo, è ovvio, ero giovane). E, in mezzo a tanti pensieri incerti, mi ricordavo bene quella frase, una, brillante di sicurezza: «Se smettiamo di sperare, succede quel che temiamo, questo è certo». Perle. (Parentesi riservata ai lettori abituali di questa pagina. La risposta che la Wolf dà alla domanda «Cosa sanno fare gli intellettuali», è la seguente: sanno dare i nomi alle cose. Pur nella mia deferente ammirazione per la gente di montagna, di cui subisco stupidamente il fascino, non riesco ad esempio a dimenticare la curiosa circostanza per cui, per lungo tempo, le vette delle montagne non hanno avuto nomi. La tanto sapiente gente di montagna dava un nome ai colli, ai passi, perché era utile darglieli, ma non era arrivata alla sublime astrazione di nominare vette su cui non era mai salita, poiché era inutile farlo. Solo quando in qualcuno insorse l'irragionevole istinto a salire là sopra, per il puro gusto di portare a compimento la Creazione, nacquero i nomi delle montagne. Lo stesso vale per la geografia più invisibile dell'umana sensibilità. Quel che è proprio degli intellettuali, che siano poeti o studiosi, è salire su vette apparentemente inutili del sentire umano e dar loro un nome. Nel caso specifico, Kleist e la Günderrode nominano le vette di un dolore che prima avevano scalato e poi, degni di farlo, nominato: la loro precisione è spettacolare. Da allora, milioni di persone, dal fondo valle, possono alzare lo sguardo e percepire quelle vette come se gli appartenessero, e questo per il solo fatto che ne posseggono il nome, amabilmente portogli dal lavoro massacrante di qualcuno più ardito di loro)." (da Alessandro Baricco, Una certa idea di mondo, "La Repubblica", 18/03/'12)

Marietti, "Sul Battello a vapore tutti bestsellers"


"Correva l’anno 1992 quando uscì Guglielmo e la moneta d’oro di Mino Milani, primo titolo targato Il Battello a Vapore, emanazione di El Barco de Vapor, già marchio di successo in Spagna. La collana, che il prossimo 20 marzo festeggerà le venti candeline in un convegno organizzato alla 49ª Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, ha in catalogo 432 titoli suddivisi in cinque serie dai primi lettori agli adolescenti ed è stabilmente al vertice, delle vendite in libreria come dei prestiti in biblioteca. La pubblica Piemme, sigla editoriale che allaccia le iniziali del fondatore, Pietro Marietti, ingegnere chimico «prestato» all’editoria o magari editore sottratto all’ingegneria chimica.

Chi ha incontrato, sulla sua via di Damasco?
«Una biondina carinissima, l’insegnante che all’ultimo anno del liceo classico è riuscita a farmi amare la chimica. Però dopo la laurea non c’è stato seguito».

Dunque un’infatuazione, non un amore ...
«Quella tra gli impianti chimici è stata la scappatella giovanile di un editore. Invece l’editoria è nel mio Dna: a dieci anni mamma Eugenia, la mia straordinaria formatrice a tutto campo, mi portò alla Fiera di Francoforte e da allora non ne ho persa una. Inoltre frequentavo la tipografia, imparando a comporre a mano le pagine con i caratteri in piombo, per arrivare in seguito a stampare sulle Heidelberg. Né mi sono perso l’odore della colla calda sulle linee di rilegatura Kolbus, mentre passavo dalla redazione all’amministrazione e dalla distribuzione alla programmazione. La gavetta, insomma, l’ho fatta tutta».

Cresciuto a pane e libri senza tuttavia essere un divora-pagine ...
«La scuola mi induceva ad associare la lettura a un obbligo: leggevo per dovere, nonostante in casa non mancassero certo i libri! Se ne parlava sempre ma come di un impegno, mai come di un piacere».

Qualche titolo comunque scintilla?
«Le storie del principe Valerio Pignatelli (L’ultimo dei Moschettieri, Il Dragone di Buonaparte, Florise), libri vecchi e un po’ sfasciati trovati in casa. Dopo la terza media ho scoperto Jan Fleming e il suo mitico 007 di Casinò Royal, Una cascata di Diamanti e Vivi e lascia Morire. Mi divertivo, sognavo senza nemmeno accorgermi di leggere e intanto ho abbracciato il concetto di serialità».

Dare un seguito a ciò che appassiona?
«Appunto. Quando attraverso un libro si entra in sintonia irrinunciabile con un mondo si ha voglia di coltivarla leggendo altre storie, autoconclusive ma dello stesso mondo. E’ più intrigante che cambiare mondo ogni volta».

Quali sono le sue sintonie irrinunciabili?
«Ken Follett e Stephen King: nel mio immaginario di lettore I Pilastri della Terra e It sono dei capolavori».

Il libro è ancora centrale, nella crescita dei bambini e nel percorso di formazione degli adolescenti?
«Assolutamente basilare. La lettura è sogno, immaginazione, libertà; è imparare a vivere senza condizionamenti, per diventare protagonisti delle proprie scelte. Succede se ci si appassiona alla lettura durante l’imprinting, tra i 5 e i 12 anni, quando si formano i gusti e i comportamenti che difficilmente verranno cambiati. Io, che rimango fondamentalmente “apprendista” con l’imprinting ancora in atto, con la lettura continuo a sognare».

E rispetto agli altri media?
«Nonostante il cinema e la televisione magari fruiti via Web, i social network e i videogame esercitino un’attrazione fatale, anche perché in continua evoluzione tecnologica e qualitativa, il libro rimane decisivo per coltivare libertà e indipendenza e non importa che si legga su carta, su device o sul telefonino».

Una «chiamata a correo», per autori ed editori?
«In quanto “veicoli” di libertà, autori ed editori hanno il dovere di non rassegnarsi all’impetuosa avanzata degli altri media pensando e realizzando libri sempre più catturanti nei contenuti e nell’estetica, surfando a vista con abilità e leggerezza sui tanti tsunami che si susseguiranno nel prossimo futuro. Occorrono libri bellissimi: mentre un libro bello viene letto e goduto, un libro bellissimo “costringe” a parlarne, innescando così il magico passaparola che fa la fortuna spesso inaspettata di alcune storie».

Ha mai pubblicato un libro bellissimo, pur convinto che non avrebbe venduto?
«Il cacciatore di aquiloni. Francesca Cristoffanini, l’editor capo, lo reputava un libro bellissimo, ma nella ferrea legge dei trenta secondi non poteva spiegare perché».

Sarebbe?
«Ho fatto mia la regola dei manager americani, che concedono trenta secondi per esporre un’idea: se quando suona il gong non ne sono convinti, la cestinano».

E allora?
«Per esporre le motivazioni, non il riassunto, a Francesca non bastavano, perciò ovviamente non avrebbe venduto. Ma per fortuna mi fido sempre dei collaboratori: quel libro straordinario sbriciolò difatti la ferrea legge dei trenta secondi».

L’ha poi letto?
«Prima d’un fiato e in seguito centellinato: rimane tra i pochi libri sul mio tavolino da notte».
A proposito di collaboratori: in vari settori professionali si continua stucchevolmente a discutere di «quote rosa», mentre la valorizzazione delle donne per lei non è mai stata in discussione ...
«In azienda facciamo colloqui in continuazione con una tecnica piuttosto sofisticata e selettiva, diciamo pure “dura” e le “quote rosa” hanno una “sopravvivenza” alle selezioni nella proporzione di nove a uno, rispetto alle “quote azzurre”. Le donne esprimono più potenziale, più resistenza, più affidabilità: non a caso, ci sono donne su tutti i ponti di comando della nuova azienda».

Atlantyca Entertainment: che caratteristiche ha e cosa bolle, in pentola?
«E’ suddivisa in quattro dipartimenti (publishing, foreign rigths, animation e licensing) e scommette sulla transmedialità per i ragazzi: libri, cartoni animati, licensing, videogame sviluppati con tecniche di story telling parallele basate su un unico contenuto, o brand, da vendere in tutto il mondo. Facciamo circa 150 nuovi libri l’anno moltiplicati, attraverso i nostri partner, in una quarantina di lingue; abbiamo prodotto 52 episodi di cartoni animati di Geronimo Stilton, venduti in 120 Paesi e nell’ambito del prossimo passaggio dalla carta al digitale stiamo imbastendo Tessitori di Sogni, per lanciare nei cinque continenti nuovi autori italiani con progetti seriali, sfruttando tutte le possibilità espressive della multimedialità».

Sempre vulcanico, l’artefice del fenomeno Stilton! Con quali ingredienti si costruisce un best seller così longevo, che da dodici anni si alimenta di titolo in titolo?
«Nel 2000 abbiamo lanciato i libri di Stilton pianificando, appunto, un progetto transmediale, un “classic for ever” costruito puntando su umorismo, avventura e valori portanti, per far sognare con noi e Geronimo i bambini di ogni angolo del pianeta. E sono più di settanta milioni, le copie vendute nel mondo».

Per il lancio del Battello, invece, lei ideò un marketing «spregiudicato» che fece arricciare più di un naso ...
«Ci rimproverarono la mancanza di apparati didattici e di note, il marketing troppo spinto (spot in televisione, gadget con i libri in libreria e nella grande distribuzione) e campagne pubblicitarie dissacranti quale la “rottamazione dei libri usati”. Ma quando si fa qualcosa di nuovo certe reazioni sono da mettere in conto, salvo poi ritrovarsi in nutrita compagnia ...».

A un suo autore che le riportava i lusinghieri apprezzamenti della critica, lei replicò: «Sono contento per te, ma io guardo i numeri».
«I numeri, le copie vendute, sono conseguenza diretta della qualità in tutte le sue componenti: contenuti, packaging, marketing, advertising, commercializzazione. Senza qualità globale non ci sono numeri, benché ci possa essere qualità anche senza numeri, e allora vuol dire che si è sbagliato qualcosa nel “servire in tavola”. A volte arrivano i numeri senza la qualità ma è un bluff che dura poco, perciò non mi interessa. Non è la mia vita»." (da Ferdinando Albertazzi, Marietti, "Sul Battello a vapore tutti bestsellers", "TuttoLibri", "La Stampa", 17/03/'12)

Come proteggere la lettura dei bambini

Il boom dei piccoli lettori, nuovo genere editoriale

Nel mondo di Lowry: «Un futuro da incubo, sembra il Medioevo»

venerdì 16 marzo 2012

L'Enciclopedia Britannica lascia la carta per il web


"Solo ottomila persone al mondo hanno sugli scaffali di casa i 32 volumi dell'Enciclopedia Britannica, ultima edizione: sono veri «partigiani» del sapere accademico in versione tradizionale. Per loro la carta è insostituibile. Al diavolo il computer. Meglio consultare e toccare quei 58 chili e mezzo di libri rilegati in pelle piuttosto che piegarsi su un «personal» ultraleggero per soddisfare le curiosità della mente.
Quel «tesoro», pesante ma insostituibile, se lo dovranno tenere ben stretto perché l'Enciclopedia Britannica, la più antica in lingua inglese, con un colpo di spugna archivia il passato e si lancia nel futuro. Niente ingombri, niente polvere. D'ora in avanti, con un modesto contributo mensile, solo su internet si sfoglieranno le nozioni e gli approfondimenti assemblati da 4400 superesperti e professori. Chi proprio lo desidera può ancora aggiudicarsi le ultime quattromila copie rimaste delle dodicimila stampate e tenersele come una reliquia. Poi basta.
I tempi sono i tempi. E nell'era digitale un uomo del calibro di Jacob Safra, azionista unico e presidente di «Enciclopedia Britannica Inc.», nipote di banchieri ebrei potenti, businessman colto e attento di origine svizzera ma americano di base, i conti li sa fare. Si era comperato «l'istituzione» nel 1996 per 135 milioni di dollari e, intuendo le tendenze dell'editoria, l'aveva lanciata nel mondo del web, unica salvezza possibile visto che i bilanci non godevano di grande salute. Oggi, guardando i numeri, Jacob Safra si è illuminato: a fronte di quegli 8 mila inguaribili amanti della carta, ci sono 450 milioni di persone sparse nel mondo che si attaccano a internet e si collegano alla Enciclopedia Britannica.
Semplice quesito: che senso ha sprecare inchiostri e rotative per i 32 volumi in pelle, valore di 1300 dollari? Insomma, la scelta era nell'aria. Gli affari sono affari. E le tecnologie sono una meravigliosa opportunità da sfruttare, anche commercialmente: la quindicesima è stata l'ultima edizione scritta e stampata, la sedicesima arriverà nelle memorie dei computer. Lo ha annunciato Jorge Cauz, l'amministratore delegato («Un'enciclopedia di carta è obsoleta nel momento in cui viene pubblicata, la nostra versione online è invece aggiornata di continuo»), e la notizia è rimpallata dagli Stati Uniti all'Europa. Con, comprensibile interesse nella sfera britannica.
Lì, in Scozia era nata, prima che gli americani la inghiottissero. Merito del libraio Colin Macfarquhar e del suo amico Andrew Bell, ma soprattutto di William Smellie. Loro il cervello dell'opera, coloro che la concepirono. Lui, il braccio che la realizzò: era il figlio di un muratore, un autodidatta che stampava i testi dell'università di Edimburgo e che aveva libero accesso ai corsi dell'ateneo. Appena i due gli conferirono l'incarico, il ventottenne William si premurò di accedere alle lezioni e alle biblioteche. Copiò dai testi di Voltaire, di Newton, dei migliori pensatori e scienziati. E redasse l'Enciclopedia, tre volumi nella versione originale. Era il 1768. Ne furono vendute tremila copie.
Un successo. Che si sarebbe moltiplicato nei secoli, sempre in copertina rigida e ricercata. Fino a che il web, storia del presente, ha imposto la scelta: meglio accontentare gli ottomila appassionati della Britannica in carta o incassare 70 dollari di canone l'anno per la sua consultazione a video da parte di milioni di internauti? Facile." (da Fabio Cavalera, L'Enciclopedia Britannica lascia la carta per il web, "Corriere della Sera", 15/03/'12)

mercoledì 14 marzo 2012

Il lettore medio e i buoni romanzi


"Ora che per una volta e fuggevolmente sono entrato nella classifica dei piu' venduti, posso dire liberamente che la maggior parte dei libri in classifica sono illeggibili, e dunque do ragione a Citati che sul «Corriere» lo ha detto senza curarsi delle conseguenze. Ma sono i cattivi scrittori, secondo Citati, che vanno in classifica, o sono i lettori che ce li mandano? Oggi per un lettore non è tanto facile distinguere la buona letteratura da quella cattiva. Se una volta si poteva dire a cuor leggero: «Non è bello quel che è bello, è bello quel che piace», oggi possiamo dire con sicurezza: «Non è bello quel che è bello, è brutto quel che piace». Oggi ci sono scuole di scrittura che insegnano come si «scrive bene», come si fa un racconto o un romanzo, e come tutti, con un po' di applicazione possono imparare «come si fa». Vuoi un giallo, un poliziesco, un fantascientifico, un romanzesco, uno storico, un fantastico? La ricetta è pronta, si tratta solo di confezionare bene gli ingredienti necessari.
È qui che viene opportuna la non facile distinzione tra la buona letteratura e la cattiva-buona letteratura, che rassomiglia alla prima come l'ottone rassomiglia all'oro. A volte la somiglianza è talmente grande e il luccichio sfavilla talmente, che è facile cadere nell'errore di giudizio, o meglio, è facile essere imbrogliati. La zona grigia della cattiva-buona letteratura ha tra l'altro infinite gradazioni di grigio, cioè di approssimazione alla buona letteratura, e perciò anche per un addetto ai lavori è difficile distinguere tra grigio e grigio, e quanti critici, perché di tendenza o per sordità, non riescono a distinguere il vero dal falso, e danno per buona la letteratura che sembra buona perché ha molte caratteristiche di quella buona. Un vero critico, Hans Sedlmayr ci aiuta a distinguere. Nel suo libro Arte e verità scrive che oggi accade, molto più frequentemente di una volta, che la composizione abbia la pretesa di sostituirsi alla creazione. Ma la creazione è qualcosa di diverso, nasce dalla forza dell'immaginazione, e crea chiare immagini significanti, fantastiche metafore conoscitive, invenzioni verbali illuminanti, e un suo proprio linguaggio. La composizione, (la costruzione) non nasce come la creazione dalla potenza dell'immaginazione, nasce invece da un'intelligenza combinatoria, dalla razionale capacità di assemblare elementi diversi, e di intuire furbescamente quel che si può rubare (imitare) di qua e di là.
Per spiegarmi con parole più semplici sono ricorso all'esempio dei miei gatti (vedi il mio Letteratura e salti mortali, Mondadori). Tre gatti domestici, non quelli dell'età eroica in cui si nutrivano di topi o degli avanzi di cibo. Per pigrizia do ai miei gatti cibo confezionato in scatolette, e il menù è vario, i gusti tanti, non solo carne o pollo, ma anche combinazioni raffinate di tonnetto con papaya, con ginseng, pesce dell'Atlantico, pesce dell'Oceano Pacifico.
Sono talmente disgustati, poveri gatti, di questo cibo confezionato che devo continuamente cambiarlo. Volete tacchino? No? Allora pesce dell'Atlantico? Neanche. Pesce del Pacifico? Infine sono diventati talmente incerti e inappetenti che per risvegliare i loro veri istinti ho dato loro pesce fresco, fragranti alici di giornata, piccoli sgombri, fragaglia di paranza. Ebbene essi non li riconoscevano più, avevano perduto il loro istinto naturale. Perfino il filetto di vitello, tagliato a pezzettini dal mio piatto e a loro offerto con grazia, perfino quello schifavano. Siete o no felini, siete o no carnivori? Niente, neanche il filetto. Niente di veramente naturale essi riconoscevano più.
Capita la metafora? Anche il lettore medio, ormai assuefatto a confezioni letterarie d'ogni tipo, ma tutte artificiali, anzi industriali, come i miei gatti non riconosce più la buona letteratura. Anche questo è l'effetto del consumismo sempre più intenso e sempre più conculcato dal mercato. C'è un'ultima distinzione da fare tra un buon libro e uno cattivo, e questo va al di là della distinzione che ho già fatta, e riguarda anche la buona letteratura, quella vera, quella alta. E però una distinzione mia, personale, e riguarda il mio gusto, il mio modo di leggere e di sentire: per me un bel libro è quello che comunica attraverso il linguaggio un'emozione che può essere fredda (Les liaisons dangereuses) o calda (Dickens).
Non mi piacciono invece i libri troppo affidati a un'abilità stilistica dalle «volpi dello stile», perché questi libri, anche pregevoli letterariamente e anche necessari, spesso li trovo «disanimati», spesso sono «oggetti letterari» di notevole fattura, ma soddisfano più la mia intelligenza che il mio cuore. Ma qui esprimo solo i gusti personali di chi preferisce lo stile dell'anatra; che nuota leggera in superficie, ma che ottiene questa leggerezza faticando assiduamente sott'acqua con le zampette palmate. Un lavoro e una fatica che non si vedono, che lo scrittore non deve fare mai apparire.
«Sii profondamente superficiale»: è un proverbio di Machado per me e anche un consiglio da seguire." (da Raffaele La Capria, Il lettore medio e i buoni romanzi, "Corriere della Sera", 14/03/'12)

sabato 10 marzo 2012

Fare libri oggi


"Da quando, si compiono Crimini letterari? Da sempre, supponiamo. Dall’inizio dell’800 di sicuro: ce lo racconta Charles Nodier il bibliofilo, primo dei romantici, nell’omonimo pamphlet, proposto da :duepunti, la «ditta» di Carbone/Schifani/Speziale. Solo un centinaio, tra le migliaia di pagine vergate da questo prolifico eclettico, ma fitte di giudizi severi e di continui rimandi che, tra descrizioni di plagio, imitazioni, pastiche parlano «delle mutazioni della scrittura e delle sue tecniche».

Così Nodier diventa un po’ il «manifesto» della (sempre più allargata) rivoluzione elettronica che adesso anche l’editrice palermitana, nata nel ’97 e sempre orgogliosamente indipendente, sta compiendo. A partire dalla nuova e appena aperta piattaforma digitale, Hypercorpus (nomen omen: al di là del corpo) dove sono già leggibili in «open access», insieme ai Crimini, altri testi: dalle Lettere di guerra del surrealista Jacques Vaché agli Scritti patafisici di Jarry, tutti di rigorosa scelta, come costume della sigla e come dimostra il suo catalogo di libri on paper, tra classici e contemporanei (gli italiani Genna, Lagioia, Mozzi, ecc; gli stranieri a cominciare da Ourednik, dal nobel Le Clézio, da Boris Vian).

Molti altri verranno, mentre continueranno a uscire i «prodotti» in veste tradizionale: tra marzo e maggio narrativa con Marino Magliani e Vanni Santoni, prevalente tuttavia la saggistica letteraria, su Mario Praz, sul romanzo italiano e con un titolo, Future umanità. Un avvenire per gli studi umanistici? dello studioso svizzero Yves Citton, particolarmente in assonanza con la «casa» e con le sue tesi espresse nel testo Fare libri oggi che Andrea L. Carbone presenta in queste ore alla rassegna romana Libri come. Hypercorpus non è «una trovata, né una provocazione - dicono i tre responsabili -: è un progetto articolato nel tentativo di iniziare a far percepire i libri e la cultura come un bene comune e sollevare la questione paradossale che vede autori (in primis) e editori come elementi deboli della catena commerciale. Mettere in crisi un modello, quello dell’attuale filiera della produzione culturale che, ammesso abbia mai funzionato, è ora insostenibile»." (da Mirella Appiotti, :duepunti sulla via elettronica, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/03/'12)