sabato 28 maggio 2011

Leggere rende liberi


"Il Salone del libro appena concluso con successi, frastuoni festosi e verbali fuochi d’artificio ci fa ripensare in altra prospettiva al libro e all’atto del leggere. Per cercarne le chiavi, per capirlo, bisogna uscire dal rumore della festa, rifugiarsi nel silenzio.
Grazie a un libro, riusciamo anche a isolarci, a trovarci altrove, dove gli altri non ci sono, in un altro mondo, in un altro tempo. Senza contare che un libro ci può rendere lettori di noi stessi: «l’opera - diceva Proust ne Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto - è solo una sorta di strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire
ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscimento dentro di sé, da parte del lettore, di ciò che il libro dice, è la prova della sua verità».
Leggere è progredire. Restif de la Bretonne (1734 - 1806) consigliava di vietare
la lettura (e la scrittura) alle donne per limitare loro l’uso del pensiero, circoscrivendolo alle faccende di casa. I proprietari di schiavi temevano che i neri scoprissero, nei libri, idee rivoluzionarie che avrebbero minacciato il loro potere, i padroni delle piantagioni impiccavano gli schiavi colpevoli di aver tentato di insegnare gli altri a leggere, i proprietari delle haciendas messicane (ce lo racconta Carlos Fuentes, in Un temps nouveau pour le Mexique) accoglievano i primi maestri a coltellate, rispedendoli alla capitale dopo averli sfregiati in viso.
Nel 1981 in Cile venne proibito il Don Quijote dalla Giunta militare: Pinochet riteneva contenesse un’apologia della libertà individuale e un attacco contro la libertà costituita.
Borges diceva che il vero mestiere dei monarchi è stato quello di costruire fortificazioni e incendiare biblioteche. La storia è difatti un elenco infinito di roghi di libri. L’ultimo è dell’aprile 2003, quando fu saccheggiata la Biblioteca Nazionale di Baghdad, i roghi distrussero l’Archivio nazionale dell’Iraq, 10 milioni di documenti storici ottomani dal valore incalcolabile andati in fumo, gli antichi archivi reali dell’Iraq ridotti in cenere.
Con questo incendio l’identità culturale dell’Iraq è stata cancellata.
Non si aveva memoria di un simile saccheggio dai tempi dei Mongoli, da quando nel 1258 i cavalieri di un discendente di Gengis Khan erano entrati a Bagdad e avevano gettato tutti i libri nelle acque del Tigri.
Tutte storie di immani violenze che si leggono nel libro di Fernando Báez, Storia universale della distruzione dei libri. Dalle tavolette sumere alla guerra in Iraq (Viella)." (da Gian Luigi Beccaria, Leggere rende liberi, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/05/'11)

venerdì 27 maggio 2011

Il futuro del libro


"Il professore di Harvard spiega il suo progetto, alternativo a quello di Google: una biblioteca universale, aperta a tutti, da realizzare in Rete.
"Negli Usa i testi autoprodotti sono tre volte più numerosi di quelli pubblicati da editori commerciali. Qualcuno è convinto che democratizzare il sapere significhi volgarizzarlo. Nell'800 si temeva lo stesso".

Due vocazioni si intrecciano e si illuminano vicendevolmente negli undici saggi che Robert Darnton ha ora raccolto in Il futuro del libro (traduzione di Adriana Bottini, Adelphi). La prima è quella dello storico che attraverso uno straordinario lavoro di scavo negli archivi del passato ha riportato alla luce un Settecento underground destinato a contribuire in modo incisivo alla fine dell'Antico Regime. La seconda è quella dell'intellettuale impegnato che guarda al futuro interrogandosi sui problemi relativi alla trasmissione del sapere di domani. D'altronde, la sua stessa posizione di direttore della biblioteca di Harvard confronta quotidianamente Darnton con la necessità di conservare e insieme di innovare. Vi è infine un terzo fattore che contribuisce a rendere Il futuro del libro una lettura appassionante ed è l'arte di narrare del suo autore.

Professor Darnton, lei scrive che digitalizzare è democratizzare. Ma che uso potrà fare di questa immensa offerta di "lettura democratica" una società di massa che legge di meno in meno, che antepone l'immagine al testo ed è per lo più sprovvista degli strumenti interpretativi necessari? «Il termine "democratizzazione" può apparire allarmante se applicato alla cultura, soprattutto alla cultura americana così come viene vista dall'Europa. Nel suo libro scritto in polemica con Google - Quand Google défie l'Europe - Jean-Noël Jeanneney utilizza l'argomento degli agoritmi e del sistema di valutazione basato sulla frequenza degli accessi per denunziare un "populismo culturale", come se la digitalizzazione in massa dei libri minacciasse di annegare l'Europa in una cultura di massa alienante. Gli europei possono rimanere affezionati - come lo sono io - al venerabile codice a stampa, ma gli americani leggono i libri elettronici con una avidità uguale, se non maggiore - come mostrerebbero gli ultimi dati di Amazon, a quella con cui leggono i libri stampati».

Qual è il panorama che ne emerge? «Nel 2011, almeno il 20% dell'insieme delle vendite riguarderà dei libri adattati a dei dispositivi di lettura che stanno in una mano. Sembra che la pratica stessa della lettura sia in aumento, soprattutto nel settore dei generi popolari come i romanzi rosa o i libri gialli. Questo vuol dire che democratizzare significa volgarizzare? Forse. Era già ciò che lamentavano molti europei della seconda metà dell'Ottocento davanti al successo di romanzi da quattro soldi e di giornali. Io condivido l'opinione di Richard Hoggart, Marcel de Certeau, Carlo Ginzburg e Roger Chartier che sostengono che i lettori plebei avevano la capacità di cogliere tutta la ricchezza di significati dei testi "popolari" adattandoli alla propria cultura».

Lei parla anche di "democratizzazione della scrittura". A cosa si riferisce? «Si tratta di un fenomeno quanto mai interessante. Negli Stati Uniti, nel 2009, sono usciti 288.355 libri pubblicati da editori commerciali. A questi vanno aggiunti i 764.448 nuovi titoli di autori che si auto-pubblicano. Una volta i libri erano scritti per il lettore comune, oggi è il lettore comune a scriverli».

Fino a che punto è possibile paragonare, come lei fa, la rete di informazione senza frontiere offerta oggi da Internet con la circolazione delle idee nella Parigi del Settecento? Gli intellettuali dei Lumi, Voltaire in testa, perseguivano l'obiettivo di diffondere il sapere a beneficio delle élites e non certo del popolo. «Voltaire sarebbe rimasto indubbiamente inorridito davanti alla situazione attuale. Non si stancava di sostenere che era rischioso insegnare a leggere ai contadini perché bisognava pure che qualcuno coltivasse i campi. I Lumi si sono spinti molto lontano nella loro esigenza di raffinatezza. Ma se si considera in modo globale l'età dell'Illuminismo, vediamo che molte idee circolavano in forma frammentaria, esattamente come su internet. Basti pensare alle conversazioni scambiate intorno al così detto "albero di Cracovia" al Palais-Royal, ai bon-mots scarabocchiati su dei ritagli di carta, ai versi improvvisati sulle arie popolari. Sono persuaso che si debba procedere a una ricostruzione completa "dell'eco-sistema di informazione" del passato. Così facendo potremo avere una visione più chiara del futuro. Lungi da me di volere fare mio l'adagio che "più la cosa cambia, più resta uguale", ma in Il futuro del libro ho cercato di dimostrare come lunghe linee di continuità interconnettano fasi diverse della storia».

Lei non si stanca di ricordare come per Internet la garanzia di democrazia sia incompatibile con la politica di monopolio di Google. «Il problema della democratizzazione è stato posto da Google Book Search in un nuovo modo. A prima vista questa iniziativa aveva il vantaggio di mettere milioni di libri a disposizione di milioni di lettori. Ma c'era un prezzo da pagare, quello dell'abbonamento di accesso alla gigantesca banca dati di Google. Invece della democratizzazione ci trovavamo dunque di fronte a una prospettiva di commercializzazione. Il pericolo è diventato palese quando Google ha firmato un accordo economico con gli scrittori e gli editori che gli avevano intentato causa per avere violato il diritto d'autore. Il pubblico non era autorizzato a dire la sua, ma un tribunale di New York si è rifiutato di approvare l'accordo».

Qual è l'alternativa possibile? «Un gruppo di persone di cui faccio parte sta cercando di creare una "Biblioteca Digitale Pubblica degli Stati Uniti" (Digital Public Library of America) che si propone di fare concorrenza e battere Google sul suo stesso terreno, rendendo accessibile gratuitamente il patrimonio culturale americano non solo a tutti gli americani ma al mondo intero. Piuttosto che dipendere dallo Stato sul piano finanziario puntiamo su una coalizione di fondazioni private. Un consorzio di biblioteche metterà a disposizione i libri e gli altri materiali. Molti sono ancora i problemi tecnici, giuridici e amministrativi, ma contiamo di presentare un primo modello entro la fine dell'anno in corso».

Le sue previsioni sul futuro? «Viviamo un momento straordinario della storia delle comunicazioni. Tutto è fluido e in continuo mutamento. Se sappiamo cogliere il momento, possiamo determinare il nostro futuro per il bene pubblico. Dobbiamo digitalizzare, digitalizzare e democratizzare»." (da Benedetta Craveri, L'Illuminismo digitale, "La Repubblica", 27/05/'11)

Dai miti ai videogame, tutto è letteratura


"Magia e fantasia, intesa come l'arte di inventare storie: i due termini si equivalgono? Creare mondi paralleli è l'unico, vero incantesimo a nostra disposizione? «Credo di sì», risponde Salman Rushdie. «Però sono convinto che magia e fantasia, nel meccanismo del racconto, funzionino solo se hanno radici ben piantate nel reale: il senso del fantastico deve percorrere esperienze riconoscibili e concrete, e in tal modo arriverà a intensificarle. Se no la fantasia è solo evasione e fuga dalla realtà: dimensioni senza interesse. Quello che rende attraenti, almeno per chi li ha scritti, libri come Harun e il mar delle storie e Luka e il fuoco della vita, è il fatto che le trame nascano da situazioni reali, poi drammatizzate in prospettive fantastiche».
Il formidabile cantastorie angloindiano, autore di classici di fine Novecento come I Figli della Mezzanotte e Versi satanici, sarà domenica in Italia, ospite del festival piemontese Collisioni, per conversare con un pubblico di giovani (accanto a Hari Kunzru e ad Antonio Scurati) sui temi che motivano il suo prosare limpido e visionario e la sua voce originale, scaturita dalle fastosità ancestrali dell'ex impero filtrate dalla tradizione europea. Il tutto avverrà a partire dal suo ultimo romanzo, Luka e il fuoco della vita: un libro per ragazzi (definizione scomoda, poiché intesa quasi sempre, erroneamente, come riduttiva) che parte dall'immenso serbatoio delle fiabe orientali (dalle Mille e una notte al Poema dei fiumi del Kashmir) per edificare un cosmo contaminato dai nuovi media, in una scatola cinese di plot calvinianamente innestati l'uno nell'altro. Rushdie lo ha scritto per il suo secondo figlio e lo ha sentito un po' come un seguito di Harun e il mar delle storie, uscito nel '90 e dedicato al primo figlio: un inno alla ricchezza del narrare e alla libertà di opinione, in risposta al regime di clandestinità al quale lo aveva costretto la condanna a morte inflittagli da Khomeini.
Ora il suo Luka, Mister Rushdie, intreccia fiabe antiche e mondi mitici con l'odierna narratività iper-tecnologica, descrivendo una realtà parallela che vive nel mondo elettronico e in un complesso gioco al computer. È il suo modo di dirci che le nuove tecnologie possono entrare in sintonia con la cultura tradizionale? «Ho pensato di rinvigorire e interrogare certi materiali antichi, come fanno deliberatamente molti videogame, modellati su miti e leggende. Ma non c'è stato solo questo: scrivere Luka mi ha permesso di indagare temi terribilmente seri, come l'idea della vita, che nei videogame diventa molto cheap. In quei giochi la puoi moltiplicare migliaia di volte. Puoi trovare ovunque vite vecchie e nuove, o pescare e riprodurre extra-vite ...».
Non può travolgerci, questo profluvio di piani esistenziali? L'eccesso di tecnologia non rischia di svuotare certe profondità, come proiettandole sulla piattezza di un salvaschermo? «Certo: il pericolo esiste. Infatti il libro parla di un ragazzo in lotta per salvare la vita del padre, che è solo una: non può essercene un'altra. La realtà del loro rapporto sfugge alla logica del videogame. Per un verso il romanzo è preso da seduzioni fantastiche anche spicciole; per un altro è sospettoso nei loro confronti».
Da Luka e il fuoco della vita emerge un modo ricco e quasi acrobatico di usare il linguaggio: allegorie, nonsense, giochi di parole ... Il libro è un po' figlio di Lewis Carroll? «In parte sì. Io mi sento molto legato a Carroll. Da ragazzo ho studiato a Rugby, in Yorkshire, nella stessa scuola da lui frequentata. Cosa che mi ha sempre reso fiero, pur avendo detestato la scuola».
Sembra Calvino, tuttavia, il suo principale ispiratore. «A lui mi ha unito una bella amicizia. Quand'ero giovane, e Calvino non era granché noto in Inghilterra, mi tuffavo nei suoi romanzi, sui quali scrissi un articolo per la London Review of Books che gli piacque molto, tanto che quando venne a Londra a presentare il suo lavoro chiese agli organizzatori di invitarmi a introdurlo. Ci conoscemmo così. Poi mi incoraggiò tanto e recensì su la Repubblica in modo ampio e lusinghiero I Figli della Mezzanotte, appena il libro giunse in Italia. Amo il suo approccio agli ingranaggi narrativi, e strutturalmente c'è qualcosa che accomuna Luka a Se una notte d'inverno un viaggiatore. Ma in Luka ci sono anche gli influssi di Gogol e Kafka».
In che senso? «La letteratura fantastica mi ha sempre affascinato, facendomi sentire controcorrente rispetto alla tradizione letteraria inglese, costituzionalmente realistica. Penso a Cervantes e al Gogol delle Anime morte. Quanto a Kafka, è sempre con me. Ciò che si tende a non vedere, nei suoi capolavori, è il lato buffo. L'effetto non è divertente, ma c'è uno spirito comico che pervade la sua scrittura. Prendiamo Il Castello, dove ogni scena è una commedia: esilarante. Eppure, a fine lettura, si è colti dall'inquietudine. Il genio di Kafka consiste nell'usare quel registro per infondere timore, insicurezza, disorientamento, insomma tutto il profondo dark che associamo al termine "kafkiano". Una sostanza nera ottenuta con un procedimento comico. Un innesto meraviglioso».
Come vede il rapporto tra giovani e letteratura? I ragazzi leggono e leggeranno romanzi, secondo lei, a dispetto della concorrenza dei media del terzo millennio? «Non so che fine faranno i libri di carta, ma posso testimoniare che molti coetanei del mio secondo figlio, che ha quattordici anni (il primo ormai ne ha trentadue), leggono storie sul loro iPad. E nonostante il pessimismo che dilaga sull'argomento, è incoraggiante il fatto che tanti miei colleghi, soprattutto in America, animino reading affollatissimi di pubblico. Io sono un lettore old fashion, nel senso che mi piace tenere il libro tra le mani, sentirlo. Ma il mondo sta andando da un'altra parte, è inevitabile e va bene così».
Crede nello sviluppo dell'ebook? «Riguardo a questo il problema attuale, più che col medium in sé, ha a che fare col suo impatto economico. C'è il pericolo che nell' industria del libro avvenga quanto è accaduto nel mercato della musica, con un abbattimento dei costi troppo violento per consentire agli scrittori e agli editori di andare avanti. Preoccupa, per esempio, quel che sta facendo la Apple per far crollare i prezzi degli e-book a un livello che potrebbe distruggere chi lavora nell'editoria. Si può alimentare la produzione solo trovando un accordo sui prezzi che consenta di vivere agli autori e a chi li pubblica».
A che punto è la sua autobiografia, già opzionata dagli editori di numerosi Paesi, in cui affronterà i suoi ricordi personali, incluso il tema della Fatwa? «Ci sto lavorando: è l'impegno che occupa il mio presente. Ho terminato la prima stesura e dovrei completare il tutto a fine anno»." (da Leonetta Bentivoglio, Salman Rushdie: dai miti ai videogame, tutto è letteratura, "La Repubblica", 26/05/'11)

lunedì 23 maggio 2011

Memorie di un venditore di libri


"«Sentite a me: 'e libri nun se vendono! Ma nun è che nun se vendono mo'. 'E libri nun se so' venduti maie!». Parole (sante) di uno che i libri ha cercato di venderli ai librai, mestiere difficilissimo. E nella zona più sfortunata, il sud dell'Italia. «'A Calabria? La Calabria è debole in tutto, la Calabria è un peso per l'Italia». «'A Lucania? 'A Lucania nun avesse proprio esistere 'ncoppa 'a carta geografica! Nuie tenimmo nu cliente a Matera, a Potenza ne tenimmo n'ato cu' 'o cunto chiuso, e uno a Maratea»...
Chi parla è Procolo Falanga, «eroe indegno» di un racconto spassosissimo – se i libri si vendessero dovrebbe essere in cima alla classifica, ma 'e libri nun se vendono ... – di Antonio Franchini che ora torna da Marsilio dopo essere apparso, anni fa, nell'antologia einaudiana I disertori, sotto il roboante titolo Su alcuni aspetti del mercato del libro del Mezzogiorno d'Italia. Ottanta pagine di puro divertimento, più di una risata a scena, anzi a pagina, aperta; una capacità, in Franchini, di cogliere il fine guizzo nel dettaglio sottile ma di non trascurare, quando ci vuole ci vuole, la grana grossa del racconto. Una risposta concreta ai soloni dell'editoria, un pernacchio memorabile ai trombonismi del mercato del libro, quelli che pensano che solo perché esistono i libri tutti li dovrebbero comprare. L'editore è facilmente identificabile in Mondadori, le situazioni sono quelle tipiche del lavoro degli ispettori, dei librai, dei direttori marketing. Un viaggio a Vienna e uno a Madrid a fare da quinte mobili per un personaggio, don Procolo (al secolo don Ferdinando: ovvio che sia esistito per davvero), memorabile, simpatico, imbattibile nella sua ironia.
Uno che dice le cose come stanno, che non illude gli scrittori, che racconta alle loro anime belle cosa sia il mercato del libro visto con i suoi occhi esperti: una sofferenza! Incontra così nel viaggio il poeta, il malcapitato Cattabiani. «È l'autore della raccolta La dissimulazione del decoro. Quante copie se ne venderanno, dite!» malignano i colleghi davanti all'autore, sapendo della tagliente dissacrazione di don Procolo. «Quanti ccopie? Ma chisto è nu "bollino giallo", direttamente!» «Un bollino giallo? E che cos'è un bollino giallo?» «Sono i libri che, appena escono dalla tipografia, noi diciamo che è come se avessero sopra un bollino giallo con su scritto "vado e torno", cioè esco dal magazzino delle novità e vado a finire subito in quello delle rese» ...
Don Procolo ha a che fare con i librai stagionali, quelli che, nei posti di vacanza, si improvvisano venditori di libri. E racconta le avventure surreali che gli capitano in quei posti. L'intenzione di «allargare il mercato» è mortificata da come il mercato risponde alle sollecitazioni. Anche se il libro e lo stesso don Procolo è rispettato e temuto: chi vende libri – a tutti i livelli – sa che essi non sono riducibili alla materia di cui sono fatti. Ciò non toglie che bisogna sempre essere pronti alla disfatta. E così, quando il grande Arnoldo gli chiede di andare un po' per librerie a «vedere come sta esposta la gloriosa Medusa», per Procolo son guai. Cerca un telefono a gettone e chiama il libraio: presto, «cacciate a Medusa». Perché, sì, anche la gloriosa Medusa, nun se vende. I libri, ormai lo sappiamo, non si sono mai venduti... Ma, datemi retta, almeno questo compratevelo, leggetevelo, divertitevi. Ogni tanto, prendiamoci in giro." (da Stefano Salis, 'e libri? Nun se vendono... Ricordatelo!, "Il Sole 24 ore" 22/05/'11)

sabato 21 maggio 2011

Un cuore intelligente


"Va accolto come un miracolo, una grazia, una benedizione, perché ha tutte le caratteristiche del dono divino.
Impossibile che giunga però dal Cielo sul terreno sconsacrato, secolarizzato, laicizzato che si estende nel deserto del nostro tempo. Improbabile che lo mandi il Padreterno sulla terra disertata da un dio «morto» (Nietzsche), «fuggito» (Hölderlin), «ritirato» (Bloy), in cui alla fede si è sostituita la ragione, alla trascendenza la gelida astrazione e a una promessa di salvezza di là da venire l'escatologia tutta immanente di una rivoluzione.
Eppure nello scenario grandioso - e vuoto - che Alain Finkielkraut ritrae come il paesaggio in cui oramai ci muoviamo, miracolosamente batte Un cuore intelligente (Adelphi).
«Il re Salomone supplicava l'Altissimo di concederglielo», spiega il critico francese attingendo alle memorie bibliche delle sue origini ebraiche.
Ma al giorno d’oggi non ci arriverà da Lui, né dalla Storia, «moderno avatar della teodicea», prosegue. Bensì dalla letteratura, quella forma di mediazione «che non offre garanzie», il sapere imperfetto che si sottrae alle generalizzazioni, una «scienza della delicatezza» che si applica nell'esercizio dell'attenzione.
È nello spazio letterario, in un contesto di finzione, che il cuore intelligente recita la sua parte. Gli spetta tuttavia - non per finta - in ruolo di organo indispensabile, fondamentale, vitale: per cogliere proprio il significato della storia e colmare la distanza dal divino. Per sentire il polso dell'epoca e capirla, comprenderla, com-patirla: con una partecipazione, un pathos, una passione che non può - non dovrebbe mai - investire la mente, se non a rischio di gravi colpi di testa. A scanso di equivoci nefasti Finkielkraut affronta «di petto», con l'intelligenza del cuore, la differenza tra gli entusiasmi per l'idea, i fanatismi dell'ideale, gli eccessi dell'ideologia cui porta la ragione che si fa sentimentale, e quella «sagacia affettiva», la sensibilità acuta, l'arguzia anche, generosa e calorosa, che contraddistinguono l'approccio del letterato.
E lo fa con una grande lezione di letteratura. Attraverso la lettura degli autori «del cuore»: prescelti in base alle ragioni che la ragione da sé sola non intenderebbe (direbbe il Pascal teorico dell'ésprit de finesse), e auscultati e esaminati per analizzare il sangue che ne irrora l'opera.
Che i prediletti siano Camus, Dostoevskij e Karen Blixen, il Milan Kundera di Lo scherzo, il Philip Roth di La macchia umana, il Vasilij Grossman
di Tutto scorre e Vita e destino è e non è un caso. È una necessità contingente come la vita e fatale come un destino. Singolare, irriducibile come un'opera d'arte che corregge, affermandoli, l'assolutismo dei valori universali.
Ha appunto l'esemplarità di «un caso» la vicenda di Ludvik, il personaggio di Kundera che - nella Praga del 1948, quando i comunisti avevano appena preso il potere - azzarda giocare Lo scherzo al rigorismo manicheo del partito; o quella dell'alter ego di Grossman, l'Ivan Grigor'evic di Tutto scorre, che sfida quei «fanatici del pugno chiuso», «i professori di materialismo dialettico» dai cui argomenti, nella Russia staliniana, era stato sedotto, con successivo rammarico, l'autore.
Esemplare nella sua originalità è l'uomo di Dostoevskij che mina le fondamenta del palazzo di cristallo erodendole con i Ricordi del sottosuolo, e denuncia l'insufficienza delle utopie rivelandole «paurosamente riduttive». O la Babette di Karen Blixen che, approdata dai fasti delle cucine francesi a una Norvegia di austerità luterana, rovescia e ricompone la vecchia antinomia tra anima e corpo, dà sollievo all'uno prendendolo per la gola, e lo solleva tanto da trascinare l'altra in estasi fino al Cielo. Sembra una burla, ma «Dio ama scherzare», è l'adagio che la Blixen si era scelta come motto. «L'uomo pensa, Dio ride», ribadiva in altre parole Milan Kundera in un testo che, Finkielkraut tiene con sé in ciascuna delle sue scorribande letterarie.
Il testo è L'arte del romanzo, donata agli uomini, secondo il suo autore, come «il lampo divino che rivela l'ambiguità morale del mondo», «venuta al mondo come un'eco della risata di Dio». A volte è amara, lo attesta la sua lunga risonanza in letteratura. Ma anche quando Dio se ne sia andato dell'eco lontana della Sua presenza ci sarà pur sempre da gioire: perché sarà il suono di una risata di cuore. Intelligente ..." (da Alessandra Iadicicco, Ci vuole un cuore intelligente per leggere e gioire, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/05/'11)

Notizie dagli scavi


"Fra i nostri autori di cinema, Emidio Greco è il più letterato. Non a caso - smentendo un inveterato luogo comune - ha realizzato film belli tratti da grandi scrittori (da L'invenzione di Morel da Adolfo Bioy Casares nel '74 all'ultimo Notizie degli scavi tratto da Franco Lucentini e uscito poche settimane fa; il mio preferito è forse Ehrengard, da Karen Blixen; poi c'è il dittico da Sciascia, Una storia semplice e Il consiglio d'Egitto). Lo incontro in una schiamazzante trattoria a Ponte Milvio. Notizie degli scavi s'incastona nella Roma più frastornante: allo stesso modo, qui, mi conforta la lucidità di Emidio. I ricordi di un'Italia avventurosa, remota come un'era archeologica, riverberano su un presente osservato con sguardo altrettanto penetrante. Cominciamo a scavare dunque.
Con Notizie degli scavi si chiude un cerchio. «Lessi il racconto di Lucentini appena uscì, nel '64 da Feltrinelli, e me ne innamorai all'istante. Al concorso per il Centro sperimentale di cinematografia buttai giù una sceneggiatura, ma il film l'ho realizzato solo quarantasei anni dopo! Sino ad allora avevo vissuto a Torino (dove mi ero trasferito ragazzo dalla Puglia). Ero l'unico a voler fare cinema in un gruppo di aspiranti artisti, alcuni dei quali destinati alla
celebrità: Merz, Pistoletto, Paolini, Zorio e altri. In particolare Alighiero Boetti era il mio migliore amico: per una decina d'anni ci vedemmo tutti i giorni. Facevamo ragioneria poi ci iscrivemmo, senza mai laurearci, ad economia e commercio. La mia prima vocazione era teatrale: i Sei personaggi di Pirandello mi avevano sconvolto. Verso il '56 o '57, a Palazzo Campana ascoltai una serie di conferenze di Mario Gromo, critico cinematografico della Stampa. Fu una folgorazione. Ma Torino fu decisiva, ovviamente, anche per la letteratura. La lettura di Borges fu anch'essa mediata da Lucentini, che tradusse Finzioni per Einaudi nel '61 (anche se prima lessi L'Aleph, uscito da Feltrinelli)».
La Torino degli artisti concettuali e quella di Einaudi parevano però città distanti. E forse hai fatto tu da trait d'union ... «Beh, con Boetti in effetti è
andata un po' così. Su di lui nel '78 ho anche fatto un film, Niente da vedere niente da nascondere (nel 2006 Sossella lo ha pubblicato in dvd assieme a testi di Annemarie Sauzeau e Stefano Chiodi, ndr). Gli amici facevano capo alla galleria di Gian Enzo Sperone, in via Carlo Alberto.
Erano anni fantastici ... Alighiero e io eravamo stati folgorati da de Staël e Bacon alla Galleria d'Arte Moderna. Ma il primo a "rompere" con la pittura è Pistoletto coi Quadri specchianti, nel '63. Uno choc. Il suo gallerista non li capisce, lui va da Ileana Sonnabend a Parigi e da lì tutto prende il via. Poi la diaspora, Alighiero e io ci trasferiamo a Roma. Borges ci affratellava. L'intensità di quelle letture era il segno di una temperatura esistenziale: ci sentivamo davvero "gettati" nel tempo, lo vivevamo come campo di possibilità».
Gli anni Sessanta furono questo, in Italia. Una «finestra» che si chiuse abbastanza presto. «Basti pensare a cosa rappresentò il Gruppo 63. Io mi legai soprattutto ad Angelo Guglielmi (che mi fece lavorare in televisione), ad Andrea Barbato (che con me ha scritto due film) e a Enrico Filippini, che collaborò a Ehrengard e fu mio grande amico. Alla Rai ho lavorato molto dal '75 all'80 circa, dopo la riforma e prima che si inseguissero indiscriminatamente le reti allora dette "commerciali". Fu allora che ebbi l'occasione di incontrarlo, Borges; era l'80, gli veniva conferito il Premio Cervantes e lo intervistai. Gli dissi che avevo tratto un film dal suo amico Bioy Casares, il che non lo colpì granché. Mi rispose che un altro italiano aveva fatto un film tratto invece da un suo racconto: era Bernardo Bertolucci, e il film Strategia del ragno».
Con tutta l'ammirazione per Bertolucci, il passaggio da Borges ad Ammaniti disegna bene il percorso della nostra cultura ... Mi pare di capire che ancor oggi l’affascini l'aura borgesiana, in letteratura. «Paul Auster, Cees Nooteboom, un certo Milan Kundera, secondo me anche Javier Marías sono gli scrittori che oggi leggo più volentieri. In Italia un certo Calvino e poi Sciascia di sicuro. Tante volte ho provato a immaginare un film tratto da Borges, ma mi pare impossibile».
Del resto le piacciono soprattutto testi «anti-cinematografici».
È anche il caso di Notizie degli scavi, che si regge sulla prospettiva autre
del protagonista, un alienato assai beckettiano ironicamente soprannominato il Professore (e interpretato da Giuseppe Battiston in modo magistrale). «Faccio un cinema che si nega, sì. È un rischio calcolato. Non ci sono molte soggettive, ma è come se la macchina da presa si identificasse con lo sguardo del personaggio. Credo di aver riprodotto la sua ossessività, la sua catatonia ... i dialoghi sono riportati pari pari. È un personaggio verosimile, il Professore. Del resto sono sempre stato per un cinema della verosimiglianza (non del realismo, cosa assai diversa), che per me si traduce in una tensione etica contro ogni ideologia o pensiero totalizzante. È quella che in filosofia si definisce un'epoché».
Come nel finale di Notizie degli scavi: «ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era». «Accettare davvero l'infinita ambiguità dell'esistenza non è così semplice. Lettura decisiva fu La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl, tradotto da Filippini nel '61 per il Saggiatore. Quello che Husserl chiama il Mondo della vita muta istante dopo istante, e l'Incertezza è condizione universale dell'esistenza. Ma già in Il Rosso e il nero di Stendhal trovo lo stesso azzeramento dell'enfasi dei significati. L'ossessione per la scalata sociale di Julien Sorel non può che portare a uno scacco, a una decapitazione - come quella dell'avvocato Di Blasi alla fine del Consiglio d'Egitto. All'esecuzione faccio assistere la Contessa di Regalpetra - come Mathilde de la Mole in Il Rosso e il nero».
Ecco, è proprio pensando a questo finale, e in Notizie degli scavi alla scena in ospedale, che mi è venuto in mente come Domenico Scarpa conclude il suo saggio sul racconto di Lucentini: «arrivati alla fine ci si commuove senza nemmeno accorgersene». Ci si sorprende di quest’improvvisa apertura al sentimento - in un autore del tuo rigore culturale e stilistico. «Dovevo arrivare a quest'età perché mi si dicesse che ho fatto un film sentimentale (il che non vuol dire, mi auguro, sentimentalistico).
In Husserl c'è l'epoché ma c'è anche un tèlos, quello dell'amore: un'energia che non cessa, la stessa di Stendhal, appunto. Cioè l'accettazione dell'Altro. Il sorriso del Professore e della Marchesa (che è in realtà una prostituta), riflessi da un vetro alla fine di Notizie degli scavi, è il segno che quella loro vita assurda, nonostante tutto, viene accettata».
Ed è il segno che il Disincanto non è assoluto. Sta a dimostrarlo il suo impegno civile e politico. Lei è tutto meno che un nichilista, direi. «Non bisogna confondere il disincanto col disimpegno. Niente nichilismo e niente soggettivismo gratuito, grazie. Giorno dopo giorno - proprio perché nulla è in sé deciso - dobbiamo decidere della nostra esistenza».
Ma oggi, rispetto agli anni Sessanta, quel campo di possibilità è ancora aperto? «Al contrario di allora, chi è giovane oggi si vede negata ogni possibilità. È un'epoca tremenda, secondo molti irreversibile. D'altra parte ho settantadue anni. Cambiare - ammesso che ne abbia voglia - ormai non posso. Non resta che salutarci: con lo stesso sorriso del Professore»." (da Andrea Cortellessa, Emidio Greco: 'L'utopia è fare un film con Borges', "TuttoLibri", "La Stampa", 21/05/'11)

Volevo essere una gattamorta


"Si inneggiava nel nuovo rosa all’uso dell’ironia, e anzi dell’autoironia nelle giovani autrici - quasi fosse una scoperta nella scrittura delle donne - alla cui luce venivano analizzati problemi concreti di ragazze alle prese con la vita, quali la lotta per il lavoro o addirittura per la sopravvivenza, senza dimenticare l’Amore, quello con la maiuscola, con la acquietante certezza di un happy ending.
Tutti temi ben presenti a Chiara Moscardelli, al suo occhio acuto e alla sua penna, piuttosto abile per un’esordiente, nella quale si coglie peraltro un solido apparato di letture e quella cultura di battaglia indispensabile per orientarsi nel labirinto
ingannevole delle misere opportunità - ammesso che ne esistano - offerte oggi dal mondo del lavoro.
Il suo primo romanzo, Volevo essere una gatta morta (Einaudi) è una sorta di anti-chicklit nei toni, solido eppur scritto con mano leggera, impietosa eppure di un’agritudine complice e amorevole che, nell’apparente identità dei temi opta tuttavia per una soluzione estranea alla nuova letteratura femminile, scegliendo anzitutto di non risolvere in fiaba ma accettare le contraddizioni del reale in parte gradevoli in parte immodificabili.
La protagonista Chiara è una Bridget Jones (più volte citata nel libro) di serio pensiero che non si ritrova con due uomini come Colin Firth e Hugh Grant a fare da cascamorti a lei con le sue improbabili mutande ascellari a coronare l'ingloriosa ciccia, una figura che in fondo ripropone portandolo agli estremi l'eterno mito di Cenerentola, una Cenerentola che non si trasforma in bel cigno ma viene amata come brutto anatroccolo.
Sebbene anche lei si senta un brutto anatroccolo, è però viva, spiritosa, vitale e soprattutto capace di amicizia rara e profonda; sa essere forte nelle vicende pratiche, pure quando tutto le si volge amabilmente contro, come i tanti marchingegni tecnologici nei film di Jerry Lewis.
Insomma è vera, inadeguata, pasticciona. Irresistibile. Idealizza un ragazzo, crede nelle sue promesse vane, lo aspetta interiormente strepitando e inondando di lacrime gli amici scettici - tra i quali uno che parla con competenza dei segreti di Matisse, che però non è il pittore ma il suo cane - ma attendendone fedele, sempre rigenerantesi, l'amore. Perché anche lei, come Elizabeth Bennet, è stata educata al mito dell’enchanting prince. Solo che ai tempi di Jane Austen un uomo suo pari, capace di mirare agli occhi e riconoscerne l'intelligenza, esisteva; mentre ora, alla ragazza ribelle e solida si presentano maschi deboli e farfalloni, incapaci persino di un rapporto sessuale soddisfacente, piagnoni, pronti a donare e ricevere amicizia, ma altrettanto inclini a rincorrere le gatte morte.
Il fatto è che Chiara non è così.
Forse, a suo dire, perché è nata podalica e quindi sovversiva rispetto alla norma. Vorrebbe saper sbattere a tempo le ciglia, fingersi in perenne bisogno di
protezione, identificare con un solo colpo d'occhio tra corteggiatori quello dalla carriera più promettente. Ma come molte altre sue coetanee proprio non ce la fa, sicché non le si apre il portone dell’amore.
Una lettura piacevole, scandita dai miti televisivi e cinematografici degli Anni Ottanta e Novanta, sapiente nelle partizioni, dalla tragedia annunciata dell’inizio al finale liberatorio, un po’ smorzato e frettoloso." (da Mia Peluso, Così pasticciona, così irresistibile, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/05/'11)

mercoledì 18 maggio 2011

Edimburgo, come un romanzo da leggere a piedi


"C'è un solo posto al mondo dove il monumento più importante della città è dedicato ad uno scrittore. Perché Edimburgo è come sfogliare le pagine di un libro stregato che non finisce mai, ed ogni volta è una storia diversa: un romanzo medievale, un racconto d'avventura, un cupo intreccio di omicidi, un mistero poliziesco. Edimburgo è una bozza ambulante, una sceneggiatura perpetua, capitoli di un capolavoro in continuo divenire. Da secoli. La città della letteratura, così dice l'Unesco, dove è inevitabile riconoscere ed emozionarsi anche se è la prima volta che ci si viene: dove non c'è strada o palazzo, non c'è finestra o lampione, non c'è pub e non c'è panchina, giardino, scalinata che non sia stata narrata. E letta, vissuta, amata.
L'impressionante statua gotica in Princes Street è quella di Walter Scott (ritratto con il suo cane), uno più grandi esponenti del romanticismo britannico. Arthur Conan Doyle abitava qui, quando cominciò a scrivere delle prime indagini di Sherlock Holmes. Era nato in Picardy Place, giusto ad un passo dal Leith Walk, lo scenario di Trainspotting, il film-cult tratto da un libro di Irvine Welsh. Che è inguaribilmente di Edimburgo. Come Joanne Kathling Rowling: seduta ad un tavolino di una civettuola sala da tè - The Elephant House, in George IV Bridge - ha creato i finali dei romanzi di Harry Potter. Il professor Alexander McCall-Smith ci ha studiato, si è sposato ed insegna all'Università. Ma soprattutto ha scritto qui i suoi memorabili gialli con protagonista una detective del Botswana, Precious Ramotswe. E sul principale quotidiano locale, lo Scotsman, ha pubblicato una serie di avventure giornaliere ambientate in città. L'ambiente di Edimburgo, appunto: quel panorama «magnifico» - come dice Jean al suo compagno, l'ispettore John Rebus, dopo aver parcheggiato la Saab sul North Bridge - sui tetti appuntiti e le mura del castello, sulle vecchie pietre della città medievale, e più sotto sulle larghe strade neoclassiche e i parchi della New Town. Un microcosmo dalla dicotomia visibile e strutturale che è stato dichiarato Patrimonio dell'Umanità. In alto la città vecchia con il suo castello e le stradine anarchiche, un tempo regolarmente devastate dalle epidemie e dagli incendi - gli irlandesi Burke e Hare rubavano cadaveri per il dottor Knox, nel 2010 John Landis ne ha fatto una strepitosa commedia nera - il villaggio celtico dei signori e degli zotici, dei ladri e delle prostitute: l'Edimburgo recuperata trent'anni fa e oggi bella più che mai, risalendo il Royal Mile, tra tanti musei (tutti gratuiti, tranne la visita al castello), negozi e la cattedrale di St. Giles. Più in basso quella nuova dell'illuminismo borghese, la città dell'Ottocento elegante e pianificata, razionale, con i giardini di Princes Street e il Floral Clock, l'orologio floreale. Collegate da The Mound, la strada con la neoclassica National Gallery: New e Old Town, ovvero Jeckyll e Hyde, il capolavoro di Robert Louis Stevenson. Che ha raccontato la sua città e la vera storia di William "Deacon" Brodie, il Diacono che di giorno nella Città Nuova era un rispettabile uomo d'affari e politico, mentre la notte si trasformava in criminalee frequentatore di prostitute nella Città Vecchia.
Edimburgo va letta. Camminando. Come un libro: con calma, riga per riga, e poi all'improvviso divorando una pagina dietro l'altra. Scendendo dal Royal Mile fino al palazzo reale di Holyrood, la residenza della Regina d'Inghilterra, dove lord Damley assassinò David Rizzio, presunto amante di sua moglie, Maria Stuarda. Passando per il nuovo edificio che ospita il Parlamento scozzese, un complesso spaziale firmato dallo spagnolo Enrique Miralles nel 2004, tra profili di barche rovesciate e foglie stilizzate. Risalendo fino a Calton Hill, da dove si gode una vista straordinaria: nei parchi a nord della città i binari della vecchia ferrovia sono stati sostituiti da piste ciclabili, più sotto c'è il college di Fettes dove ha studiato Tony Blair e Ian Fleming racconta che James Bond sia stato espulso. Ufficialmente gli abitanti sono 450.000 circa, ma in estate diventano più del doppio. È tutto un fiorire di festival culturali, in particolare l'Edinburgh International Book Festival che per 17 giorni in agosto raduna quasi un migliaio di autorie duecentomila visitatori. «Perché - dice Frances Sutton, portavoce della City of Literature - questa è una città d'ispirazione. Con le storie scritte sulle pietre. Come pagine di un romanzo». " (da Massimo Calandri, Edimburgo, come un romanzo da leggere a piedi, "La Repubblica", 18/05/'11)

Alone Together


"Negli anni Sessanta, l’informatico Joseph Weizenbaum creò il programma ELIZA, che simulava l’interazione fra uno psicoterapeuta e i suoi pazienti. Il programma, testato da alcuni studenti, si rivelò fin troppo efficace, al punto che alcune «cavie», pur sapendo di avere a che fare con un computer, chiesero di poter essere lasciate sole con il «dottore» durante le sedute. Colpito da quella che giudicava una pericolosa perdita di consapevolezza delle differenze fra esseri umani e macchine, Weizenbaum scrisse un veemente atto di accusa contro le chimere dell’Intelligenza Artificiale. Più di quarant’anni dopo, Sherry Turkle (la celebre studiosa di «cyberantropologia », autrice del bestseller La vita sullo schermo, Apogeo) riconosce la lungimiranza di Weizenbaum e fa autocritica. Ai tempi, l’allora giovanissima Turkle aveva infatti criticato il maestro, affermando che gli studenti sapevano di avere a che fare con una macchina, ma usavano la simulazione per capire meglio se stessi sperimentando le proprie emozioni e sentimenti. Un punto di vista che Turkle ha ribadito in seguito, sostenendo che l’uso di false identità nei giochi di ruolo online è una salutare pratica terapeutica. Oggi arriva il clamoroso «pentimento», motivato nel recentissimo Alone Together, un saggio che in America è andato esaurito in poche settimane.
Citando i risultati delle proprie ricerche, oltre a numerosi casi clinici (la Turkle è psicoterapeuta, oltre che antropologa), l’autrice ammette di essersi sbagliata nell’attribuire ai nuovi media un ruolo di socializzazione prevalentemente positivo, salvo casi patologici non attribuibili al mezzo in quanto tale. Ora si è convinta che la comunicazione mediata dal computer — ove non associata ad adeguati livelli di consapevolezza critica — sia alla radice di gravi problemi socioculturali, oltre che psicologici: crescente fragilità dell’identità giovanile, costretta a trovare sostegno nella costante interazione comunicativa con l’altro virtuale (si dialoga con le interfacce, non con le persone, con le quali si evita anzi il più possibile di avere rapporti fisici, rifuggendo persino dai contatti con la voce, come dimostra la preferenza per gli sms rispetto alle telefonate); indebolimento del legame sociale, logorato dai processi di individualizzazione, e — come previsto dal vecchio Weizenbaum — smarrimento della differenza fra macchine ed esseri viventi. L’ultimo rischio — aggravato dalla crescente capacità delle intelligenze artificiali di decodificare il linguaggio naturale (vedi le strabilianti prestazioni del sistema computazionale Watson creato da Ibm) — è al centro di un altro clamoroso pentimento: quello di Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale, nonché autore di un recente libro (Tu non sei un gadget, Mondadori) che mette in guardia contro la tendenza a delegare memoria, creatività e capacità di giudizio alla rete, concepita come una sorta di superintelligenza planetaria. Tutti convertiti al paradigma «apocalittico»? Lo schema apocalittici versus integrati non regge: a vent’anni dall’avvento del Web, l’eterna battaglia fra innovatori e tradizionalisti, che si replica con argomenti noiosamente identici in occasione di tutte le rivoluzioni tecnologiche, si è esaurita, nel senso che tutti danno ormai per scontato che le tecnologie digitali sono qui per restare per cui è inevitabile farci i conti.
La vera novità è un’altra: molti intellettuali, dopo avere subito il fascino della fulminea mutazione culturale oltre che tecnologica, ma soprattutto delle promesse di un mondo migliore, hanno ricominciato a fare il proprio mestiere, cioè a distinguere fra realtà e mito. Ecco perché, nel corso dell’ultimo anno, sono usciti libri come quelli di Tim Wu, Evgeny Morozov e Mathieu O’Neil, che ragionano sui limiti della rete come strumento di democratizzazione dell’economia e di appiattimento delle gerarchie sociali e politiche; o come quelli di Nicholas Carr e Andrew Keen, che ridimensionano il ruolo rivoluzionario di blog e social network nel campo della produzione culturale.
Anche una delle più prestigiose riviste italiane di filosofia, «aut aut», ha dato il proprio contributo, pubblicando un numero monografico sul Web con interventi, fra gli altri, di Stefano Rodotà sulla «privatizzazione» del diritto internazionale promossa dai colossi dell’industria globale della comunicazione, e di Geert Lovink sulla colonizzazione commerciale delle comunità del cosiddetto Web 2.0. Se per autori come Turkle e Lanier è lecito parlare di pentimento, in quasi tutti i casi appena citati siamo piuttosto di fronte a studiosi che potremmo definire «i delusi di Internet», nel senso della presa d’atto del progressivo esaurirsi delle grandi speranze che il mezzo aveva alimentato negli anni Novanta del secolo scorso." (da Carlo Formenti, Ma anche il Web ha i suoi pentiti, "Corriere della Sera", 17/05/'11)

martedì 17 maggio 2011

Il Paese cresce se studiano tutti


"Negli ultimi anni c’è stato un succedersi di libri dedicati alla nostra scuola intitolati allo «sfascio», al «fallimento». E qualcuno non ha resistito alla tentazione di sferrare un attacco agli insegnanti, accusati di essere fannulloni oppure agitprop. Degli attacchi hanno fatto le spese anche ragazze e ragazzi, autorevolmente dipinti come svogliati e peggio. È giusto un quadro del genere? Con la sua scrittura piacevole Paola Mastrocola ha il merito di spingerci a riflettere sulle possibili risposte a questa domanda.

Lei sembra non avere dubbi sulla risposta. La scuola merita di funzionare per le ragazze e i ragazzi che troviamo disponibili ad accogliere il nostro insegnamento: uno su venticinque nella sua classe. Gli altri si arrangino in canali scolastici per gli svogliati e, insomma, «tolgano il disturbo » a se stessi e a noi che vorremmo accrescere il loro sapere. Questa risposta trova consensi. E se i consensi fossero seri e dovessero persistere darebbero una mano a chi di taglio in taglio delle risorse prefigura una scuola ridotta ai minimi termini. Torniamo così a porre una domanda: possiamo fare a meno di una scuola che funzioni invece a pieno regime? Che funzioni per far venire la voglia di studiare (se davvero non ce l’hanno) anche agli altri ventiquattro alunni della professoressa Mastrocola?

Una prima risposta ci viene da un imponente lavoro fatto da Robert J. Barrow, Jong Wha Lee e altri studiosi nordamericani. Col sostegno finanziario della Banca asiatica dello sviluppo hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione in centoventi Paesi del mondo tra 1950 e 2010. La loro conclusione dovrebbe togliere ogni dubbio: dai Paesi più poveri ai più ricchi la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione è stata un fattore decisivo degli incrementi di reddito dei diversi Paesi. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico. Tagliare gli investimenti in istruzione significa compromettere il futuro sviluppo anche economico. Hanno dunque ragione i nostri editori che in questi giorni hanno lanciato nelle scuole e nel Paese un appello in difesa della scuola pubblica e l’hanno concluso scrivendo: «Prendiamo sul serio il nostro futuro».

Le serie storiche costruire da Barrow e Wha Lee permettono di capire, dati alla mano, il grande debito che in Italia abbiamo verso la nostra scuola. Nel 1950 nel nostro Paese avevamo in media tre anni di scuola a testa. Già allora la media nei Paesi sviluppati viaggiava sui dieci anni. Il nostro «indice di scolarità» ci collocava tra i Paesi sottosviluppati. Nel 2010 l’indice sfiora i dodici anni di scuola a testa. Sia pure in coda, siamo oggi tra i paesi sviluppati, mentre quelli in via di sviluppo sono a sei anni di scuola a testa. È cresciuto il livello di istruzione e dal rango dei sottosviluppati siamo passati al gruppo di testa.

L’Italia della Repubblica ha conosciuto altri fenomeni di crescita. Per non andare lontani dall’istruzione, in questi sessant’anni ci siamo impadroniti al 95% della capacità di usare la nostra lingua nazionale nel parlare, ma qui hanno premuto parecchi fattori diversi: le grandi migrazioni interne, la partecipazione alla vita di sindacati e partiti, l’ascolto televisivo e, certamente, la scuola. Ma la crescita dell’istruzione la dobbiamo soltanto al fatto che il bisogno popolare di istruzione ha trovato accoglienza nelle nostre scuole. Sono le scuole, sono gli e le insegnanti che di anno in anno ci hanno fatto crescere fino a mutare di condizione. Ma la scuola non poteva e non può tutto. Ragazze e ragazzi usciti di scuola con livelli crescenti di scolarità si sono immessi in una società adulta essa sì povera di sollecitazioni culturali, di luoghi della cultura. E sono andati incontro a processi di dealfabetizzazione che le indagini internazionali hanno impietosamente rivelato: il 38% della popolazione adulta italiana in età di lavoro, si dichiari o no analfabeta, ha gravi deficit di lettura, scrittura e calcolo, e un altro 33% è schiacciato su questa condizione. La scuola ha lavorato e lavora in salita nel portare avanti i nostri figli. Si limitasse a registrare e riprodurre le condizioni degli adulti, ai test di profitto del programma PISA ci dovrebbe restituire non il 20, ma il 70% di quindicenni con difficoltà di lettura e scrittura.

Possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo fare e sa fare, per il capitale umano e sociale che ha creato e crea. Ma i progressi non sono mai definitivi. Dobbiamo andare più avanti. Investire perché funzioni sempre meglio (ne ha certo bisogno) e affiancarle un sistema nazionale di istruzione permanente degli adulti come avviene negli altri Paesi sviluppati e come chiedono concordemente, ma per ora invano, associazioni di industriali, come TreeLLLe, grandi sindacati e qualche isolato studioso." (da Tullio De Mauro, Il Paese cresce se studiano tutti, "Corriere della Sera", 17/05/'11)

Chi ha ucciso il tema in classe, è il vero nemico della scuola

lunedì 16 maggio 2011

Lettura: uno spazio protetto, partiamo dalla scuola


"Stefano Salis, sul «Domenicale» della scorsa settimana, chiama a raccolta le buone volontà per salvare i libri e la lettura. Di che cosa dobbiamo preoccuparci, quali sono le priorità? I dati (Istat 2010) mi sembrano eloquenti e più che allarmanti: il fattore che domina di gran lunga tutti gli altri nel determinare quanti libri si leggono in un anno è il provenire da famiglie di lettori. I bambini e ragazzi che leggono libri sono soprattutto quelli che crescono in un ambiente ricco di libri, e i cui genitori (in particolare le madri) leggono.
Bisogna evitare di scoraggiare questi lettori, ma è vitale che se ne incoraggino di nuovi. Non si capisce chi possa farlo se non la scuola (ieri al Salone c'è stata iniziativa di tanti editori per difendere quella pubblica). Al tempo stesso, quando si chiamano in causa famiglia e scuola bisogna evitare la colpevolizzazione del genitore o dell'insegnante. Non bastano gli inviti accorati, o gli slogan anche simpatici («se pensi che la conoscenza sia costosa, puoi sempre provare con l'ignoranza»).
Servono piccoli e grandi incentivi, soluzioni creative. Per esempio: in alcune scuole elementari montessoriane gli scolari possono abbandonare l'attività che stanno compiendo, quale che essa sia, per mettersi a leggere. In Francia nelle scuole pubbliche i bambini possono usare la ricreazione per leggere, se lo vogliono. Come estendere questi percorsi di lettura protetta anche ai genitori?
Servirebbero biblioteche scolastiche ricche e libere, con la possibilità di portare a casa i libri e di tenerli per un certo tempo, in modo da popolare gli scaffali domestici. Aiuterebbe una piccola libreria di cartone regalata a inizio anno agli scolari per creare uno spazio di libri tutto loro a casa. Si potrebbe pensare, sul modello di quanto avviene in certe città, alla biblioteca di scambio (sono state provate anche in Italia): un chiosco per strada o in un centro commerciale dove puoi mettere i libri usati e prendere liberamente quelli che sono stati lasciati da altri lettori.
Ma forse le risposte più inquietanti alle domande di Salis sulla lettura sono nell'articolo che precede il suo di Andrea Bajani, in cui si narra di come un gruppo di giovani per svariati mesi si sia dedicato a distillare una lista di parole chiave per rappresentare l'Italia di oggi. Simpatico progetto, ma attenzione: il modello che si insegue è quello di "parole" che conterrebbero l'essenza del pensiero, della cultura? Una volta almeno c'erano gli slogan, ovvero delle frasi compiute. Sto già paventando l'arrivo di supertwitter, dove invii al massimo una parola alla volta, di otto caratteri al massimo. Funzionerà, temo, benissimo. Se non creiamo spazi protetti per la lettura, accompagnandoli con un certo rispetto per la scrittura, finiamo tutti in tweet." (da Roberto Casati, Uno spazio protetto, partiamo dalla scuola, "Il Sole 24 Ore", 14/05/'11)

Pubblicare e leggere, ecosistema in bilico


"Partiamo dai dati e arriviamo a una speranza. I dati dicono che il Salone del Libro di Torino, che si chiude domani, registrerà ancora una volta numeri record. Di espositori, superficie utilizzata, libri venduti, e, soprattutto, visitatori. Cosa suggeriscono questi dati? Che il Salone è, e resta, un appuntamento unico per i lettori; in Europa, lo ribadiamo, non ha rivali. Picchioni & Ferrero hanno fatto in questi anni un ottimo lavoro e possono andarne fieri. Gli errori? Capitano. E si rimediano. L'Oval va corretto nella disposizione (e non guasterebbe che ospitasse anche qualche editore, magari grande), la mostra sui 150 anni presenta qualche svarione. Francoforte e Londra sono principalmente fiere di compravendita di diritti, Parigi assomiglia, ma in piccolo, al Lingotto; gli altri "competitori" non contano. Colpisce, nelle folle oceaniche che riempiono ogni anno tutti gli spazi del Salone, l'interesse e la competenza dei lettori. Ogni tanto questo pubblico viene dileggiato dai giornali e persino da chi, nel settore dell'editoria, ci lavora. Strano fenomeno: sono i lettori che tengono in piedi tutta la baracca. E i lettori bisogna rispettarli. Anche perché dove c'è un'offerta di qualità – Mantova, Trento o Torino che sia – il pubblico risponde sempre bene. Forse, anzi, cerca proprio in queste occasioni un "riscatto" di civiltà che manca altrove. I lettori forti in Italia sono più forti che negli altri Paesi, ma si vanno assottigliando. E lo scenario di quello che Bruno Mari (Giunti) ha definito con efficacia, nel convegno dedicato all'e-book, l'«ecosistema» della lettura e dell'editoria sta cambiando. Economicamente e culturalmente. È siamo nel momento della massima attenzione.
Il mercato della lettura nei primi mesi del 2011 fa segnare un pallido +0,2% (Nielsen). Ma dalle Librerie Feltrinelli sono più preoccupati: calo, nel reparto «novità», in doppia cifra. Mancano i bestseller trainanti? Forse. La vendita di libri nel canale online cresce e nel 2011 ha già raggiunto è già il 5,5% del mercato. Senza contare Amazon, il player più importante ora anche in Italia. L'azienda americana rischia di scompaginare (perseguendo legittimi interessi) l'orizzonte del mercato. I centomila titoli diversi venduti in un solo mese (dicembre 2010) fanno pensare. Gli sconti praticati online – da tutti – sono un allarme. Gli stessi editori non possono più permettersi di competere a certe condizioni. Rischiano le librerie indipendenti (ma anche quelle di catena, alla lunga: il caso Borders dovrebbe insegnare).
Da Torino c'è la richiesta di una legge che regolamenti il settore. Non solo il prezzo, ma soprattutto incentivi alla lettura, sostegno forte (leggi: molti soldi per un programma serio) al Centro per il Libro, aiuti mirati alle librerie indipendenti potrebbero essere misure. La legge, di iniziativa popolare, sarà discussa a ottobre a Matera.
L'e-book, per altro, ancora non decolla. Incide poco o nulla sul mercato oggi; ma lo farà, prima o poi. Non sappiamo come, né quando. Non è nemmeno un qualcosa che interessa i "nativi digitali" (chi possiede e-reader ha oltre 40 anni, in media) e questo conferma che l'e-book non è l'argomento che esaurirà, da solo, la rivoluzione digitale dell'editoria. Lo hanno capito molti editori che si preparano a investire, anche parecchio, su una radicale trasformazione dei processi di produzione e distribuzione del libro. Sta qui la chiave del futuro del libro.
Ma è necessario coltivare lettori, formarli e appassionarli al libro, qualsiasi forma esso assumerà. Nessun catastrofismo, anzi, molta fiducia, e una speranza, come dicevamo: Torino conferma che i lettori sono il bene più prezioso di questo ecosistema. E bisogna averne di più. E bisogna seminare ora; il futuro non ci aspetterà.
P.S. Non abbiamo parlato di incontri, scrittori, letture e polemiche torinesi. È filato tutto liscio, come al solito. L'unico motivo per cui tutti erano qui a parlare, è perché c'era qualcuno a sentirli. Ecco: sono i lettori a dare un senso a tutto questo. Nostro giornale compreso. Non dimentichiamocelo." (da Stefano Salis, Pubblicare e leggere, ecosistema in bilico, "Il Sole 24 Ore", 15/05/'11)

sabato 14 maggio 2011

Un futuro sulla carta



Le biblioteche rischiano l'oblio per la dilatazione del lavoro che cancella il tempo libero. Hanno però tutte le carte in regole per tornare ad essere vitali luoghi di lettura e socialità

"Per parlare del futuro delle biblioteche dobbiamo partire da domande apparentemente lontane dal nostro tema, come per esempio: «Perché esistono i pub a Londra, le osterie a Venezia e i caffè sul porto di Marsiglia?», «Perché andiamo ad ascoltare un gruppetto di strimpellatori nella sala comunale quando potremmo ascoltare Bach sul divano di casa nostra?». E ancora: «Perché Netflix oggi negli Usa è più conosciuto della Library of Congress ma non sufficiente?»
Tutte queste domande sono legate tra loro e riconducono a una riflessione sul motivo per cui esistono dei luoghi che non sono né casa né lavoro eppure sono popolarissimi? Perché «perdiamo tempo» a chiacchierare al mercato, in osteria, al pub, nel caffè greco dove si gioca a Backgammon? Se lo era chiesto negli anni Ottanta Ray Oldeburg scrivendo il suo libro sui Third Places, che dovrebbe essere oggi considerato un classico della sociologia. I «terzi luoghi» (né casa né lavoro) sono importanti perché fanno di noi degli esseri umani, cioè parte di una tribù.
Il lavoro è una corvée, la casa è il regno della famiglia nucleare mentre il bar, il pub, il caffè sono i luoghi dove troviamo gli amici, i vicini di casa, tutti coloro che non sono parenti ma a cui siamo legati da vincoli ben più profondi di quelli che ci uniscono ai cugini che incontriamo due volte l'anno. La nostra tribù.

Nel mondo delle tribù
Scimpanzè e homo sapiens condividono la caratteristica di aggregarsi in unità più grandi della famiglia ma molto più piccole della città o della nazione: tribù di alcune decine o centinaia di persone che condividono residenza, modi di comportamento, rituali, solidarietà. Le tribù sono indistruttibili (anche se capitalismo e burocrazia fanno del loro meglio per sopprimerle) perché non possiamo vivere isolati, nemmeno con mariti e figli al fianco: abbiamo bisogno della vicina del piano di sopra, della compagna di scuola che non ha cambiato città, del compagno di lavoro che ha sempre una battuta pronta, della signora che fa le tagliatelle come nessun'altra. Non siamo fatti per stare da soli (o con i rispettivi partner), per questo i matrimoni sono delle feste e i bambini fanno allegria.
Le tribù sono entità territoriali, anche nell'era di Facebook. Non siamo «veramente» membri di una tribù che condivide attraverso internet la passione per Audrey Hepburn, per i vini argentini o per i modellini di aerei della seconda guerra mondiale: questi hobby possono essere divertenti ma non creano solidarietà forti, impegni reciproci. I vincoli che ci fanno sentire più sicuri di noi stessi, più rilassati, più forti, si creano in piazza, in strada, al caffè. Possiamo sentirci «veramente» vicini solo a chi c'era ieri e ci sarà domani, alle persone di cui notiamo l'assenza quando non compaiono alla solita ora. Non ci sono tribù cosmopolite e il networking di cui si vantano i manager di successo è un patetico tentativo di sostituire il gruppo da parte chi viaggia troppo per trovare veri amici.
Le tribù hanno i loro rituali e tra questi rientrano attività come guardare collettivamente un film o una partita di calcio, cantare insieme, fare una gita a Brisighella, scambiarsi ricette di cucina, andare ad ascoltare gli amici che cantano nel coro della chiesa, partecipare a un gruppo di lettura. La settimana scorsa, a Flagstaff in Arizona, mi sono ritrovata in un pub affollato ad ascoltare una band che improvvisava una jam session con più entusiasmo che talento. Perché stare lì, quando tutti i presenti avrebbero potuto ascoltare Miles Davis o Wynton Marsalis a casa loro (o sul loro iPod) con una qualità ben migliore di quella delle gracchianti casse che il gruppetto aveva a disposizione?
La risposta è che ciò che contava non era la qualità della musica ma la qualità dello stare insieme, il piacere di ritrovarsi attorno a una passione comune, con gli amici che salgono sul palco per una canzone, o per un assolo di chitarra, poi scendono perché è il turno di qualcun altro, poi bevono una birra discutendo di un concerto che hanno sentito vent'anni fa, o di un nuovo musicista che si esibirà la settimana prossima. Era questa la ricchezza della serata, il collante che teneva insieme persone diversissime tra loro.
Quello di Flagstaff era un pub, ma avrebbe potuto benissimo essere una biblioteca: il successo delle public libraries americane non nasce dalla qualità delle collezioni o dall'opulenza degli edifici, ma dalla loro capacità di presentarsi come luoghi neutrali ed accoglienti dove microtribù si possono aggregare.
Si possono, naturalmente: le tribù non si formano a comando e nessuno può prevedere se e come i pensionati di Phoenix o i teenager di Seattle approfitteranno delle ricche (e costose) biblioteche che le città hanno messo a loro disposizione. Forse una modesta biblioteca di quartiere a Pittsburgh, o nel Bronx, avrà più successo perché un bibliotecario più intraprendente e tenace è riuscito a tessere legami con le casalinghe, gli scacchisti o gli alcoolisti anonimi della zona.
A questo punto, una buona domanda sarebbe: «Scusate, ma perché dovremmo creare delle biblioteche quando la gente è contentissima di ritrovarsi in piazza, al bar, dal barbiere? Se è la spontaneità a decidere delle aggregazioni, la biblioteca che c'entra?»

I luoghi aperti della socialità
La prima risposta è che negli ultimi 25 anni la pressione del lavoro sul tempo libero è fortemente aumentata: abbiamo sempre meno tempo per fare qualsiasi cosa e, a questo, si sono aggiunte le riduzioni nei servizi sociali: se l'autobus passa ogni mezz'ora, quella è una mezz'ora che non posso usare per la mia vita personale o per stare con gli amici. Se devo occuparmi dei genitori anziani, o dei figli piccoli che non trovano posto in asilo, questi impegni comprimono la mia giornata. Una biblioteca a portata di mano (come gli Idea Store di Londra, collocati dentro o a prossimità dei centri commerciali) facilita la vita, soprattutto se ha lunghi orari di apertura.
La seconda risposta è che la biblioteca (o, almeno, la biblioteca che ho in mente io) è più attrezzata per svolgere vari ruoli socialmente utili di quanto non lo sia il caffè. La biblioteca è gratuita, e accetta chi non può, o non vuole, consumare. La biblioteca è della collettività e non respinge nessuno. La biblioteca garantisce la possibilità di entrare in contatto con il mondo esterno anche a chi non possiede un computer portatile per usufruire della rete wireless di Starbucks. Reti che in Italia sono in ogni caso rarissime, mentre negli Usa, paese del Patriot Act e ossessionato dai controlli, si trovano connessioni wi-fi ovunque e non è richiesta nessuna password per accedervi.
La biblioteca offre un accesso gratuito a consumi culturali («alti» o «bassi» che siano) anche a chi non ha i mezzi per andare in libreria, o per scaricare un nuovo album di Vasco Rossi da iTunes o semplicemente per comprarsi un computer e collegarsi a Internet. Chi abita in casette mobili (usatissime dai vecchietti nel caldo Sud) spesso non si può permettere un collegamento alla rete e, nella nuova bella biblioteca di Prescott Valley, era appunto pieno di vecchietti che usavano Internet.
Soprattutto la biblioteca è un luogo dove, con un po' di aiuto, si può capire meglio cosa sta facendo il governo, perché la benzina è aumentata, cosa sta succedendo in Afghanistan o come affrontare la crisi economica. Un tempo, la domenica mattina, le belle piazze italiane avrebbero parzialmente svolto questo ruolo, oggi ci incontriamo solo i turisti, e qualche badante che non sa dove andare. Questo compito è vitale per la democrazia, anche se i cittadini fossero indifferenti e disgustati dalla politica, come spesso sono.
In altre parole, le biblioteche del XXI secolo hanno come missione quella di creare delle tribù attive, dei gruppi di cittadini che godono della compagnia reciproca, che magari non vanno più in là dello scambiarsi ricette di cucina, ma che nello stesso tempo diventano più curiosi, più consapevoli, più informati. E anche più umani. Che i nostri iPad ci mettano a disposizione tutto ciò che il genio umano ha prodotto da Leonardo in poi non è sufficiente: Italia-Germania 4 a 3 si guarda solo in compagnia.

Un problema di scelta
In compagnia, anche se ci sono da tempo gli iPod e ora anche Netflix, che sta per sbarcare in Italia. Netflix non è un'invenzione come la bomba atomica o la penicillina, è piuttosto un modo intelligente per fare un lavoro assai banale come quello di affittare film. L'azienda statunitense che ha base a Los Gatos, in California, ha oltre 20 milioni di abbonati, si fa pagare 8,99 dollari al mese (6 euro al cambio attuale) per mettere a disposizione un numero indefinito di film. Un nipote tecnologicamente avanzato di Blockbuster, dove si andava fino a qualche tempo fa per affittare un dvd. Niente di rivoluzionario.
Ciò che ci interessa di Netflix è il fatto che offre una scelta di film così vasta da far impallidire qualunque cineteca e qualunque museo del cinema, a un costo che chiunque può permettersi. Non solo: grazie alle efficienti poste americane il dvd ordinato arriva entro 48 ore (la spedizione non costa nulla), mentre gli impazienti possono guardare il film in streaming sul proprio televisore o sul proprio smart-phone, senza particolari difficoltà. Netflix è talmente efficiente da aver fatto dimenticare nel giro di due anni i celebri siti peer-to-peer dove faticosamente ci si poteva scaricare Via col vento stando collegati una settimana.
Di nuovo, la domanda è: «Se esiste Netflix, perché abbiamo bisogno di una biblioteca, dove occorre avere la tessera, andare a cercare il film (magari ancora su una cassetta VHS), fare la fila al bancone del prestito, e restituire il dvd entro una settimana?». La domanda è più che legittima e la mia risposta è che le biblioteche pubbliche (ovviamente non quelle di conservazione) dovrebbero effettivamente sparire se non sono in grado di competere con Netflix.

Momenti di condivisione
Ma se avessimo una biblioteca più utile di Netflix?
Una biblioteca è un luogo dove i film possono essere contestualizzati e studiati, perché per esempio esiste una sezione di libri sul cinema, o perché il bibliotecario sa come aiutarvi a cercare. Netflix può rendere più amichevole la selezione dei propri titoli ma non può spiegare a nessuno come sono nati gli «Spaghetti-Western» di Sergio Leone, né come recitare in quei film sia stato un'esperienza fondamentale nella carriera di Clint Eastwood come attore e come regista. La biblioteca (o almeno, un certo tipo di biblioteca) può far scoprire al più indifferente dei teenager che non esistono solo Harry Potter e Guerre stellari ma anche Blade Runner, Fronte del porto e La corazzata Potemkin.
In realtà, Netflix, il caffè sul porto e la biblioteca non sono in concorrenza fra loro: sono piuttosto luoghi tutti necessari per garantire una certa qualità della vita. Luoghi dove lo stare insieme diventa occasione di scambio, di arricchimento, di riflessione. Situazioni dove si può discutere dei bei ragazzi e del matrimonio di Harry e Kate ma anche della morte di Osama bin Laden e dell'elezione del sindaco. In fondo, se a Milano qualcuno organizzasse una serie di proiezioni di Mani sulla città di Francesco Rosi prima di andare a votare sarebbe un vantaggio, no?" (da Antonella Agnoli, Un futuro sulla carta, "Il Manifesto", 13/05/'11)

BEIC, l'ora della scelta


"In questi giorni il Progetto architettonico esecutivo della Biblioteca Europea di Milano (Beic) ha ottenuto la validazione prevista dalla legge. Il Politecnico di Milano ne ha verificato ogni aspetto tecnico. Analogo parere positivo era stato già espresso dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. Dopo anni di lavoro, il progetto è finalmente pronto, «cantierabile», nell'area dello Scalo Porta Vittoria, concessa dal Comune proprio per la Beic. I fondi stanziati dal Parlamento negli anni 2000-2005 per il Progetto architettonico e per la costituzione del primo nucleo del patrimonio librario e digitale sono stati utilmente impiegati e impegnati. La Beic digitale è in fase avanzata di realizzazione e andrà in rete entro il 2011. Neppure un euro è stato sottratto alle biblioteche esistenti, perché i fondi sono stati stanziati su capitoli che altrimenti sarebbero andati ad altre opere pubbliche.
Ma per la costruzione dell'edificio lo stanziamento ad oggi ancora non c'è. Eppure i ministri dei Beni culturali e delle Infrastrutture hanno ripetutamente dichiarato che la Beic sarebbe stata inclusa tra le Grandi opere, così da attingere al Fondo apposito destinato agli investimenti. In effetti la Beic costituisce una infrastruttura di rilievo nazionale, perché colma una lacuna importante del servizio bibliotecario italiano. La Beic è concepita per assolvere a un compito che gli altri Paesi avanzati stanno realizzando. Vogliamo creare una grande biblioteca multimediale con tutte le maggiori opere della cultura umanistica, artistica e scientifica europea e mondiale, con libero accesso ai volumi a scaffale aperto e alle collezioni digitali, con una serie di servizi - audiovisivi, laboratori, auditorium - per ogni età e condizione. Sarà uno strumento fondamentale per incentivare l'insostituibile valore formativo che nasce dalla riflessione sulla pagina scritta. Un'utenza valutata ad almeno tremila presenze al giorno, tutti i giorni dell'anno. Una struttura complementare rispetto alle grandi biblioteche storiche e universitarie di cui Milano dispone, innestata nel territorio e ben coordinata con le altre strutture bibliotecarie italiane ed europee. Per ragioni che non sono state chiarite, il Progetto Beic non è stato inserito nel complesso delle opere previste per l'Expo 2015. Il che è francamente incomprensibile, se si considera che esso costituirebbe un forte elemento di attrazione. E l'opera rimarrebbe poi sul territorio, fornendo il suo inestimabile servizio per decenni. Tra l'altro, la costruzione della Beic è stata sollecitata da migliaia di firme di cittadini milanesi. E riqualifica un intero quartiere della città. Il momento della scelta è venuto. Il Sindaco di Milano e la Regione Lombardia si decidano ad esigere dal Governo il rispetto degli impegni ripetutamente annunciati. Se la risposta fosse negativa, certo resterà in piedi l'importante e innovativa Biblioteca digitale Beic, insieme con il Fondo Pontiggia e con l'Archivio fotografico Paolo Monti, che la Fondazione Beic ha assicurati alla città. Ma il Progetto complessivo della grande Biblioteca finirà in archivio: oggetto di studio e di rimpianto. Rinunciare alla Biblioteca europea, quando tutto è pronto per realizzarla dopo anni di lavoro, quando sono state impiegate per il Progetto le risorse messe a disposizione dal Parlamento, quando il Comune ha destinato l'area, sarebbe un grave errore. Sarebbe una scelta davvero miope: non solo per Milano e la Lombardia, ma per il nostro Paese." (da Antonio Padoa Schioppa, BEIC, l'ora della scelta, "Corriere della sera", 14/05/'11)

Fabio Fazio: Come ti mando i libri in cima alle classifiche


"«Passo il tempo libero con i libri» mi dice Fabio Fazio. Bene. «Non a leggere, ma a spostarli e ordinarli».
Si vede, che fai molto sport. «Il libro lo lego all’ordine, di cui sento sempre la mancanza. È scritto: dunque è già avvenuto, pensato, armonico, compiuto, lì dentro c’è tutto quello che serve».
Qualora venga letto. «Non appena avrò il tempo. Non c’è giorno che io non compri un libro. Così costruisco fisicamente e ipoteticamente il mio futuro».
I libri separati dalla vita. «È la lacuna culturale che tento di colmare, il mio senso di colpa permanente. Deriva dall’idea che la cultura sia cultura scritta: idea ottocentesca ma tenace, se negli Anni Settanta la sinistra italiana demonizzava la tivù a colori, e se ancora oggi la politica reagisce più alle dichiarazioni rilasciate a un giornale, e lette da pochissimi, che a uno show televisivo. Ma la mia generazione, dei nati negli Anni ‘60, è la prima ad avere già sostituito la storia scritta con la storia narrata da una voce: prima dai dischi delle favole, poi dalla televisione. Ho letto I fratelli Karamazov dopo avere visto lo sceneggiato».
Però allora scuola e lettura erano ancora percepite come strumento di promozione sociale. «Per fortuna».
Per te che appartieni alla primagenerazione televisiva, quando è avvenuta la
scoperta della parola scritta, cioè la saldatura fra libri e vita? «Molto tardi e a fatica, per colpa della scuola "nozionistica", che pure ha tanti meriti. Le antologie distinguevano, di qua la biografia, di là le opere. Poi invece capisci che la scrittura è trascrizione della vita, o che la vita avviene in funzione della scrittura: che, cioè, l’espressione è il massimo di onestà, sofferenza, svisceramento per guarire la propria esistenza. E che ciò avviene soltanto nel tempo, avendo il tempo della meditazione. Questo, il conforto dell’ordine intrinseco, è quanto mi affascina di più in assoluto. L’arte non è istantanea».
A differenza della tv. «Che è per sua natura il mezzo dell’evanescenza, l’attimo migliore è quello che svanisce. Perquesto l’abbinamento televisione più scuola sarebbe il più formativo per la massa: generalista, evanescente e pervasiva la television , puntuale, individuale e prolungata nel tempo la scuola».
Invece la tv ha vinto. «Permane l’idea che le espressioni culturali siano un bene accessorio. Al contrario, non c’è nulla di più utile e divertente che imparare. Noi siamo quello che abbiamo imparato».
Ribaltando: se non sai, non sei. Mentre al «popolo» viene fatto credere l’esatto
contrario. Dunque, a differenza di quanto dicono, con la cultura si mangia? «Se sai le lingue straniere, al ristorante capisci il menu».
Anche per te imparare è utile e divertente? Lo è ancora? «Sì, anche se per carattere non sonomolto incline al divertimento. Ma ricordo la meraviglia quando assistetti a una lezione di Edoardo Sanguineti su Malebolge. Due ore sulla prima terzina: che cosa si può scoprire, nelle parole! Così tanto, che poi quell’esame non lo diedi, era troppo per me».
E la tv, 'Che tempo che fa' soprattutto, come ha cambiato il tuo rapporto con i libri? «Innanzitutto cancellando un mio pregiudizio. Pensavo che un libro, per avere dignità, dovesse essere stato scritto da qualcuno di mortissimo. Solo la scrematura del tempo, eccetera».
Scusa ma è un’idea ottocentesca, invece che nel 1964 sembri nato verso il 1850.
«A metà strada fra l’Illuminismo e Gozzano, sì. La provincia è provincia».
Chissà che sbalzo sarà stato, ritrovarsi in televisione. «Come il sasso che spacca la finestra del salotto borghese in un dramma di Giuseppe Giacosa. Come essere rapito dagli alieni. Ho 46 anni e ne ho fatti 28 di Rai: sono un anacronismo. In più, quando ho cominciato c’erano ancora quelli che avevano fatto la Rai negli Anni Sessanta, da loro ho imparato. Dunque è come se, a 46 anni, ne avessi fatti 48 di Rai».
Sei antichissimo. Ma la Rai è ancora in mano agli alieni? «Sono stati sostituiti da turisti su Marte, che neppure sanno dove sono. Però fanno le lottizzazioni,
costruiscono seconde case, villette a schiera».
Deliziosa, l’ambiguità della parola lottizzazione. Comunque: 'Che tempo che fa', di fatto un programma di libri in prima serata, è un’anomalia. «Per fortuna chi lavora in tv non ha tempo per guardarla».
Sta per concludersi l’ottava edizione del tuo talk show. Quando è cominciato, avevi idea che sarebbe diventato il programma che è oggi? «Sapevo solo che, a quasi quarant’anni, volevo fare qualcosa che non avevo ancora fatto».
E avevi fatto praticamente tutto. La gavetta nella tivù dei ragazzi, Quelli che il calcio ovverola popolarità, 'Anima mia' ovvero il cult, Sanremo ... Tutto, tranne che conversare con gli scrittori, cioè saldare quella famosa spaccatura fra libri e vita. «È un privilegio conoscere le persone fisiche, i libri iniziano a parlare: capisci quanta sofferenza e quanta verità c’è in quelle parole, anche inventate».
Un’illuminazione. «Anche un lusso. Ora che lo conosco, quando leggo Tabucchi sento la sua voce».
Quanti libri leggi, preparandoti per la trasmissione? «Quattro o cinque a settimana, alcuni per intero, altri in parte».
Parli sempre di libri appena usciti, in promozione? «È difficile che un autore abbia voglia e tempo di venire, altrimenti. Ma quasi mai parliamo di un libro, del suo contenuto: semmai con un libro, cioè delle sue motivazioni».
E parli sempre con autori famosi? «Portare ascolti alla mia azienda è l’unica garanzia di libertà. Eppure, orgogliosamente abbiamo ospitato autori non popolari: Roberta De Monticelli, Vito Mancuso, Stéphane Hessel, Enaiatollah Akbari ... E comunque,quale scrittore è "popolare" intermini televisivi?».
Oggi sei il kingmaker, l’unico che se parla di un libro lo scaraventa in classifica. Senti la responsabilità delle scelte? «Molto, ma voglio anche evitare l’autocompiacimento. Per non approfittare del ruolo, non scrivo libri anche se ne avrei voglia, e ho sospeso ogni collaborazione».
Niente conflitto di interessi. «La moralità è aiutata dalla pigrizia».
Quali sono gli incontri che ti hanno segnato di più, fra i tanti fatti grazie alla trasmissione? «Ero curiosissimo di conoscere Ceronetti, di Roberto Calasso pensavo fosse un’entità astratta e invece ci ho parlato, ho un’adorazione per Fruttero, con Rigoni Stern ci siamo salutati con un abbraccio, come se lui fosse appena tornato dalla Russia e come se io avessi capito. E poi Meneghello, Camilleri ... Ma forse riassumerei con un’immagine: Paul Auster, David Grossman e Roberto Saviano insieme, per uno "speciale". Adesso Roberto è uno dei miei migliori amici. Paul Auster mi ha consigliato una brasserie di Parigi: conservo come una reliquia quel suo bigliettino, e ogni volta che ci vado penso, con civetteria, che è merito della televisione. Con Grossman c’è un legame speciale. Per un patto non detto ma ovvio non abbiamo parlato dell’indicibile, ma la sofferenza era così
evidente che abbiamo finito l’intervista con le lacrime agli occhi. Poi mi ha detto: "ci eravamo dimenticati di essere in televisione". È il complimento supremo».
Ti spiace se torniamo all’immagine di te che sposti ossessivamente i tuoi libri? «Mi sono a lungo ostinato a non credere di abitare a Milano, benché ci abitassi, e quindi tenevo tutto in Liguria. E non leggevo niente. Poi ho deciso: a Celle i romanzi, lettura estiva, qui il resto. Ma quello che mi serviva era sempre altrove, quindi ricompravo, ho almeno 500 doppioni. Ora qui ho i fondamentali (cioè Shakespeare, i lirici greci, Pirandello: come da formazione scolastica), più i libri d’arte, tantissimi, più i Meridiani. Però mi è successa una cosa orribile: Einaudi ha cambiato formato agli Struzzi, e il mio ordinamento per editore è andato a pallino».
Nevrosi, ma innocua. «La peggior nevrosi è questa: trascrivo i titoli dei miei libri a mano in una vecchia agenda, così so dove sono».
Da bambino leggevi? E tuo figlio legge? «Io ho avuto il privilegio di estati
lunghe e vuote, dove andavamo non prendeva il segnale tivù. Leggevo tantissimo, di tutto, dai classici ai fumetti. Chiunque oggi abbia figli sa che è disonesto dire loro che leggere è meglio che navigare: se esce Il gobbo di Notre Dame, fra libro e film la scelta è ardua. Mio figlio ha l’immensa fortuna di frequentare a Milano una scuola straordinaria, che si chiama Nuova Educazione, dove danno valore al tempo, e viceversa. Questo mi fa ben sperare»." (da Giovanna Zucconi, Come ti mando i libri in cima alle classifiche, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/05/'11)

mercoledì 11 maggio 2011

L'Italia che legge


"L'Italia che legge, ma anche l'Italia che non legge. L'orgogliosa fotografia di famiglia e lo sconsolato journal di un Paese che rischia di perdersi. Da una parte la mostra trionfale (e discussa) dei centocinquanta capolavori che hanno fatto la penisola, dall'altra la mesta rappresentazione di un'Italia allergica alla lettura, condannata all'analfabetismo (di andata e di ritorno), profondamente diseguale nella composizione sociale e nella distribuzione geografica, che soltanto un deciso cambio di rotta può salvare dal naufragio. Tra autoritratto celebrativo e cronaca di un'attualità poco sorridente si apre il Salone internazionale del libro di Torino, appuntamento unico nel suo genere per il profilo multiplo e 'quadripartito' - come dice il suo anfitrione Ernesto Ferrero alludendo alla mostra mercato e all'evento culturale, alla rassegna per i ragazzi e allo spazio più specificamente professionale con centinaia di agenti ed editori da tutto il mondo. Un palinsesto che inevitabilmente mescola alto e basso, colto e popolare, riflessione intellettuale e successo mercantile, ma che oggi più che mai raccoglie la domanda di un'Italia smarrita, anche umiliata, a cui non basta rispecchiarsi nei capolavori del passato per consolarsi del presente, ma va alla ricerca di bussole e stelle polari per affrontare i marosi entro e fuori confine.
Inevitabile che, nell'anno del giubileo patriottico e nella città che più ne porta il segno, la fiera indossi i panni tricolori. Lo fa con una mostra che seleziona i centocinquanta libri d'Italia ritenuti significativi per il costume e il pensiero, una lista di editori distribuiti tra la mostra istituzionale e i 'fenomeni editoriali' (tra i 'fenomeni' anche Il Mulino e Garzanti, poco entusiasti della curiosa collocazione 'fenomenale') e quindici 'totem', ossia le icone irirnunciabili, un elenco di superlibri, che comincia con Le confessioni di Nievo e si chiude con Gomorra. Un canone discutibile (e che sarà infatti discusso all'interno del Salone). [...]
Ma allora perché l'italianità è declinata con infelicità, smarrimento, indignazione? A spiegarcelo, in un altro angolo del Salone, è il Forum del libro, un'associazione che raccoglie librai e bibliotecari, editori e insegnanti, e tutti quei 'pazzi malinconici' che si affannano con i tubicini dell'ossigeno intorno al capezzale della lettura. E' Giovanni Solimine a ricordarci che il nostro mercato editoriale è un colosso dai piedi di argilla, la cui base è fondata su pochi editori e pochissimi lettori. E che il 70% degli italiani non riesce a comprendere fino in fondo il significato di un semplice testo. Da qui l'idea di una legge di inziiativa popolare, frutto di un'elaborazione collettiva, che coinvolga le amministrazioni locali e centrali, le città e le scuole, i grandi media nazionali e le biblioteche civiche, per la definizione di un pluriennale piano di promozione della lettura. Riusciremo a liberarci della palma europea di non leggenti (primato condiviso con pochi altri)?
La politica nel significato di polis continua a essere la cifra della Fiera, oggi ancora più prevalente di prima. 'La politica nel senso di buona politica', dice Ernesto Ferrero, fedele al dna einaudiano delle origini anche in questo suo tredicesimo Salone. La saggistica civile appare il genere più rappresentato, e anche la letteratura - da Cercas a Xiaolong, da Sepulveda a Tabucchi - plasma sull'evo contemporaneo gli impervi sentieri della letterarietà. 'La domanda che più frequentemente ricorre è: ma noi cosa possiamo fare?', riferisce Ferrero. [...]" (da Simonetta Fiori, L'Italia che legge. Dalla politica all'economia, ecco il Salone dei saggi, "La Repubblica", 11/05/'11)