sabato 30 aprile 2011

La finzione vi condurrà all'azione


"Contrariamente a quanto si crede, i commenti e gli studi che I Miserabili meritarono al loro apparire non furono tutti entusiastici; ci furono molte critiche avverse e alcune come quella di Barbey D'Aurevilly, feroci. La più interessante di queste critiche, per i temi che tocca e perché, partendo dal romanzo di Victor Hugo, si lancia in considerazioni audaci sulla finzione in generale, è quella di Alphonse de Lamartine, un lungo studio che, forse senza volere, affronta in modo diretto la ragion d'essere della finzione nella storia dell'umanità.
All'inizio del suo saggio, le obiezioni di Lamartine al romanzo sono quelle di un conservatore che vede ne I Miserabili un testo capace di incoraggiare il disordine e la rivolta sociale, e quelle di un sostenitore del realismo letterario irritato dalle esagerazioni e inesattezze del libro rispetto alla realtà che ha la pretesa di ricreare. Il romanzo, secondo Lamartine, è un'utopia venuta a prolungare la tradizione de La Repubblica di Platone, del Contratto Sociale di Rousseau e di tutti i socialisti, da Saint-Simon fino a Fourier, a Proudhon e ... ai mormoni!
Tra evocazioni autobiografiche, Lamartine ricorda che, durante la Rivoluzione del 1848, Victor Hugo aveva pubblicato un manifesto "conservatore" che gli era sembrato molto sensato. Attacca "demagoghi e utopisti" e afferma che I Miserabili portano a termine «una critica eccessiva, radicale e a volte ingiusta della società, cosa che può indurre l'essere umano a odiare ciò che lo salva, l'ordine sociale, e a delirare per quello che è la sua perdizione: il sogno asociale dell'ideale indefinito». La indefinitezza ideologica gli sembra l'aspetto più negativo dell'utopismo del romanzo.
Il titolo, assicura, è falso, perché i suoi personaggi non sono miserabili, bensì colpevoli e pigri. Nel romanzo quasi nessuno è innocente, poiché nessuno lavora. Si tratta di una società di ladri, dissoluti, fannulloni, donne di vita e vagabondi. Neppure quando agiscono, i personaggi hanno chiare le motivazioni che ispirano la loro condotta. Per esempio, se si domandasse a Marius perché sta sulla barricata, non saprebbe che cosa rispondere: «Par ennui», forse (per noia) ma non «per opinione».
Il romanzo è una «epopea della marmaglia», «un'opera maestra della impossibilità». A partire da qui, le critiche di Lamartine, senza smettere di essere politiche e letterarie, continuano a estendersi a piani religiosi e filosofici, e, superando il tema esclusivo del romanzo di Victor Hugo, entrano nel cuore delle relazioni tra la finzione e la storia, e del modo in cui la prima ha influenza sulla vita e sulla società. I Miserabili farà molto danno al popolo «ispirandogli il disgusto di essere popolo, cioè uomo e non Dio». (...)
In sintesi, per Lamartine I Miserabili è una storia drammatica, esagerata, truculenta, piena di "chimere" sociali e politiche, un romanzo che non sopravvivrebbe se non fosse per l'enorme talento verbale e la forza lirica di Hugo, capaci di dare un aspetto verosimile a quelle "irrealtà". Da queste premesse, Lamartine conclude che questo romanzo è «pericoloso» per il popolo per il suo «eccesso di ideale». Lamartine, nel suo corposo saggio, crede di lanciare i suoi dardi contro un bersaglio preciso: quella prodigiosa costruzione romanzesca che, grazie all'eccellente talento del suo autore, è capace di far credere ai lettori che un essere umano può raggiungere la smisurata altezza morale e la capacità di sacrificio di un Jean Valjean o la bontà serafica di un monsignor Bienvenu, quelle "irrealtà" romantiche.
Ma in realtà il suo argomento vale per ogni finzione riuscita, anche per quella che, senza il volo e l'apertura alare de I Miserabili, in quanto di orizzonte minore, è capace, grazie al proprio potere di persuasione, di trasportare il lettore in un mondo più coerente, più bello, più perfetto, o semplicemente meno noioso e penoso di quello in cui vive. Quell'operazione, secondo Lamartine, può convertire l'affascinato lettore di finzioni – una volta che la lettura finisce, l'incantesimo si rompe e comprova che la realtà abitata non sarà mai all'altezza di quella sognata – in uno "squilibrato", in un ribelle furioso, in un nemico dell'ordine stabilito.
Benché sia difficile dar ragione a Lamartine in molti dei suoi giudizi su I Miserabili, perché è evidente che molti di quei giudizi sono ingiusti o esagerati, è anche necessario segnalare che nel suo studio del romanzo di Victor Hugo c'è un'intuizione molto precisa della natura della finzione letteraria e del modo in cui si ripercuote sulla vita dei lettori e, pertanto, nell'avanzamento della società. Egli concentra i suoi rimproveri su I Miserabili, nei quali avverte un pericolo che non vede in altre opere per la semplice ragione che queste non hanno la smisurata ambizione con cui è stata scritta l'opera di Victor Hugo, un romanzo che per le sue dimensioni sembra competere con la realtà da pari a pari, opponendo alla vita una finzione "totale".
Certo è che, anche se in scala minore, tutte le finzioni fanno vivere ai lettori "l'impossibile", tirandoli fuori dal loro io individuale, rompendo i confini della loro condizione, e facendo loro condividere, immedesimati con i personaggi dell'illusione, una vita più ricca, più intensa, o più abietta e violenta, o semplicemente differente da quella nella quale sono confinati, in questo carcere di massima sicurezza che è la vita reale.
Le finzioni esistono per questo e grazie a questo. Perché abbiamo una sola vita e i nostri desideri e fantasie esigono di averne mille. Perché l'abisso tra quello che siamo e quello che vorremmo essere doveva essere riempito in qualche modo. Per quello sono nate le finzioni: affinché, in quel modo surrogato, temporaneo, precario e contemporaneamente appassionato e affascinante, come è la vita nella quale ci trasportano, incorporiamo l'impossibile al possibile, e affinché la nostra esistenza sia contemporaneamente realtà e irrealtà, storia e favola, vita concreta e avventura meravigliosa." (da Mario Vargas Llosa, La finzione vi condurrà all'azione, "Il Sole 24 Ore Domenica", 01/05/'11)

venerdì 29 aprile 2011

Dizionario dei luoghi fantastici


"Non esistono più luoghi sconosciuti. Nessuna foresta da esplorare alla ricerca di civiltà scomparse, nessun mare da solcare sperando di imbattersi in isole misteriose, nessun deserto che non sia stato scandagliato dai radar e dai satelliti.
Grazie a Google Earth abbiamo (quasi) ogni luogo della Terra a portata di mouse. Ma per i viaggiatori impenitenti esiste ancora uno sfogo: esistono i luoghi irreali, utopici, immaginari.
Ed esiste una guida che li enumera, li descrive e spiega come raggiungerli. Come scrive Alberto Manguel, autore del Dizionario dei luoghi fantastici insieme a Gianni Guadalupi, nell’introduzione a questa terza edizione (la prima è del 1980) «non ci vuole molto per scoprire che la geografia dell’immaginazione è infinitamente più vasta di quella del mondo fisico».
Alberto Manguel aveva sedici anni e lavorava in una libreria di Buenos Aires quando conobbe un cliente, quasi cieco, che gli chiese se fosse disposto ad andare da lui, la sera, a leggere ad alta voce. Il cliente era Jorge Luis Borges.
Manguel divenne il suo lettore privato. Anni dopo, giunto a Milano per lavoro, si trovò a collaborare con un editore con la passione per i viaggi, passione tale da portarlo a collezionare, nel corso della vita, oltre 13.000 volumi, ora affidati alla Fondazione Marilena Ferrari nella «Biblioteca del viaggio Gianni Guadalupi».
A dare il via al dizionario fu La ville vampire di Paul Féval.
Guadalupi, letto il romanzo, chiese all'amico Manguel di scrivere con lui una specie di guida turistica, trattando la Città Vampira non come luogo immaginario, mareale: dove si poteva alloggiare per la notte, dove consumare un buon pasto, cosa visitare. Senza dubbio si divertirono un mondo.
Tanto che, terminata questa prima voce, i due decisero di allargare l'indagine agli altri luoghi fantastici. Un primo elenco - giusto quelli che conoscevano a memoria - ne contava centinaia.
Alla fine, alcune migliaia. Per scelta accantonarono quelli non presenti sul pianeta Terra, i mondi paralleli, e anche i luoghi del futuro. Ma da Narnia a Lilliput, dalla tolkeniana Minas Tirith alle borgesiane Rovine Circolari (dove si può sognare un uomo fino a dargli vita), dal Regno delle scimmie di Burroughs alla geometrica Flatlandia di Abbot (dove gli oggetti animati e inanimati appaiono come linee rette, dove le abitazioni sono a forma di pentagono e quelle quadrate e triangolari sono vietate per ragioni di sicurezza), nulla manca al minuzioso elenco dei posti nei quali, oggi più che mai, continua ad avere senso perdersi. Boschi e pianure, città e specchi d'acqua, regni e isole che ci promettono nuovi occhi, ci restituiscono bellezza, si fanno incubatori del nostro immaginario.
Il Dizionario dei luoghi fantastici è un manuale prezioso, corredato di cartine dettagliate - da quella di Arkham, nata dalla fantasia di Lovecraft, a quella del Paese che non c'è, rifugio di Peter Pan e dei suoi ragazzi perduti - e immaginifiche illustrazioni - conoscete forse le mostruose forme dell’idolo Manduca adorato nell’isola di Gaster? O le decorazioni della carrozza di Geova nel corso dell’ultima visita nel Regno di Noè?
Concludiamo con una sfida. Come ricompensa per il loro duro lavoro, Manguel e Guadalupi decisero di concedersi l'invenzione di un luogo a testa, completo di autore e bibliografia apocrifa. Due luoghi fantastici, così fantastici da non esistere neppure nei libri citati. Un plauso e una confezione di erba pipa a chi riesce a trovarli." (da Filippo Geda, Nel paese che non c'è, infinita è la meraviglia, "TuttoLibri", "La Stampa", 23/04/'11)

Una letteratura da ridere


"Quando si tratta di cultura di massa la gente ride sin troppo facilmente, mentre quando si tratta di letteratura non ride abbastanza. Dicendo "troppo facilmente" intendo in maniera meccanica e con un' eccessiva sollecitudine. Prendete il pubblico allo spettacolo di un famoso cabarettista. A sentirli ridere si direbbe che obbediscano agli ordini della polizia, o che la risata si trasmetta come per contagio da una persona all'altra, a prescindere dalle battute del comico. Anzi, non c'è nemmeno bisogno che faccia battute; sarà sufficiente la semplice ripetizione di una cadenza o di un ritmo. Una volta innescato il meccanismo, sarà impossibile fermarli. Lo stesso a teatro, quando a una rappresentazione che viene giudicata divertente gli spettatori scoppieranno a ridere quasi prima che cominci, come se rispondessero a un dettame della moda. Questo va contro l'idea sentimentale della commedia come genere per sua natura trasgressivo e individualistico, un esercizio ribelle di intelligenza critica attraverso il quale manifestiamo il nostro disprezzo per ogni forma di ottusità, arretratezzae repressione. In realtà la risata è spesso l'esatto opposto di questo: un' espressione retriva di gregaria obbedienza alla tirannia del gruppo. Persino se non è fisicamente presente, il gruppo continua a esercitare la sua influenza, come quando la gente cita frasi culto di qualche commedia televisiva o radiofonica in gran voga, o quando qualche battuta arguta si diffonde in un baleno nella rete. In questi casi la risata, lungi dall' essere uno strumento di liberazione, ratifica la nostra appartenenza a una tribù, e finisce per essere un agente di reclutamento ai valori e alle convinzioni della tribù stessa. All'opposto, tranne quando un libro diventa universalmente noto - come Il giovane Holden o la Guida galattica per gli autostoppisti, dove la battute diventano una sorta di distintivo di appartenenza - la lettura è un' attività solitaria durante la quale ridiamo o piangiamo, dimentichi e incuranti di ciò che fanno gli altri. È possibile che la diffusione dei gruppi di lettura e dei club del libro sia indice di un certo disagio per la natura individuale della lettura; può darsi che l'era della tecnologia ci abbia resi così dipendenti da uno scambio rapido di opinioni che adesso abbiamo paura di leggere da soli. Magari ci saranno persone che si twittano il numero di pagina del libro che stanno leggendo, neanche fosse una faccenda di pubblico interesse. Ma fintantoché continuiamo a leggere da soli, siamo liberi come non può esserlo chi assiste, seduto in platea, allo spettacolo di un comico. E la risata che condividiamo con l'autore del libro ha più possibilità di essere fuori dal coro e ribelle. Tanto più allora c'è da rimpiangere che nell' ultimo secolo la letteratura, e specialmente il romanzo, abbia ampiamente dimenticato i suoi debiti verso la comicità. Non dico che non vi siano stati grandi romanzi comici negli ultimi cent'anni. Herzog di Saul Bellow è un romanzo straordinariamente divertente. Come Il lamento di Portnoy e Il teatro di Sabbath. Ma anche La zia Julia e lo scribacchino di Mario Vargas Llosa. O Karoo di Steve Tesich. Tuttavia si tratta di casi singoli, che non smentiscono affatto la tendenza generale. Sul moderno romanzo europeo è calato un che di sacrale, come se avesse acquisito un'eccessiva consapevolezza del fardello che doveva portare a seguito dell'indebolimento della religione nella cultura occidentale, da una parte, e del parallelo fiorire di una narrativa popolare "leggera" dall'altra. Lo sperimentalismo e altre forme di modernismo nate per superare un'idea di romanzo come prodotto destinato esclusivamente a lettori di cultura media (o bassa) si sono via via succedute mentre sempre più si assottigliava un pubblico serio per ogni genere di romanzo, ma il timore di essere etichettati come "divertenti" ha continuato a indirizzare romanzieri ed editori più ambiziosi (perché anche gli editori determinano gli andamenti della letteratura) verso una certa seriosità. Quel che era naturale per un romanziere della levatura di Jane Austen (dimostrare «la più completa conoscenza della natura umana, la più felice descrizione delle sue varietà, le più vive manifestazioni di spirito e di brio»), proprio come ciò che era naturale per Dickens (dilettare e avvincere, informare e interessare, ma soprattutto intrattenere), è andato perduto nei romanzi moderni. Nella sua nuova presunzione, il romanzo ha dimenticato che le sue origini imprescindibili sono nella narrazione scurrile di Rabelais, negli impudichi motti di spirito di Boccaccio e nell'ilarità più malinconica di Cervantes. Trovando vita nella prosa, e non nella poesia, il romanzo è nato come affermazione della vitalità del qui e ora, rifiutando le ipocrisie di coloro che vorrebbero renderci schiavi della religione, della patria, di un falso eroismo e di ancor più false convenzioni. Era una forma comica perché noi, liberati da tali falsità, siamo una specie comica. Che oggigiorno si debba fornire argomentazioni a favore della sostanziale serietà della commedia - una cosa scontata per Rabelais come per Jane Austen - mostra quanto le arti comiche siano cadute in disgrazia nella letteratura. Ma di fatto il romanzo non può sperare di essere serio, o di riacquistare anche solo in parte l'attenzione di cui godeva in passato, se abbandona quelle autentiche qualità di ingegno comico che lo caratterizzarono ai suoi inizi. Perché per ingegno comico si intende ben più di un'allegria semplicemente irrefrenabile, si intende un'esuberante messa in dubbio di ogni cosa, si intende irriverenza, il rovesciamento di ogni certezza, il capovolgimento dei nostri valori abituali, il terribile effetto corroborante che deriva dal rinunciare a tutto ciò che ci è caro. E non possiamo lasciar questo ai cabarettisti, perché i cabarettisti non fanno che servirsi della natura collettiva, contagiosae conformistica della risata. Quando siamo solo noi e la pagina, ridiamo nuovamente - da soli - come uomini liberi." (da Howard Jacobson, Una letteratura da ridere, "La Republica", 28/04/'11)

The Finkler Question (Bloomsbury Publishing)

L'enigma di Finkler (Edizioni Cargo)

Giuliano Toraldo Di Francia


"Quando vengono a mancare certe personalità, non è rilevante che siano morte quanto piuttosto che siano vissute, e abbiano arricchito con la loro presenza questo nostro «viver terreno». Fisico, filosofo della conoscenza, umanista e uomo di cultura di statura leonardesca, Giuliano Toraldo di Franciaè stato una di queste personalità, e adesso ci lascia all’età di 94 anni, dopo aver traversato quasi un secolo di vita e di passioni intellettuali. Fiorentino di nascita e, a differenza di Dante, di costumi, Toraldo di Francia è stato uno dei più grandi fisici della nostra epoca, dedicandosi sia alla ricerca che all’insegnamento, prima dell’ottica, conosciuta da lui come da pochi altri, poi delle radiazioni elettromagnetiche in generale, come della relatività e dell’elettronica quantistica, nomi arcani di materie che lui sapeva rendere vivissime e quasi trasparenti al nostro intelletto. Perché erano trasparenti al suo, instancabile indagatore della realtà in tutte le sue forme. Ho detto tante volte che ci vuole più lucidità e immaginazione a contemplare la realtà com’è davvero, tutta avvolta nei misteri dei quali la natura si compiace, che nel fingersela e inventarsela. Toraldo è stato tutta la vita un esempio di un occhio al quale niente era celato: «vedeva» dentro un laser come dentro una molecola in rotazione, dentro un fluido come dentro l’inferno di una stella. O dentro il purgatorio di una cellula. Da questo punto di vista il suo capolavoro è rappresentato da L’indagine del mondo fisico (Einaudi, 1976), un libro senza uguali che parla della fisica, sia quella fondamentale che quella vertiginosa, ma anche del suo fondamento conoscitivo: la fisica è così, sembra dirci, perché noi siamo così. Con queste premesse non stupisce che nella seconda parte della sua vita egli si sia messo a studiare i fondamenti stessi della conoscenza scientifica, sia quella intrinsecamente problematica rappresentata dagli abissali dilemmi proposti dalla fisica quantistica, sia quella più consueta e quotidiana del significato della parola «misurare» . Ne sono usciti, tra gli altri, Le teorie fisiche (Bollati Boringhieri, 1981) e Introduzione alla filosofia della scienza (Laterza, 2000), entrambi scritti a quattro mani con la compagna di queste sue audaci peregrinazioni, Marisa Dalla Chiara.
Negli ultimi anni della sua vita Toraldo era soprattutto un filosofo della scienza, mai dimentico di essere un fisico, ma orgoglioso di fare fruttuose escursioni nelle ardue selve del pensiero filosofico contemporaneo. Non si seppe invero nemmeno limitare a questo. In numerosi interventi, tanto sui quotidiani (collaborò al «Corriere» dal 1981 al 1984) quanto in pubblicazioni specifiche, volle dire la sua anche sulle più scottanti questioni del presente, portando sempre la luce del suo intelletto, la sua onestà intellettuale e una certa dose di buon senso, che costa tanto poco, ma può essere a volte così utile. Ne nacque ad esempio Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di oggi e di domani (Einaudi, 1978) e diversi altri godibilissimi libretti da intendere come testimonianze di bruciante intelligenza. Appassionatissimo di musica classica, non ha mai cessato di ascoltare e frequentare le maggiori personalità del Lied romantico europeo, dell’amicizia di molte delle quali si onorava. Leggeva più spesso che poteva i classici italiani e quelli di altre letterature, spesso in lingua originale. Diventato amico del figlio Cristiano, oggi affermato architetto, ho frequentato nella prima giovinezza la sua casa di Bellosguardo a Firenze, dove ho visto passare personaggi di grande rilievo della scienza e delle arti di tutto il mondo. Là ho ascoltato sempre musica meravigliosa e sbirciato libri che hanno costituito i fondamenti delle mie personali letture di ieri e di oggi. Posso dire di averlo frequentato da vicino, anche se la sua statura mi incuteva grande soggezione. È stato in tutto e per tutto il mio Maestro. Non sono mai riuscito, anche in tarda età, a dargli del tu. Ma oggi posso contravvenire a tale autodivieto e dire: Grazie Giuliano, per quello che hai fatto e per quello che hai rappresentato. Per me e per noi tutti." (Edoardo Boncinelli, Toraldo Di Francia, un fisico umanista, "Corriere della Sera", 28/04/'11)

"Alcuni decenni fa, quando ancora la divulgazione scientifica anglosassone non aveva la diffusione che ha oggi, in Italia c´era qualcuno che già se l´era inventata e che la praticava con successo. Era l´epoca in cui usciva la rivista Le Scienze (fondata alla fine degli anni Sessanta da Felice Ippolito e che è stata diretta fino a poco tempo fa da Enrico Bellone, recentemente scomparso) tesoro inestimabile per gli italiani appassionati. Ebbene, proprio allora, avevamo la fortuna di avere, sommersa ma decisiva, anche un´altra divulgazione, meno giornalistica ma altrettanto affascinante: quella praticata da accademici isolati come Giuliano Toraldo di Francia, morto ieri a 94 anni.
L´avevo incontrato nel 1975: ero un giovane appena laureato che stava affrontando un dottorato di logica. Eravamo ad un convegno a Santa Margherita Ligure e passeggiavamo sul lungo mare di questa cittadina: lì ci colpì una coppia singolare. Lei, Maria Luisa dalla Chiara Scabia, filosofa della scienza, e lui, il professor Toraldo di Francia, signore alto magro e brizzolato. I due camminavano insieme cantando arie d´opera. La stessa seria leggerezza e competenza, il professore la metteva nelle sue ricerche e nei suoi libri. Professore emerito di fisica superiore all´Università di Firenze, era stato anche direttore dell´Istituto di ricerche sulle onde elettromagnetiche del Cnr e presidente della Società italiana di fisica dal 1968 al 1973. E mentre stava nell´accademia scriveva libri che spiegavano a tutti come funzionava la scienza: da L´amico di Platone (Vallecchi, 1985), a La scimmia allo specchio (Laterza, 1988) fino a Un universo troppo semplice. La visione storica e la visione scientifica del mondo (Feltrinelli, 1990). Si occupava di meccanica quantistica e ci sapeva spiegare la filosofia che c´era in quelle teorie. Fino all´ultimo ha saputo mantenere il suo umorismo: a 90 anni partecipava ancora a molte iniziative e all´ultima a cui l´ho visto si lamentava perché alcuni guai fisici l´avevano costretto a smettere di giocare a tennis.
La sua figura è stata importantissima: in un Paese che ha spesso affidato la divulgazione scientifica a giornalisti di formazione umanistica lui rappresentava una felice anomalia. Insieme a Roberto Vacca e a Tullio Regge è stato un grande pioniere, mettendo in pratica una cosa semplicissima che però non faceva nessuno. E cioè: pur essendo professori e universitari si può cercare di spiegare a tutti la bellezza della fisica, dell´astronomia o della chimica. Così se oggi la situazione è molto cambiata lo si deve proprio a loro. Ora gli scienziati "scendono in campo", scrivendo sui giornali, facendo conferenze per il largo pubblico, partecipando ai festival e andando anche in tv. Ma il merito è di persone come Toraldo di Francia, nato nel 1916 a Firenze, figlio e padre di un´altra Italia. Bisognerebbe non dimenticare mai la sua lezione." (da Piergiorgio Odifreddi, Addio a Toraldo di Francia scienziato e divulgatore, "La Repubblica", 28/04/'11)

Come insegnare ai ragazzi il desiderio di nuovi mondi


"Il lavoro degli insegnanti è diventato oggi un lavoro di frontiera: supplire a famiglie inesistenti o angosciate, rompere la tendenza all´isolamento e all´adattamento inebetito di molti giovani, contrastare il mondo morto degli oggetti tecnologici e il potere seduttivo della televisione, riabilitare l´importanza della cultura relegata al rango di pura comparsa sulla scena del mondo, riattivare le dimensioni dell´ascolto e della parola che sembrano totalmente inesistenti, rianimare desideri, progetti, slanci, visioni in una generazione cresciuta attraverso modelli identificatori iperedonisti, conformistici o apaticamente pragmatici. Gli insegnanti consapevoli ce lo dicono in tutti i modi: "Non ascoltano più!", "Non parlano più!", "Non studiano più!", "Non desiderano più!".
Cosa può dunque tenere ancora vivo il motore del desiderio? Non è forse questa la missione che unisce tutte le figure (a partire dai genitori) impegnate nel discorso educativo? Mestiere impossibile decretava Freud. Aggiungendo però a questa profezia pessimistica una buona notizia: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità, quelli che non si prendono per davvero come padri o insegnanti educatori. I migliori sono quelli che hanno contattato la loro insufficienza. Sono quelli che hanno preso coscienza dell´impossibilità e del danno che provocherebbe porsi come gli educatori migliori.
Proviamo ora a fare un esperimento mentale: chi sono gli insegnanti che non abbiamo mai dimenticato? Sono quelli che hanno saputo incarnare un sapere, sono quelli che ricordiamo non tanto per ciò che ci hanno insegnato ma per come ce lo hanno insegnato. Ciò che conta nella formazione di un bambino o di un giovane non è tanto il contenuto del sapere, ma la trasmissione dell´amore per il sapere. Gli insegnanti che non abbiamo dimenticato sono quelli che ci hanno insegnato che non si può sapere senza amore per il sapere. Sono quelli che sono stati per noi uno "stile". I bravi insegnanti sono quelli che hanno saputo fare esistere dei mondi nuovi con il loro stile. Sono quelli che non ci hanno riempito le teste con un sapere già morto, ma quelli che vi hanno fatto dei buchi. Sono quelli che hanno fatto nascere domande senza offrire risposte già fatte. Il bravo insegnante non è solo colui che sa ma colui che, per usare una bella immagine del padre sopravvissuto celebrato da Cormac McCarthy in La strada, "sa portare il fuoco". Portare il fuoco significa che un insegnante non è qualcuno che istruisce, che riempie le teste di contenuti, ma innanzitutto colui che sa portare e dare la parola, sa coltivare la possibilità di stare insieme, sa fare esistere la cultura come possibilità della comunità, sa valorizzare le differenze, la singolarità, animando la curiosità di ciascuno senza però inseguire alcuna immagine di "allievo ideale", ma esaltando piuttosto i difetti, persino i sintomi, di ciascuno dei suoi allievi, uno per uno. È, insomma, come scrisse un grande pedagogista italiano quale fu Riccardo Massa, qualcuno che "sa amare chi impara". Tutti ne abbiamo conosciuto almeno uno. Questa è la vera prevenzione primaria che servirebbe ai nostri figli: incontrarne almeno uno così. Dobbiamo, invece che ironici, essere riconoscenti all´esercito civile di chi ha scelto di vivere nella Scuola, a coloro che hanno autenticamente e appassionatamente scelto di amare chi impara.
Mi è capitato di voler continuare ad insegnare mentre venivo interrotto in aula dagli studenti che protestavano per la Legge Gelmini. Avevano ragione, ma ho insistito nel difendere le mie ragioni. La democrazia è fatta di queste divergenze, di questi conflitti tra prese di posizione diverse che possono convivere mantenendosi tali. Volevo proseguire nella lezione perché un´ora di lezione non è un automatismo svuotato di senso, non è routine senza desiderio come invece sembrava pensassero i miei interlocutori. Certo questo è il morbo della Scuola, è la patologia propria del discorso dell´Università che ricicla un sapere che tende anonimamente alla ripetizione annullando la sorpresa, l´imprevisto, il non ancora sentito e il non ancora conosciuto. Il vero nemico dell´insegnante è la tendenza al riciclo e alla riproduzione di un sapere sempre uguale a se stesso. È lo spettro che sovrasta e può condizionare mortalmente questo mestiere: adagiarsi sul già fatto, sul già detto, sul già visto. Ridurre l´amore per il sapere a pura routine. A quel punto non c´è più trasmissione di una conoscenza viva ma burocrazia intellettuale, parassitismo, noia, plagio, conformismo. Un sapere di questo genere non può essere assimilato senza generare un effetto di soffocamento, una vera e propria anoressia intellettuale.
Eppure la Scuola continua ad essere fatta di ore di lezione che possono essere avventure, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Di fronte ai giovani che protestavano ho voluto continuare ad insegnare e l´ho fatto per tutti i maestri che mi hanno insegnato che un´ora di lezione può sempre aprire un mondo.
Il nostro tempo segnala una crisi senza precedenti del discorso educativo. Le famiglie appaiono come turaccioli sulle onde di una società che ha smarrito il significato virtuoso e paziente della formazione rimpiazzandolo con l´illusione di carriere prive di sacrificio, rapide e, soprattutto, economicamente gratificanti. Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? Per questa ragione di fondo la Scuola viene invocata dalle famiglie come un´istituzione "paterna" che può separare i nostri figli dall´ipnosi telematica o televisiva in cui sono immersi, dal torpore di un godimento "incestuoso", per risvegliarli al mondo. Ma anche come una istituzione capace di preservare l´importanza dei libri come oggetti irriducibili alle merci, come oggetti capaci di fare esistere nuovi mondi. Capissero almeno questo i suoi censori implacabili. Capissero che sono innanzitutto i libri – i mondi che essi ci aprono – ad ostacolare la via di quel godimento mortale che sospinge i nostri giovani verso la dissipazione della vita (tossicomania, bulimia, anoressia, depressione, violenza, alcoolismo, ecc). Lo sapeva bene Freud quando riteneva che solo la cultura poteva difendere la Civiltà dalla spinta alla distruzione. La Scuola contribuisce a fare esistere il mondo perché un insegnamento, in particolare quello che accompagna la crescita (la cosiddetta scuola dell´obbligo), non si misura certo dalla somma nozionistica delle informazioni che dispensa, ma dalla sua capacità di rendere disponibile la cultura come un nuovo mondo, come un altro mondo rispetto a quello di cui si nutre il legame familiare. Quando questo mondo, il nuovo mondo della cultura, non esiste o il suo accesso viene sbarrato, come faceva notare il Pasolini luterano, c´è solo cultura senza mondo, dunque cultura di morte, cultura della droga. Se tutto sospinge i nostri giovani verso l´assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l´umano, l´incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali. Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi?" (da Massimo Recalcati, Come insegnare ai ragazzi il desiderio di nuovi mondi, "La Repubblica", 29/04/'11)

La biblioteca degli scrittori


"Chiedersi come sia la biblioteca di uno scrittore è come immaginare che cosa mangia un cuoco o come si senta un regista quando va al cinema. C'è un rapporto diverso tra la libreria e il suo possessore quando, in altre stanze, altre case, la sua opera può farne parte. La relazione varia nel tempo e a seconda della personalità. Qui se ne traccia un profilo basato sulla conoscenza di alcuni casi specifici e sull' esperienza personale. Lo scrittore bambino ancora non sa quel che diventerà, ma sa quel che ama: i libri. Quegli sconosciuti ritratti in terza di copertina sono il balsamo della sua solitudine, le voci che riempiono il vuoto delle sue giornate, il succedaneo di genitori assenti e amici inesistenti. È con gratitudine che raduna nel piccolo spazio sotto il comodino o nel primo scaffale della sua vita Emilio Salgari, Jack London o (in caso di futura scrittrice) Emily Brontë. Con il tempo il pantheon degli eroi si allarga e si ispessisce. In mezzo ai libri vengono infilati fogli (gli scrittori da giovani non sottolineano e non annotano a pie' di pagina per rispetto dei futuri colleghi). Contengono brevi recensioni, ma soprattutto segnalazioni: incipit ficcanti, geniali snodi di trama, usi innovativi del dialogo. E frasi: frasi che restano, pennellate perfette, possibili esergo a venire. Hemingway, Miller, Auster si succedono negli anni e trovano comparti dedicati. Giacché lo scrittore che verrà non commette l'errore imperdonabile di disporre per ordine alfabetico o (orrore massimo) per casa editrice. Lui (o lei) ha letto in almeno quattro testi le considerazioni ironiche sulle biblioteche altrui che hanno in prima linea i soldatini pastello dell'Adelphi. E allora, piuttosto, la suddivisione del sapere, dell'intenditore: qui gli americani, là i mitteleuropei. O invece: da un lato i classici, dall'altro i contemporanei. E se fosse più sottile di così? Drammatici, umoristici. Faction, fiction. Bisogna prendere le due pagine di infografica di un noto settimanale e rispettarne la ricostruzione del panorama letterario mondiale? Che importa? Sono comunque tutti degni di ammirazione. Fino al giorno in cui avviene il miracolo: l'esordio. A quel punto nasce il problema dei problemi: dove collocare il proprio libro. Se solo si potesse tornare all'inaccettabile ordine alfabetico: finirebbe a fianco (metti caso) di Rushdie. Per editore, oddio: con tutti quei gran nomi (ma anche quelle meteore, hai visto mai che contagiano). Forse meglio in solitudine, non troppo esibita. Intanto la biblioteca continua a crescere, ma è oggetto di un diverso sguardo. La soggezione si muta in invidia. La reverenza in insofferenza. Si rispettano gli autori defunti, quelli molto lontani, un po' meno i vicini di collana, quelli incontrati nello stesso festival letterario o quelli che per vederli in classifica tocca alzare lo sguardo. Nel romanzo L'informazione Martin Amis descriveva perfettamente il rapporto tra scrittori e la corrente di odio che può scorrere. Lui stesso non deve certo riservare un posto d'onore nella biblioteca ad alcuni contemporanei inglesi. Nel presunto segreto di una cena tra amici, i funzionari di una casa editrice raccontano di autori bizzosi che pretendono di non avere nella stessa pagina di catalogo colleghi che disistimano (o da cui si sentono minacciati?). Figurarsi dove li posizionano nella loro libreria. La biblioteca dello scrittore è immensa, per definizione e necessità. È esibita, mai in una stanza laterale. Sta in sala, non nello studio, salvo che lo studio sia più grande della sala. Se è defilata è per understatement o per morettiana speranza che si noti di più in quanto appartata, che la sua parca scelta sia considerato indice di raffinatezza. E adesso, nell'era digitale? Ora che il kindle o l'i-Pad possono contenere tutto Borges e tutta la biblioteca di Borges? È possibile accettare di ridurre quella ostensione di cultura, ma anche quel visibile percorso di vita, a una sottiletta d'acciaio deposta sulla scrivania? La risposta dipende dall'esperienza, dal rapporto che si ha con i luoghi, le case e le cose. Chi, come me, ha cambiato qualche decina di residenze, riallineato infinite volte Bukowsky e Busi, ricomprato almeno tre volte gli stessi trenta libri, ha infine accettato l'idea che perdere è conservare quel che conta. Un giorno smarrirò anche il tablet e quel che resterà della biblioteca sarà quel che resta della vita: memorabili sensazioni, personaggi, sorprese e belle parole nel buio." (da Gabriele Romagnoli, La biblioteca degli scrittori, "La Repubblica", 23/04/'11)

Quei fedelissimi che non rinunciano al ticchettio della macchina per scrivere


"Il salto, ormai, l'hanno fatto quasi tutti. La macchina per scrivere è un ricordo, qualche volta un cimelio o una suppellettile per nostalgici. Tant'è vero che l'ultima fabbrica ancora funzionante, in India, ha dichiarato la resa, e chiude. La sua epoca è finita e non sapremo mai se era più giusto dire macchina da scrivere o macchina per scrivere. Una storia durata centocinquant'anni, ma gloriosa: non si contano le fotografie dei maggiori scrittori del secolo scorso intenti a battere sui tasti neri o anneriti di una Olivetti, di una Remington o di una Underwood. Qualcuno il salto l'ha fatto senza rimpianti. Emilio Tadini, per esempio, ne vedeva soprattutto i vantaggi: «Il computer - diceva - è uno straordinario strumento artigianale, consente di ripartire sempre dal vuoto. È come la plastilina: basta schiacciarla e tutto si annulla. Rimane solo il ricordo di quel che c'era, senza lasciare la presenza fisica, ingombrante, della redazione precedente». C'è però una razza in via di estinzione che resiste.
È un'esile truppa di scrittori che rimane fedele alla meccanica. «Scrivo a macchina - dice Guido Ceronetti - con crescenti errori di battuta: è una macchina tedesca che si chiama Monika, l'ho comprata a Roma 35-40 anni fa. Mi piace, mi appartiene e sono contento così, anche se perde colpi e una nuova non si trova di certo». La prima macchina da scrivere di Ceronetti era una portatile della ditta paterna: «Avevo 17 anni, uscivo apposta di casa per andare a chiedere con tremore a mio padre e a mio zio se potevo usarla. Scrivevo con dieci dita, perché mi ero diplomato in stenografia e dattilografia in vista di chissà quale carriera di giornalista, in un istituto torinese di via Po. Ero l'unico maschio con una ventina di ragazze».
Altri esemplari rari di scrittori-macchinisti sono Alberto Arbasino, Raffaele La Capria, Gillo Dorfles. Il quale però, superati i cento, non esclude affatto una conversione futura: «Bisogna che mi decida, ma finisce che rimando sempre. Diciamo che ormai mi trovo male a scrivere con tutto, tranne che con la penna. Infatti prima scrivo a mano, poi ricopio a macchina, e lo stesso farei con il computer. Il fatto è che odio tutto ciò che è elettronico, telefonino compreso: dunque per il momento mi tengo le mie due o tre Olivetti, che più che vecchie sono decrepite, ma proverò a cambiare».
Sarebbe sbagliato limitare il tutto a una questione generazionale. Il pioniere italiano del Grande passaggio, come si sa, è stato Umberto Eco, classe 1932. Altri, decisamente più giovani, non cedono alle sirene del digitale. Sebastiano Vassalli, con le sue quattro Olivetti (una imponente linea 88 e tre portatili) e la pregiata (e gigantesca) Adler anni 40, ne fa una questione di stile: «I miei romanzi li ho sempre scritti a mano su quaderni e poi ricopiati a macchina: la ricopiatura mi dà il tempo di riflettere sulle piccole cose, che poi non sono affatto piccole. In realtà è una nuova stesura che quelli che lavorano al computer si perdono. Diversi amici molto fidati mi dicono: "Risparmieresti un sacco di tempo", ma per me non è così che si lavora. Abbreviare i tempi tecnici della scrittura è contro natura». In un'altra occasione Vassalli ha precisato che è come se arrivasse una nuova tecnologia capace di ridurre la gravidanza a sei mesi ... Ora semmai il suo problema è un altro. E molto serio: i pezzi di ricambio e il reperimento dei nastri: «Alla notizia della chiusura dell'ultima fabbrica, mancava poco che mi mettessi a piangere».
C'è poi chi sceglie una terza via: niente macchina e niente computer. Solo la penna. È il caso di Franco Cordelli, che nel novembre 2009 ha deciso («per motivi privati, un po' scaramantici, lo ammetto») di abbandonare la macchina e ha ripreso a scrivere a mano: «L'ultimo romanzo, La marea umana (Rizzoli), per fortuna l'ho finito prima, e non oso pensare a quello che sarà di me se dovessi scriverne un altro». Ma il computer mai: «Pone pochi ostacoli alla mano e questo incide sulla qualità profonda della scrittura»." (da Paolo Di Stefano, Quei fedelissimi che non rinunciano
al ticchettio della macchina per scrivere
, "Corriere della Sera", 28/04/'11)

Pavese e Fenoglio alla guerra civile


"Cercando nella nostra narrativa riferimenti alti alla storia della Resistenza caschiamo inevitabilmente sui nomi di Pavese e di Fenoglio (senza dimenticare
con questo il Calvino del Sentiero dei nidi di ragno e il troppo trascurato Cassola di Fausto e Anna). Siamo attratti dalla contiguità geografica ed etnica dei due scrittori, che non fa velo tuttavia a una netta divaricazione stilistica e morale. In fondo il tratto che più li accomuna è la consapevolezza, affermata a chiare lettere prima della tardiva pronuncia degli storici, che la guerra di liberazione è stata anche una guerra civile. E Fenoglio, che pure lesse Pavese e tradusse dall’inglese due delle sue ultime poesie, non mostra di averne apprezzato la narrativa d’impronta resistenziale. Mi riferisco ovviamente a La casa in collina e La luna e i falò.
Nel primo romanzo Corrado, l’alter ego dello scrittore, confessa la sua inettitudine, venata di rimorso, davanti alla scelta degli operai conosciuti in una osteria della collina torinese, di Cate e dello stesso figlioletto che dopo l’8 Settembre si danno alla macchia. Soltanto dopo la sua vana fuga verso le colline natie, in un cammino costellato di incendi e massacri, dopo avere letteralmente «scavalcato il sangue», comprende quanto fosse illusoria la sua speranza di una individuale salvezza.
Ma la sua condizione di spettatore non gli impedisce di rappresentare in controluce, attraverso la sua stessa assenza, il movimento partigiano, con pertinenti notazioni sui contrasti politici che si manifestano fin dall’inizio al suo interno.
Ne La luna e i falò manca una cronologica presa diretta. Troviamo infatti la Resistenza nelle rievocazioni di Nuto a beneficio di Anguilla che, nell’immediato
dopoguerra, è tornato al paese dall’America in cui era emigrato. Nei soprassalti della memoria affiorano così storie di combattimenti e rappresaglie, di spiate e fucilazioni. Va osservato che neanche Nuto, per quanto solidale con i ribelli o patrioti, ha partecipato alla Resistenza: è stato come Corrado un testimone inerme. D’altronde le sollecitazioni dell’amico a smuovere il sanguinoso passato sono dettate soprattutto dal desiderio di essere informato sul disfacimento subito dalla cascina della Mora, in particolare sulla sorte dell’irrequieta Santina. Nel romanzo la Resistenza c’è, anche nelle frustrazioni del dopo, nelle speranze tradite, ma vista di scorcio, nell’assenza dei protagonisti, come occasione mancata.
Altro contegno e altra aria nei romanzi e racconti di Beppe Fenoglio. A partire dagli Appunti partigiani fino al grande cantiere rappresentato dal Partigiano Johnny e alle pagine ultime di Una questione privata, la Resistenza diventa il tema centrale, direi definitivo, della narrativa fenogliana, la scommessa della sua vita. Il combattente che è stato Beppe non ignora nessuno dei suoi aspetti, la tenerezza dell’amicizia e la spietatezza vendicativa, la fragilità e lo stoicismo, la viltà e l’eroismo. Ettore accanto a Tersite, in una prosa di epico respiro.
Ci sono gli odori dei bivacchi, il calore di un precario rifugio contadino, le stagioni insidiose per gelo e per nebbia, la stretta di una natura materna e matrigna, gli agguati e le fughe, scavallando colline e sprofondando nei rivi ...
Nessuno, Calvino dixit, ha saputo dare della guerra partigiana una rappresentazione così completa e così vera. Con tutte le implicazioni di carattere storico e morale che animeranno dibattiti fino ai nostri giorni.
Per i suoi portavoce, Johnny e Milton, ma anche per tanti più umili e meno consapevoli gregari, la posta in gioco è la dignità dell’uomo, mortificata dall’oppressione e dalla menzogna. Certo, in Fenoglio, c’è qualcosa di più, la Resistenza assume un significato simbolico quasi sacrale. Egli si trova in piena sintonia con il suo Johnny che ha dismesso brevemente la divisa: «... si sentiva come
può sentirsi un prete cattolico in borghese od un militare in borghese: le armi razionalmente celate sotto il vestito, il segno era sempre su lui: partigiano in aeternum». Ed è significativo che nei suoi partigiani l’odio per i fascisti sopravanzi quello per i tedeschi.
Perché i fascisti fanno parte di noi, appartengono alla «guerra civile» che può insorgere all’interno della nostra anima corrompendola.
La Resistenza come gran teatro che chiama a raccolta tutte le virtù dell’uomo. Un evento al quale Fenoglio rende un superbo omaggio promuovendolo, al di là delle strette circostanze storiche, a lezione perenne." (da Lorenzo Mondo, Pavese e Fenoglio alla guerra civile, "TuttoLibri", "La Stampa", 23/04/'11)

mercoledì 27 aprile 2011

Paper Cutting


"Credo che a nessuno di voi sfugga la bellezza dell'opera d'arte che è riprodotta in questa pagina. È una delle tante che potevo scegliere tra i lavori dell'inglese Su Blackwell, che già altre volte è capitato di citare. Sì, vedete bene. Blackwell è un'artista e una poetessa del ritaglio: e la carta che usa per il suo lavoro (in questo caso si intitola Magnolia Tree, è del 2007) è quasi sempre quella di libro. Ovvio che questo non è un aspetto secondario.
Il bellissimo volume Paper Cutting (appena edito da Chronicle Books, pagg. 176, $ 27,50, per la cura di Laura Heyenga e con una prefazione di Rob Ryan, forse l'artista più noto tra quelli che lavorano sulla e con la carta ritagliata) raduna 26 artisti, perlopiù molto giovani e di tutto il mondo, che hanno fatto del taglio artistico della carta la loro cifra. Ma ripeto: un conto è la carta, con tutte le sue caratteristiche e qualità e preziosità, altro, però, è il libro. Il libro contiene, parole, senso, significati, storie. Umanità. E così fare a pezzi un libro ma vederne venire fuori qualcosa d'altro è anche un atto in potenza (e nella pratica) molto poetico. Perché utilizza il libro in entrambe le sue principali caratteristiche: oggetto fisico e oggetto spirituale. Oltre al volume citato, un rapido giro sul sito dell'artista inglese, vi farà capire senza troppi giri di parole cosa vado dicendo. Quasi sempre la Blackwell fa uscire dal volume, spesso disteso come un tappeto, o un fertile terreno, dei boschi di carta che giocano con il concetto di fatato e di stregato: come se si "materializzasse" l'essenza della storia che il libro narra. E che noi possiamo solo immaginare. In più: se l'arte del ritaglio si esibisce, in molti casi, in raffinatissime silhouette, in esercizi di maestria che "ricreano" nelle minuzie la realtà, diventa davvero qualcosa di magico quando incontra il libro
e il suo contenuto. Per esempio con Hina Aoyama e i suoi esperimenti di intaglio sulle poesie di Baudelaire.
Ma è Thomas Allen (si vedano su http://foleygallery.com/index.php3i suoi lavori) che emoziona ancora di più. Lui ritaglia le figure umane che campeggiano nelle copertine vintage dei libri pulp americani di qualche decennio fa. E le fa rivivere: in solitaria, spersi tra le pagine, a volte in dialogo muto con altri protagonisti, talora in un immobile, eterno duello con altri protagonisti del romanzo. Un modo per dare ai libri la patente di oggetto d'arte che in troppi si ostinano a non vedere. Allora: compratevi questo libro. E vi ricrederete." (da Stefano Salis, Incantati tagli di carta, "Il Sole 24 Ore", 24/04/'11)

Italia reloaded


"A ogni festa comandata l’Osservatorio nazionale per il turismo tiene il conto di quanti milioni di italiani si riversano nelle città d’arte, preferendo le vacanze in Italia a quelle in capitali o luoghi ameni fuori dal territorio nazionale. L’invito a consumare il proprio tempo libero, e dunque il proprio denaro, nelle piccole e medie città dell’Italia, a visitare monumenti, gallerie, musei, chiese, basiliche, santuari, è di anno in anno sempre più pressante, come se questa sorta d’autarchia potesse davvero diventare un tassello importante nella ripresa economica del Bel Paese, entrato pericolosamente in un periodo di stasi economica.
In modo analogo, si è diffusa una metafora per cui «la cultura è il petrolio dell’Italia», come se fosse possibile seduta stante traforare la crosta e far sgorgare per incanto il prezioso liquido della cultura; gli studiosi di beni culturali sostengono piuttosto che, dal punto di vista economico, la cultura è altra cosa dal petrolio: per ottenere dei risultati soddisfacenti occorrono investimenti di alto valore economico, a volte persino rischiosi. La cultura, ci ricordano Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco in un utile volume - Italia reloaded. Ripartire dalla cultura (Il Mulino) -, ha bisogno di infrastrutture intangibili, ovvero «di una società che pensa e che ama pensare». Se è vero che l’Italia è piena di castelli, palazzi storici, chiese, musei, è altrettanto vero che questi vanno resi visitabili, agibili al pubblico, e per farlo occorrono investimenti economici, mentre vengono lasciati deteriorare luoghi e edifici per mancanza di fondi e investimenti, come nel caso di Pompei.
Ma il problema non è solo questo. Il fatto è che la cultura italiana, quella che dovrebbe rendere «utilizzabile» il proprio patrimonio artistico, fondato sul mito della «città d’arte», scrivono i due autori, possiede un’identità totalmente incentrata su un passato definito e cristallizzato. L’Italia coltiva da decenni un «disinteresse pressoché completo per le forme della produzione culturale innovative e legate alla contemporaneità», e allo stesso tempo propone un’offerta culturale prevedibile, totalmente modellata su tempi e interessi del turismo. Le famose città d’arte sono viste come luoghi fruibili prima di tutto dai «turisti», in cui i «residenti» sono diventati i complici compiacenti su cui si riversa parte della ricchezza portata dai visitatori, mentre il costo delle case nei centri storici, trasformati in piccole Disneyland, aumenta vertiginosamente, con l’effetto dello spopolamento.
Il paradosso con cui hanno a che fare questi paesi e città è infatti quello di sentire come una minaccia qualsiasi cambiamento architettonico, mentre si adeguano, spesso senza rendersene conto, alle forme stereotipate che il turismo di massa produce nel consumo delle città medesime. Attirano i turisti, come auspica la ministra Brambilla, ma diventano quello che i turisti vogliono che siano, secondo un modello tipico di ogni forma di consumo. A Venezia come a Roma, a Orvieto come ad Amalfi, i turisti restano nei luoghi solo il tempo di una rapida visita, trasformandoli in tanti McDonald’s dell’arte.
Il progetto di puntare solo sul turismo per rivitalizzare le città italiane non è più compatibile con loro rinascita culturale. Mentre un tempo, prima dell’ondata semibarbara del turismo di massa, le città italiane accoglievano stabilmente artisti e intellettuali, che vi amavano vivere e lavorare, oggi sono quasi tutte disertate da questi residenti, a vantaggio di città estere come Berlino, Barcellona, Cracovia, dove le idee circolano con più rapidità e in modo efficace, contribuendo a rendere questi luoghi un crogiuolo interessante e vitale.
Il problema che i due autori si pongono è come far ripartire il nostro Paese attraverso la cultura, una questione che in un momento come l’attuale è assolutamente prioritaria. La condizione che Caliandro e Sacco ritengono indispensabile è la creazione di un’identità collettiva. Oggi l’intero Paese pensa al proprio passato come a uno «scrigno», una tomba da custodire; e alimenta una nostalgia perniciosa che è l’esatto opposto della comprensione storica; la nostalgia, scrivono, è la pellicola della rimozione.
La parola chiave per comprendere lo stallo in cui si trova il Paese è appunto «rimozione». Gli italiani non sono in grado di riconciliarsi con la propria storia. Per usare la cultura come fattore di sviluppo bisogna fare prima di tutto i conti con se stessi, col proprio passato, e avere un’idea collettiva del futuro. Uno dei capisaldi di questo blocco psichico, che riguarda l’intera Italia, il Nord come il Centro e il Sud, è proprio dalla televisione, la neotelevisione, come l’ha definita Umberto Eco nel 1983, che ha alimentato negli ultimi vent’anni, sulla falsariga del modello americano dell’intrattenimento, questa mancata comprensione, oltre a fornire ai telespettatori massicce dosi di glamour e vintage, se non proprio di pornografia di massa a buon mercato. La cultura si è fissata su stereotipi per cui il popolo amerebbe il pop, mentre una minoranza d’intellettuali la cultura alta, altro luogo comune che finisce per avvalorare l’unica televisione dominante, quella commerciale, e il suo conformismo di fondo.
Uno scrittore, Giorgio Vasta, ha espresso in modo icastico questa situazione: «L’Italia è un Paese a somma zero». L’industria culturale nel nostro Paese non favorisce per nulla l’innovazione, ma vive su modelli precostituiti e già affermati. Come fare per ripartire? Innovando, introducendo quello che Robin Wood, saggista americano, ha definito disturbance, il disturbo culturale, che è proprio dell’arte e della letteratura, e che «permette di misurare la distanza creativa tra la nuova proposta e il gusto già affermato». La cultura dovrebbe diventare un contesto esperienziale, scrivono gli autori del libro, in cui le persone imparano a creare possibilità per se stessi e per gli altri investendo sul proprio potenziale di sviluppo umano. Un’impresa non da poco, ma indispensabile." (da Marco Belpoliti, Non basta il turista per farci risorgere, "La Stampa, 23/04/'11)

domenica 24 aprile 2011

It Is the Fate of Libraries to Die


"Ci è voluto un cinico giornalista del Financial Times per scrivere nero su bianco quello che tutti pensano ma si guardano bene dal dire in pubblico: le biblioteche sono destinate a morire. In un lungo articolo pubblicato il 15 aprile, Christopher Caldwell ha tracciato un primo bilancio delle chiusure provocate dai tagli del governo conservatore nel Regno Unito: quattrocento biblioteche in meno. Dall'altra parte dell'Atlantico il 15% delle biblioteche americane negli ultimi mesi ha ridotto l'orario di apertura, le altre cercano disperatamente aiuti privati per evitare di farlo.
Dall'osservatorio di Pittsburgh posso aggiungere che in Texas si sta discutendo un bilancio 2012 in cui i finanziamenti alle biblioteche vengono ridotti del 99%, oltre a una perdita di 8 miliardi di dollari in fondi del governo federale. In Florida, il Senato ha eliminato il 100% dei contributi alle biblioteche, il che provocherà anche una perdita di finanziamenti del governo federale, che sono legati a un certo livello dei servizi. In California il bilancio è ancora nel caos e difficilmente i servizi culturali saranno risparmiati.

In competizione con i pompieri
Un'eccezione c'è: la Pennsylvania, dove i finanziamenti dello Stato non calano: l'anno prossimo il Public Library Subsidy rimarrà allo stesso livello del 2011 (53,5 milioni di dollari) al contrario di molti servizi essenziali, come l'università, i trasporti pubblici o la difesa dell'ambiente, che il nuovo governatore repubblicano Tom Corbett ha tagliato senza esitare. Secondo American Libraries», 19 stati su 50 hanno ridotto i fondi per le biblioteche (e dieci hanno fatto tagli superiori al 10%).
Il Financial Times spiega che le biblioteche non attraversano una crisi passeggera ma una fase in cui la loro stessa esistenza è in dubbio. La ragione è semplice: in quanto istituzioni finanziate dai governi locali esse devono subire le conseguenze di una crisi fiscale che non è contingente. Tutti i governi occidentali hanno bilanci pesantemente in rosso e in Gran Bretagna come negli Stati Uniti, ridurre la spesa pubblica è diventato una priorità. Né Cameron né Obama vogliono (o possono) aumentare le tasse, quindi possono soltanto tagliare le spese e non saranno certo quelle militari a essere ridotte, almeno nel breve periodo.
Tra le spese non militari, le biblioteche devono competere con servizi sanitari sempre più costosi e con un sistema pensionistico squilibrato per ragioni demografiche (in futuro ci saranno più pensionati che lavoratori attivi). La crisi continua a mantenere elevate le spese di assistenza ai disoccupati e ai poveri e - sottolinea Caldwell - negli Stati Uniti «le spese locali per il welfare sono spesso obbligatorie per legge mente le spese per le biblioteche sono discrezionali».

La fine della transizione
L'autore dell'articolo va oltre: «Le biblioteche appartengono a un periodo di transizione alla fine del XIX secolo, dopo l'affermazione della democrazia ma prima della crescita del Welfare State. Le biblioteche facevano da ponte fra il vecchio stile di governo e il nuovo». Oggi questo periodo di transizione è finito da un pezzo e la biblioteca, come molti altri settori dello stato sociale, potrebbe soccombere alla crisi fiscale.
Esse sono vulnerabili anche perché, al contrario della sanità o della scuola, servono una minoranza della popolazione. Non ci sono famiglie escluse dal servizio sanitario in Gran Bretagna, né famiglie che rinuncino all'istruzione obbligatoria negli Stati Uniti (con modeste eccezioni legate a convinzioni religiose). Le biblioteche, invece, vengono frequentate da circa un terzo dei cittadini in Inghilterra e, in America, il 58% degli adulti sostiene di avere la tessera della biblioteca ma questo naturalmente non significa che poi ci si vada davvero. Gli enti locali devono decidere se tagliare servizi che semplicemente sono irrinunciabili, come i pompieri o la polizia, oppure sacrificare una istituzione utile solo a una minoranza: non è difficile immaginare quali saranno le scelte.

Studenti in difficoltà
Implicita in questa discussione, ma mai affrontata è la questione di un'altra fase di transizione che le biblioteche hanno estrema difficoltà a gestire. Si tratta della fase iniziata alla fine del ventesimo secolo con la prepotente affermazione delle tecnologie di comunicazione individualizzate. Il computer portatile, il telefonino, ora l'iPad non potevano che generare la sensazione che la fase in cui le biblioteche facevano da ponte fra la cultura accumulata nei secoli e il singolo utente fosse finita. Su questo, qualche riflessione più approfondita sarebbe utile.
I bibliotecari sostengono che le biblioteche sono un servizio necessario per la comunità e nessuno studioso serio lo nega ma i politici, almeno in questi anni tristi, sono indifferenti a ogni ragionamento che vada al di là della prossima scadenza elettorale. Se proprio devono pensarci, diranno che nell'era degli smart phone, del Kindle e dell'iPad nessuno ha veramente bisogno della biblioteca. Magari potranno anche riconoscere che sono molto utili per i pensionati, i disoccupati e gli immigrati ma i primi possono andare a leggere il giornale al bar, i secondi si accontentino di non morire di fame e gli ultimi prima se ne vanno e meglio è.
Non ci sono buoni argomenti che possano convincere cattivi politici a fare ciò che dovrebbero, ma i cittadini hanno varie buone ragioni per mobilitarsi in difesa delle biblioteche, a cominciare proprio da quei grandi utilizzatori di smart phone, di Kindle e di iPad che sono gli studenti universitari. Un rapporto di qualche anno fa sulla loro capacità di fare ricerche su internet finalizzate allo studio e non all'intrattenimento dava risultati poco entusiasmanti: solo il 52% era in grado di valutare correttamente l'obiettività di un sito web, solo il 65% il suo grado di autorevolezza. In altre parole, moltissimi giovani, forse la maggioranza, non sono in grado di distinguere il valore dei materiali di Wikipedia da quello delle pubblicazioni dell'università di Harvard, né sono capaci di trovare ciò che è utile per capire situazioni complesse o problemi politici con i quali non hanno familiarità.
Questo significa che, in assenza di ambienti culturali collettivi che offrano aiuto e guida, le straordinarie possibilità di ricerca offerte dalla rete resteranno delle possibilità, quando non aggraveranno la confusione per l'eccesso di stimoli non filtrati. I gadget elettronici non sono un sostituto né della scuola né della biblioteca.

Confronto tra cittadini
Questa linea di ragionamento, tuttavia, rimane ancora nell'ambito ristretto di una valutazione economicista dell'utilità sociale della biblioteca: se non si vuole che i giovani crescano troppo ignoranti, e quindi incapaci di competere sul mercato mondiale, occorre fornire almeno dei servizi culturali minimi, tra cui le biblioteche. C'è una ragione ben più sostanziale da mettere al centro del dibattito: come scriveva la bibliotecaria Eleanor Jo Rodger in un saggio del 2009, le biblioteche sono una irrinunciabile «infrastruttura democratica» e questo è il motivo per cui Andrew Carnegie spese la sua fortuna personale per costruirne ovunque.
Il problema non è se i cittadini ci vadano o no: è che devono avere la possibilità di andarci. Non c'è teoria moderna della democrazia che ammetta un cittadino disinformato e ignorante. Una biblioteca arricchisce il tessuto democratico rendendo possibile ai cittadini di informarsi non nella solitudine di un computer casalingo ma in un confronto con altri cittadini, altri documenti, altri formati. Di questo lavoro incessante le biblioteche sono un luogo necessario. Anche se ci si va soltanto per leggere la Pittsburgh Post Gazette o il Resto del Carlino." (da Antonella Agnoli, Biblioteche: De profundis?, "Il manifesto, 24/04/'11)

mercoledì 20 aprile 2011

The Anatomy of Influence. Literature as a Way of Life


"A ottant'anni, Harold Bloom pubblica un libro di critica letteraria che si presenta come una summa della propria opera, e sceglie come titolo L'anatomia dell' influenza. La letteratura come stile di vita, con riferimento evidente a L' angoscia dell'influenza, uno dei suoi testi più importanti scritto 40 anni fa. Il nuovo libro - in uscita negli Stati Uniti all'inizio di maggio (in Italia lo pubblica Rizzoli in autunno)- ha un tono crepuscolare ed estremamente personale, più vicino a un testo di memorie («mi sono innamorato della poesia di Hart Crane nell' estate del 1940, quando stavo per compiere dieci anni») che ad uno di critica, al punto che lo stesso autore lo definisce il proprio "canto del cigno virtuale". Bloom parla degli autori che ama come se si trattasse di amici personali, anche nel caso di scrittori del passato, perché dalla loro lettura ha tratto un nutrimento esistenziale. A cominciare da Shakespeare e Whitman, le passioni di sempre sono analizzate con un misto di erudizionee giudizi tranchant, cercando di capire qual è il rapporto tra arte ed esistenza, e come la prima possa aiutare a capire il mistero della seconda. Bloom scrive a lungo di Lucrezio e Leopardi, James e Eliot, Dante e Petrarca, Milton e Marlowe, interrogandosi sul perché l'influenza di alcuni scrittori sia superiore a quella di altri, e ribadendo che le influenze letterarie seguono un percorso labirintico. «Ritengo che la critica, per come ho sempre tentato di interpretarla, sia in primo luogo letteraria, e con questo intendo personale e passionale. Non si tratta di filosofia, politica o religione: nei casi più alti è una forma di letteratura sapienziale, e quindi una meditazione sulla vita».
Cosa sarebbe stata la sua vita senza la letteratura? «Sarei morto molto tempo fa, e non voglio che questa appaia come una dichiarazione romantica, ma come qualcosa di molto concreto. Ho superato gli ottant'anni e a cominciare dai sessanta ho avuto una serie di crisi di salute, che si sono accentuate negli ultimi tempi, con un infarto, un'operazione a cuore aperto, una brutta cadutae una misteriosa infezione al ginocchio. Nei lunghi periodi di riabilitazione la mia vera terapia è stata la lettura, in particolare la poesia: l'ho letta, recitata e meditata».
Che valore attribuisce all'insegnamento? «Insegno da 56 anni e non ho alcuna intenzione di smettere. Lo scambio culturale con gli allievi è un altro elemento fondamentale della mia vita».
Il suo nuovo libro si interroga sul perché alcuni autori abbiano su di noi un ruolo maggiore di altri. «Il concetto di influenza è ovviamente legato a quello di amore letterario, temperato dalle difese che cerchiamo di porre razionalmente. Le difese variano da poeta a poeta. Ma la presenza dominante dell'amore è vitale per capire la grande letteratura».
Lei tornaa parlare ancora una volta di Amleto, partendo dal fatto che molti critici sia sono chiesti se considerarlo protestante o cattolico. «Credo che in realtà Amleto abbia ben poco a che fare con lo spirito cristiano. La sua sensibilità è certamente più protestante che cattolica, ma nell'intimo è un ermetico e un nichilista, non privo di atteggiamenti umanisti. Il suo ruolo somiglia a quello del Gesù del Vangelo di Marco che è scettico, e continua a chiedere chi sia, a cercare la propria identità, e i suoi discepoli sembrano non capirlo. Sono caratteristiche che ha anche Amleto, anche nei confronti di chi lo circonda».
Lei cita Gertrude Stein, la quale disse che scriveva "per se stessa e per degli stranieri". «Rielaboro quel concetto dicendo che parlo a me stesso - cosa che la grande poesia ci insegna a fare - e a tutti quei lettori che in solitudine cercano istintivamente la grande letteratura, disdegnando chi divora autori come la Rowling e si affrettaa suicidarsi intellettualmente nel grigio oceano di Internet».
Chi ritiene che siano i grandi scrittori odierni? «Tra i poeti cito John Ashbery, tra i commediografi Toni Kushner, mentre tra i romanzieri Philip Roth, Thomas Pynchon, Don DeLillo e Cormac McCarthy, che forse ha scritto il libro più bello e importante: Meridiano di sangue è quasi al livello di Moby Dick». Chi apprezza della nuova generazione? «Non ce n'è nessuno che mi sembra paragonabile a questi nomi, e non riuscirò mai a capire l'entusiasmo per David Foster Wallace e Jonathan Franzen. Ho finito da poco Freedom e mi sembra Pynchon in versione annacquata».
Nel Ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde concludeva la sua introduzione dicendo che "l'arte è completamente inutile". «Intendeva l'opposto e lo diceva con ironia, forse disperata. Per Wilde l'arte è l'unica cosa che conta, ma quello che gli stava a cuore è che non avesse connotati sociali, morali o religiosi».
Nel libro, racconta un divertente incontro tra Proust e Joyce ... «Si incontrarono una sola volta, invitati da una ereditiera americana che voleva creare un cenacolo, mettendo insieme i più importanti artisti del momento. Insieme a loro c'erano anche Picasso e Stravinsky. Ma l'incontro non andò come sperava la signora: Picasso parlò di donne e la conversazione degli altri toccò principalmente argomenti quali l' insonnia e l' asma. Inoltre Proust non conosceva l'opera di Joyce e quest'ultimo aveva letto solo un capitolo della Recherche su sollecitazione del suo allievo Beckett, ma in seguito gli disse che lo trovava letterariamente piuttosto ordinario».
Lei afferma di dover molto, culturalmente, a Robert Penn Warren, ma scrive che molti dei "suoi amici erano miei nemici". «Robert Penn Warren era un eccellente poeta a scrittore, ed un uomo meraviglioso. La battuta che cito è relativa all'ostilità dell'ambiente anglosassone che io, ebreo, ho trovato nel mondo accademico negli anni Sessanta. Era fortissima l'influenza di Eliot, che era certamente un grande poeta, ma un antisemita».
Riesce ad apprezzare sinceramente un autore in casi del genere? «Certo, e ho fatto di questo principio un cardine del mio insegnamento».
Paul Valery ha scritto che nessuna opera di poesia è mai finita, ma solo abbandonata. «Considero Valery un grandissimo poeta, lo preferisco a Baudelaire e Mallarmé. Credo che abbia avuto su di me un' influenza superiore a quella di Borges. Quello che afferma è una grande verità: ogni autore crea per definire se stesso. E si tratta di una ricerca continua».
Lei afferma che "la poesia occidentale è incurabilmente agonistica". «Omero era in competizione con gli autori del passato, ma dopo di lui tutti sono entrati in competizione con lui: Esiodo, Platone, i tragici. La poesia della Bibbia è agonistica in maniera più sottile, ma rimane aperto il conflitto tra autorità e ispirazione. Dante trionfò su Virgilio e il latino medievale, dando all' Occidente l'unico possibile rivale di Shakespeare, il quale aveva dominato su Marlowe ... È un po' sempre stato così e credo che le cose non cambieranno mai»." (da Antonio Monda, Harold Bloom. Perché non mi piacciono Foster Wallace e Franzen, "La Repubblica", 19/04/'11)

martedì 19 aprile 2011

L'estetica contemporanea


"Sull'estetica - disciplina nata nel Settecento, esplosa nell'Ottocento e infine data per morta, o quasi, col finire del Novecento - si sono scritti parecchi trattati, compendi, storie. Quasi che in quel fiorire di iniziative si sia tentato di elaborare un lutto che consentisse di legittimare la parola fine. E su questo aspetto "terminale" ha insistito Mario Perniola con il suo egregio lavoro di ricognizione dedicato all'estetica contemporanea (La società dei simulacri, numero speciale della rivista Agalma in uscita il 27 aprile): alle sue declinazioni, che sono molteplici e alle sue implicazioni con il tessuto sociale e storico che ne fanno un oggetto meno remoto e specialistico di quanto il lettore non immagini.

È possibile una definizione univoca dell'estetica?
«No. Il progetto estetico, nella sua complessità storica, pretendeva di tenere insieme cose disparate, come il bello, l'arte, la conoscenza sensibile e gli stili di vita che aspirano a qualche forma di eccellenza. Un po' troppo: perciò a un certo punto è implosa. Della bellezza oggi si occupa la cosmetica o l'ecologia. L'arte è un business di lusso che finisce col confondersi con la moda e la pubblicità. Quanto agli stili di vita eccellenti aspirano al divismo o al contrario all'antidivismo».

Lei individua sei momenti con i quali l'estetica si è, nel corso dei secoli, riconosciuta: "vita", "forma", "conoscenza", "azione", "sentire", "cultura". Che tipo di classificazione ha costruito?
«Si tratta di poste in gioco per le quali si sono svolte le battaglie all'interno della cultura occidentale: gli amici della vita (spontaneisti ed effimeri), contro gli amici della forma (che vogliono tramandare qualcosa di valido alle generazioni future); gli amici della conoscenza (che vogliono trovare nell'arte la verità) contro gli amici dell'azione (che pretendono che l'arte cambi l'esistenza). Quanto alle due ultime categorie sono già al di là dell'estetica propriamente detta: i pensatori del sentire sono gli esploratori di esperienze psichiche inusuali o addirittura patologiche. Quanto alla cultura, la questione di fondo è come opporsi all'imbarbarimento della società».

Lei descrive quattro grandi pensatori del sentire: Freud, Heidegger, Wittgenstein, Benjamin. Cosa li tiene assieme?
«Ciò che li accomuna è l'esperienza di un sentire senza soggetto. Per Freud la psiche è sempre pensata come un campo di battaglia in cui si fronteggiano istanze opposte; l'intero pensiero di Heidegger è una critica radicale alla nozione di soggetto; Wittgenstein ci introduce in una dimensione impersonale del sentire: infine le nozioni su cui si focalizza il pensiero di Benjamin sono la morte, la merce e il sesso».

Si può ancora lavorare a un progetto estetico?
«No, penso che gli ultimi che hanno scritto di estetica in grande stile siano stati Lukács e Adorno. Entrambi nemici del populismo e del naturalismo refrattario ad ogni principio selettivo».

Lei ha spesso sostenuto che la vera crisi culturale sopraggiunge con gli anni Sessanta. Perché proprio in quel periodo?
«Il mito del progresso ininterrotto raggiunge negli anni Sessanta il suo apice. Perciò le nuove generazioni che non hanno vissuto gli orrori della Seconda guerra mondiale, sentono di poter fare ancora un grande balzo in avanti e si illudono di poter fare a meno dell'eredità del passato. C'era insieme molta ingenuità e molta malafede in questa pretesa. Gli "eredi" sono profondamente diversi dai "maestri": essi non avranno più seguaci ma fan. Nasce il divismo culturale e si afferma l'inefficacia della cultura».

Eppure sono stati anni culturalmente stimolanti.
«Ma con quali effetti? Da un punto di vista generale, la critica dell'autoritarismo si trasforma nella negazione di ogni tipo di autorevolezza. Il ruolo di educatore prima esercitato dai genitori e dagli insegnanti viene assunto dai mass media e dall'industria culturale. Inizia un processo di delegittimazione della famiglia e della scuola che si protrae fino ad oggi».

È un problema che ha alla base la crescita della cultura di massa e della formazione di un nuovo pubblico.
«Il "pubblico" compare nel Settecento e garantisce ad alcuni autori di vivere dei proventi dei loro libri. Oggi c'è una frammentazione e disgregazione del sapere che rende impossibile una cultura comune condivisa, che non sia quella sportiva o del lotto. Paradossalmente perciò sono più importanti i piccoli circoli, i cui membri sono tenuti insieme da un legame più profondo di quello offerto da Facebook».

Non ritiene che proprio Internet possa giocare ancora un ruolo sia estetico che culturale?
«Penso che Internet consenta un'organizzazione di tutto il sapere completamente diversa da quella teorizzata e realizzata agli inizi dell'Ottocento con la nascita dell'università moderna. È ancora presto per misurarne gli effetti, ma quelle che possono essere anche le novità positive non è detto che abbiano buon esito a causa delle feroce concorrenza e della velocità del cambiamento. Il problema è anche di capire a quale modernità vogliamo riferirci».

A questo proposito lei sostiene che non c'è stata una sola modernità, che Giappone, Cina, Brasile, Islam ne hanno conosciute di diverse. Con quali effetti?
«Di ricchezza e diversità culturali sorprendenti. Penso che non esista una sola forma di modernità, quella euro-americana, ma molte modernità che, a differenza della nostra, come ad esempio il Giappone, non hanno tagliato il loro legame con la tradizione, pur trasformandola profondamente. Il nostro errore è dare per scontato che il nuovo sia per definizione meglio dell'antico».

Che modernità incarna il Giappone le cui tragedie - almeno quelle tecnologiche - sono del tutto simili a quelle occidentali?
«La modernità giapponese nasce da un'approfondita conoscenza dell'Occidente, ispirata dal principio di incorporare le cose buone e rigettare le cose cattive. Un altro aspetto importante è il rifiuto del melting-pot, vale a dire del confondere tutto con tutto. Il Giappone ha un'eccezionale capacità di assimilazione di ciò che è altro e differente: tutta la sua cultura infatti è per un millennio e mezzo importata dalla Cina e nell'ultimo secolo e mezzo dall'Occidente. Tuttavia il criterio fondamentale è la giustapposizione: nessuno deve invadere il campo altrui».

Quello che in loro è giustapposizione in noi è il principio delle autonomie. Non è questo uno dei tratti della nostra modernità?
«Effettivamente occorre ricordare che la modernità occidentale comincia con il metodo: ogni attività o disciplina deve essere eseguita affermando la propria autonomia. Solo così la scienza, la politica, l'economia e anche l'estetica si sono emancipate dalla religione aprendo nuovi orizzonti di conoscenza».

Questi nuovi orizzonti sono quelli che hanno permesso il progresso e la lotta contro la barbarie. Due momenti oggi profondamente in crisi, non trova?
«La caduta del mito del progresso è ormai un fatto. Se poi - cosa che mi pare stia accadendo - viene negata la separazione e l'autonomia dei tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario, cade uno dei principi fondamentali della modernità occidentale e noi finiremo col prendere dall'Oriente proprio l'aspetto peggiore del suo passato: il dispotismo. E l'estetica era nata e si era sviluppata proprio come un baluardo contro la tirannide».

In che senso?
«L'estetica è una medaglia a due facce. Da un lato essa è stata l'arma fondamentale usata dalla classe media per affermare la propria egemonia sociale e culturale nella forma della democrazia politica. I giudizi estetici nascono dalla discussione tra individui liberi: perciò essi sono il modello dei giudizi politici. Nello stesso tempo ha aperto una prospettiva antagonista rispetto all'assolutismo feudale, al capitalismo e al populismo. Nata nel Settecento è un prodotto complesso dell'Illuminismo»." (da Antonio Gnoli, Quel che resta dell'estetica, "La Repubblica", 18/04/'11)

lunedì 18 aprile 2011

Indignarsi non basta adesso impegnatevi


"«A ccontentarsi è pericoloso, la “relativa felicità” e la “relativa soddisfazione” uccidono l’indignazione». Dalla sua casa parigina Stéphane Hessel scandisce le parole lentamente, a quasi 94 anni c’è poco tempo per i malintesi e questo concentrato di virtù novecentesche ci tiene al suo messaggio, al suo Indignatevi!. Nulla di messianico, come qualcuno ha tentato di far credere, un’esortazione piuttosto, che al telefono sintetizza così: «Ho scritto un libro perché avevo la netta sensazione che si stesse camminando nella direzione sbagliata e volevo esortare i giovani a cambiare rotta, a riprendere quella giusta. Riscoprendo i valori della Resistenza che mi hanno formato». Così è nato, alla fine dell’anno scorso, un minuscolo pamphlet - Indignez-vous! - che ha immediatamente scalato le classifiche in Francia spodestando Houellebecq e superando a oggi il milione di copie (in Italia da quando è uscito per i tipi di Add, a febbraio, sono già 50 mila).
Oggi Hessel sarà ospite della Biennale Democrazia, ma nei mesi scorsi la sofisticata intellighenzia francese e italiana l’ha velocemente declassato a feticcio da «gauche caviar». Un giudizio che Hessel valuta «ingeneroso, per un vecchio diplomatico in pensione. Certo, mi rendo conto che è facile dire “indignatevi” ed è meno facile capire come. Ma per il “come” rimando ad esempio a La via di Edgar Morin».
Lui non lo dice ma il giudizio è frettoloso per un altro motivo. Suona riduttivo per un signore con un numero tatuato sul braccio, scampato a ben due campi di concentramento. Hessel, ebreo tedesco naturalizzato francese, si arruolò nella Resistenza accanto a De Gaulle e fu catturato nel 1944 dalla Gestapo. Un’esperienza che gli fa scrivere che «quando qualcosa ci indigna come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo militanti, forti e impegnati». E che gli fa aggiungere, al telefono da Parigi, che «l’impulso di scrivere il libro è stata la sensazione che i valori ereditati dalla Resistenza siano ancora oggi indispensabili». Sono principi calati, dopo la guerra, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che Hessel contribuì nel 1948 a scrivere.
È indubbio insomma che la cosa più affascinante di Indignatevi! sia lui, l’autore, compresa la lunga carriera da ambasciatore. Girovagando per le macerie della guerra, il veterano della Francia libera decise che la vita «restituita» andava impegnata; appena vinse il concorso al ministero degli Esteri, il suo primo incarico fu all’Onu, altro baluardo del Novecento scaturito dall’ecatombe dei totalitarismi e degli egoismi nazionali. Un bisogno di democrazia talmente spasmodico da abbracciare il mondo intero. «Però quell’esperienza, assieme alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, è ancora oggi fondamentale, con i valori che simboleggia. Guardi alle cose che stanno accadendo in Nord Africa e in Medio Oriente, alla sete di democrazia che esprimono quei popoli. Dovremmo chiederci piuttosto quanto siano ancora presenti nelle nostre democrazie. Certo, sono valori vecchi, hanno più di 65 anni ma esprimono i bisogni fondamentali: la libertà di espressione, la libertà di stampa, la sicurezza sociale, il diritto alla pensione, alla scuola e all’educazione. Quanto sono ancora presenti nelle nostre democrazie?».
Una domanda apparentemente retorica ma che spegne un po’ il sorriso. E ne fa venire in mente un’altra, cui Hessel risponde senza esitazione: «Perché da noi i giovani non si ribellano e nei paesi affacciati sul Mediterraneo sì? Perché lì ci sono o c’erano tiranni come Mubarak, Ben Ali e Gheddafi». Tra l’altro, aggiunge, «l’intervento in Libia per cacciare Gheddafi è tra le rare cose che ho apprezzato di Sarkozy. Il neocolonialismo, secondo me, non c’entra». Semplice. E poi, «certo, in Italia avete un presidente del Consiglio che non è molto accettabile ma non è certo un tiranno». Troppo semplice. «E inoltre c’è un problema che riguarda indubbiamente il modo in cui siamo governati. Siamo governati da decenni dalla finanza, da gente che pensa solo ai profitti erodendo diritti e certezze sociali a milioni di persone. L’insoddisfazione è enorme ma siamo ingannati dalla “felicità relativa”». Un concetto che Hessel approfondirà nel suo prossimo libro, Engagezvous! (Impegnatevi!), «in cui spiegherò un po’ più estesamente cosa avevo in mente prima di Indignatevi! Tanto è vero che in realtà l’ho scritto prima».
Quello che Hessel sa bene e che lo rende anche orgoglioso è che la sua lunga storia comincia addirittura prima della nascita. Suo padre, l’ebreo tedesco Franz, aveva ispirato il personaggio di Jules nel romanzo autobiografico di Henri-Pierre Roché Jules et Jim , da cui il celebre film di Truffaut. Sua madre, la scrittrice Helene Grund, ispirò la Kathe del libro, interpretata sullo schermo da Jeanne Moreau. Di lei Hessel amava soprattutto «l’incrollabile convinzione che sia fondamentale spargere la felicità attorno a sé». Stéphane Hessel crebbe in questo clima, nella Parigi delle avanguardie francesi del primo Novecento. Lo stesso Roché, ossia Jim, la terza punta del triangolo, descrisse quel clima così: «Se potessi descrivere fino in fondo un solo momento di questa vita a tre, scriverei un capolavoro immortale». Per il piccolo Stéphane, un esordio niente male." (da Tonia Mastrobuoni, Indignarsi non basta adesso impegnatevi, "La Stampa", 16/04/'11)

venerdì 15 aprile 2011

A cosa serve studiare


"Dove va oggi l´istruzione? Non si tratta di una domanda da poco. Una democrazia si regge o cade grazie al suo popolo e al suo atteggiamento mentale e l´istruzione è ciò che crea quell´atteggiamento mentale. Malgrado ciò, assistiamo a cambiamenti radicali nella pedagogia e nei programmi scolastici, sia nelle scuole che nelle università, cambiamenti sui quali non si è riflettuto a sufficienza.
La maggior parte dei Paesi moderni, ansiosi di crescere economicamente, hanno cominciato a pensare all´istruzione in termini grettamente strumentali, come ad una serie di utili competenze capaci di produrre un vantaggio a breve termine per l´industria. Ciò che nel fermento competitivo è stato perso di vista è il futuro dell´autogoverno democratico.
Come Socrate sapeva molti secoli fa, la democrazia è «un cavallo nobile ma indolente». Per tenerla sveglia occorre un pensiero vigile. Ciò significa che i cittadini devono coltivare la capacità per la quale Socrate diede la vita: quella di criticare la tradizione e l´autorità, di continuare ad analizzare se stessi e gli altri, di non accettare discorsi o proposte senza averli sottoposti al vaglio del proprio ragionamento.
Oggi la ricerca psicologica conferma la diagnosi di Socrate: la gente ha la preoccupante tendenza a sottomettersi all´autorità e alle pressioni sociali. La democrazia non può sopravvivere se non poniamo un limite a questi pericolosi atteggiamenti, coltivando l´attitudine a pensare in modo curioso e critico. Fin dal tempo in cui Socrate esortava gli ateniesi a non «vivere una vita senza indagine», sono soprattutto gli studi umanistici, e in particolare la filosofia, a permettere di coltivare tali capacità.
Coltivare l´argomentazione di Socrate favorisce inoltre un sano rapporto tra i cittadini nel momento in cui essi discutono di importanti questioni all´ordine del giorno. I mezzi di comunicazione moderni amano le frasi lapidarie e la sostituzione di un´autentica discussione con l´invettiva. Ciò crea una cultura politica degradata.
In un corso di filosofia, invece, gli studenti imparano a sviscerare l´argomentazione dell´avversario e a chiedere quali sono gli assunti sui quali essa si basa. Nel fare ciò, spesso gli studenti scoprono che le due parti, in realtà, hanno molto in comune e sorge in loro la curiosità di vedere in cosa realmente essi divergono, anziché considerare la discussione politica semplicemente un mezzo per segnare punti a favore della propria squadra e di umiliare l´avversario. La filosofia contribuisce così a creare uno spazio realmente deliberativo e questo è ciò di cui abbiamo bisogno, se vogliamo risolvere gli enormi problemi che affliggono tutte le democrazie moderne.
Ai cittadini occorre anche la conoscenza della storia, i fondamentali delle principali religioni e del modo in cui funziona l´economia globale. Ancora una volta, gli studi umanistici sono essenziali a questo sforzo di comprensione globale: lo studio della storia del mondo e delle principali religioni, lo studio comparato della cultura e la comprensione di almeno una lingua straniera, sono tutti elementi essenziali nel favorire una sana discussione circa i pressanti problemi del mondo. Inoltre, questo insegnamento storico deve includere un elemento socratico: gli studenti devono imparare a valutare l´evidenza, a pensare da soli sui diversi modo in cui essa può essere collocata e messa in atto nella realtà attuale. Perciò, per realizzare un´idea soddisfacente di cittadinanza globale, abbiamo bisogno anche della filosofia. Infine, i cittadini devono essere in grado di immaginare come appare il mondo agli occhi di coloro che si trovano in una situazione diversa dalla loro. Gli elettori che prendono in esame una proposta che interessa gruppi diversi (razziali, religiosi, ecc.) all´interno della loro società, devono essere in grado di immaginare le conseguenze che tali proposte hanno sulla vita delle persone reali e ciò richiede un´immaginazione coltivata. In che modo si coltiva l´immaginazione? Tutti noi veniamo al mondo muniti di una rudimentale capacità di positional thinking, di pensare dal punto di vista degli altri, ma tale capacità, solitamente, opera in un ambito limitato, nella sfera familiare, e richiede un ampliamento e un perfezionamento intenzionali. Questo significa che abbiamo bisogno della letteratura e dell´arte, attraverso le quali raffiniamo quello che il grande romanziere afro-americano Ralph Ellison definiva il nostro “occhio interiore”, imparare a vedere coloro che sono diversi da noi non soltanto come un minaccioso “altro” ma come esseri umani totalmente eguali, con aspirazioni e obiettivi propri.
Ciononostante, in tutto il mondo, gli studi umanistici, l´arte e persino la storia vengono eliminati per lasciare spazio a competenze che producono profitti, che mirano a vantaggi a breve termine. Quando ciò avviene, le stesse attività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato. Di recente, la Cina e Singapore, Paesi che certamente non hanno a cuore lo stato di salute della democrazia, vedendone l´importanza ai fini dell´innovazione e della creazione di un ambiente di lavoro non corrotto, hanno attuato vaste riforme dell´istruzione, tali da conferire maggiore centralità agli studi umanistici e all´arte, sia nei programmi scolastici che in quelli universitari. Dunque, nel lungo termine, la contrazione dell´istruzione in realtà nuoce al benessere economico.
Anche laddove ciò non accade, gli studi umanistici e l´arte sono essenziali per il genere di governo democratico che le nazioni hanno scelto e per il tipo di società che esse desiderano essere. Dobbiamo opporci con forza ai tagli agli studi umanistici, sia nell´istruzione scolastica che in quella superiore, affermando con fermezza che tali discipline apportano elementi senza i quali le democrazie moderne, come quella ateniese prima di Socrate, sarebbero ancora una volta dominate da una mentalità gregaria e dalla deferenza verso i capi carismatici. Questo sarebbe uno scenario terribile per il nostro futuro." (da Martha C. Nusssbaum, A cosa serve studiare, "La Repubblica", 15/04/'11; trad. di Antonella Cesarini)

Not For Profit: Why Democracy Needs the Humanities