lunedì 28 febbraio 2011

Flora ferroviaria


"Poi dice l'ebook. Eh certo, l'ebook, il libro digitale, i cristalli liquidi, lo schermo retroilluminato ... Arriverà, arriva, lo sappiamo; siamo pronti e, anzi, lo aspettiamo, fiduciosi e certi che sarà bellissimo. Però, ogni tanto, ancora, ecco, ti capita un libro, una meraviglia, piccola così, niente di che, niente di che. Ma ti fa capire perché stiamo ancora bene attaccati a questi parallelepipedi di carta e di emozioni. E non sapremmo davvero come farne a meno. Di questo librino tutto mi piace: questa copertina grigia; e questa fascetta di incerto rosso che la attraversa e la cinge, amorevolmente: una foto di binari che sfilano e un vagone anonimo, laggiù in cima. I caratteri delle pagine e della copertina, eleganti, nitidi, ben stampati; i risguardi, questo sì, rosso vivo; e tutto il progetto grafico, da veri maestri della professione, fatto dallo studio svizzero CCRZ di Balerna. Basta con le descrizioni, insomma, che poi, tanto, non rendono; andate a vedervi il libro, piuttosto sul loro sito.
Ma questo titolo. Sublime. Flora ferroviaria. Con annessi e connessi: Ovvero la rivincita della natura sull'uomo. Osservazioni botaniche sull'area della stazione internazionale di Chiasso 1969 - 1978. Vedi che aveva ragione quell'occhiolungo di Arbasino? Che bisognava andare almeno a Chiasso, a fare la gita? Soprattutto, è stupendo il progetto, l'idea che sta dietro a questo eccentrico libro e quell'ancor più eccentrico personaggio che fu Ernesto Schick(1925-1991), l'autore, illustre 'disegnatore di piante'. Uscito nel 1980 per il Credito Svizzero (copie ora introvabili; chi ce l'ha se lo tiene, anche MareMagnum ve lo dice, e ufficialmente), questo libro è sì il suggestivo 'racconto' di una rivincita ma, al tempo stesso, la cronaca, pagina dopo pagina, di un vero amore. La rivincita, come dice il titolo, è quella delle piante, dei fiori, delle erbe. 'Questo lavoro vuole dimostrare - scrive Schick nella prima pagina - la vitalità della natura in un'area ingrata quale può essere la stazione di smistamento di Chiasso'. E 'quanto siano vere queste osservazioni lo possono testimoniare i lavoratori addetti alle manutenzioni delle strade e delle ferrovie'. Ecco, dunque. I lavori per la costruzione di uno snodo ferroviario, quello di Chiasso, dal 1957 al 1967. Ruspe, cementi, chimica, diserbanti, ferro, metalli, binari, scintille, scambi, fumo. Progresso. Poi, però, c'è il ritorno, dapprima timido, di 'piante pilota', quelle che sfidano la desolazione e, pian piano, preparano il terreno ai fiori più belli, che verranno solo in seguito. Fabio Pusterla, sommo poeta di quelle terre ticinesi, non poteva non restarne affascinato e, oggi, in questa nuova edizione della Flora ferroviaria - notazione scientificamente inconsistente, poeticamente formidabile - chiude con una lirica e un ricordo. 'Non si tratta di nostalgia, niente affatto - scrive Pusterla - è che in quel paesaggio devastato ritroviamo qualcosa di noi, uno strano miscuglio di veleno e di vita'. Sono le ultime, auree, parole del libretto, poi la foto in controcopertina: un lucido binario e due steli, in primo piano, a rubargli la scena. Altroché.
Ernesto Schick era un 'disegnatore di erbe', così lo descrive in una partecipata prefazione (leggetela: quant'è bella!, quant'è forte!) Graziano Papa, già presidente della Lega svizzera per la protezione della natura. E questo suo progetto, questo suo gesto d'amore, non è nient'altro che la classificazione da dilettante esperto, delle piante che hanno ricolonizzato i dintorni dei suoi binari. Nient'altro? Per ogni pianta e fiore un disegno nei minimi particolari, attento, delicato, rispettoso anche delle specie aggressive. Rientra, Schick, in una lunga teoria di amanti del genere botanico, o di curiosità naturalistiche. Genere che torna: tanto per dire, Chronicle Books ha da poco ristampato il fantastico Mr. Marshal's Flower Book, il più bel trattato inglese illustrato sui fiori del XVII se. O guardate la Taschen e la sua monumentale edizione di The Vegetable Garden della Vilmorin. Le illustrazioni di Schick sono, invece, minute, piccine. Accompagnate da notazioni altrettanto rifinite e, di nuovo, amorevoli. Della Circaea: 'Bisogna osservare i fiorellini con una lente, per apprezzarne la schiva, umile bellezza'. Di un orzo selvatico: 'Lo trovai sulla sella di lancio, bistrattato, sporco d'olio'. Di altre piante che 'si sono mosse proprio come gli autostoppisti'.
Il libro è stato ripescato da Simonetta Candolfi e Nicoletta De Carli. A loro il merito di averlo ripubblicato, creando appositamente la nuova casa editrice. Scrivono: 'Questo libro è dedicato ai vecchi lettori, che hanno contribuito a tenerlo vivo, e a quelli nuovi che si lasceranno contagiare dalla poesia delle piante viaggiatrici'. Chi non si commuove a una tal dedica ..., sì, è pronto per l'ebook. Segua, presto, i suoi binari. Noi stiamo ancora un po' su questi. Cogliamo, qui e là, fior da fiore e, se ci va bene, sprazzi di poesia." (da Stefano Salis, C'è vita sui binari e la trovi in pagina, "Il Sole 24 Ore Domenica", 27/02/'11)

Gli irremovibili clandestini della stazione di Chiasso (da InfoInsubria)

Orecchio acerbo


"C'è chi dice che la casa editrice Orecchio acerbo (il nome viene da un verso di Rodari) ideata e diretta da Fausta Orecchio e da Simone Tonucci sia la migliore d'Italia, quanto a progetto grafico e a qualità dei libri ma anche per l'originalità di un'impostazione attualissima che, si potrebbe dire, sta a cavallo tra libri per ragazzi e libri d'arte. In essi testo e immagini riescono sempre a fondersi perfettamente grazie all'intelligente scelta dell'abbinamento di scrittore e illustratore e all'interesse dei temi affrontati. La critica avanzata da alcuni "esperti" dell'editoria per l'infanzia e la pubertà è che spesso questi libri sembrano parlar meglio agli adulti, che la loro bellezza li rende preziosi come oggetti ma poco adatti ai ragazzi; si tratta però di critiche da invidia più che di constatazioni convincenti: primo, perché non si capisce perché ai ragazzi si debbano dare libri sciatti sotto ogni riguardo e non libri belli in ogni senso, e: secondo, perché i libri belli lo sono quasi sempre per più età. Pinocchio, L'isola del tesoro o Huckleberry Finn sono soltanto libri per ragazzi?
Un merito di questa casa editrice sta proprio, nell'attenzione alla grafica, e alla perfezione della messa in pagina e della stampa, nell'esplorazione del mondo dei creatori odierni di immagini, fumettisti e illustratori di talento di più nazioni ma principalmente italiani, e sia già noti che esordienti o quasi. Ora, forte delle affermazioni raggiunte, Fausta Orecchio ha iniziato a esplorare una nuova zona d'intervento, quella del libro per la prima infanzia, per i bambini che cominciano a leggere, o sanno leggere da poco, e ovviamente per gli adulti che amano dedicare tempo e attenzione ai loro bambini o ai bambini altrui, trovando piacere dal dovere e viceversa.
I libri "Toon" di Orecchio acerbo sono albi in formato 23 per 16 che vengono a coprire un spazio lasciato spesso a prodotti superficiali, poco pensati e poco inventivi, poco stimolanti per il pubblico cui si rivolgono. Ma si sa, il mercato delle cose per l'infanzia è molto florido, e non trascura nessuna occasione di rapido guadagno. (Un'eccezione in Italia è certamente stata la serie della Pimpa di Altan, creata per sua figlia e proseguita per sua nipote.) I primi due "Toon" sono Topo Lino si prepara di Jeff Smith, testo e illustrazioni per i più piccini, che narra l'impresa di un topolino che "si prepara" per seguire mamma e fratelli in un granaio, vestendosi con molta fatica ma salvo poi scoprire che i topi non hanno bisogno di vestiti (l'autore pensa alla fatica dei bambini per imparare a mettersi le scarpe o ad abbottonarsi i pantaloni eccetera) e Jack e la scatola di Art Spiegelman, quello di Maus, su un bambino cui i genitori regalano una scatola che contiene un misirizzi buontempone, buffo bizzarro provocatorio, e soprattutto sempre allegro.
Le immagini di Smith sono più nette e chiare, quelle di Spiegelman più complesse e varie, per parlare a bambini già un po' più grandicelli. E più grandi ancora (sette-otto anni, direi) sono i bambini cui ha pensato Joann Sfar, già autore della bellissima serie "adulta" del Gatto del rabbino che ha trionfato in Francia e altrove. Con Il signor Coccodrillo ha molta fame, il formato si fa da orizzontale verticale e il testo è di complemento adeguato alla disordinata vivacità delle immagini, nervose e scattanti. Vi si narra di un coccodrillo stanco della giungla, dove gli è sempre più difficile nutrirsi, che si trasferisce in città e vi conosce una ragazzina con la quale intreccia un dialogo esemplare, in cui i due si educano a vicenda prima che intervengano nell'azione dei simpatici galeotti e una giovane alcolica, ma è piuttosto lui a erudire la bambina sulla realtà dell'esistenza e la sua nascosta brutalità: "La sola differenza tra la mia giungla e il tuo supermercato è che qui pagate della gente per ammazzare al posto vostro."
Utopia darwiniana (o memento) quella di Sfar, che parte dalla constatazione che la vita è violenza e "l'umano" c'è dentro fino al collo.
Come si vede, non si tirano indietro di fronte ai problemi di una contemporaneità disastrata né Joann Sfar né Fausta Orecchio. La quale, pronta a proporre libri ai "grandi" del nostro fumetto e della nostra illustrazione, li invita però a misurarsi con il pubblico dei bambini, e cioè ad assumersi una responsabilità anche "pedagogica". Ha scritto, per presentare la nuova collana, che "scrivere e disegnare per i bambini vuol dire assumersi una responsabilità e al tempo stesso scoprirsi, con umiltà e autenticità. Lasciare da parte la vanità, la ‘bella scrittura' e il ‘bel disegno' fini a se stessi, a cui i più piccoli non sono affatto interessati." E cita Singer, grande anche come autore di libri per l'infanzia, che saggiamente constatava: "I bambini leggono i libri, non le recensioni. Non gliene importa un fico secco dei critici. Quando un libro è noioso, sbadigliano apertamente senza vergogna o paura dell'autorità." (da Goffredo Fofi, Orecchio fino per vignette d'arte, "Il Sole 24 Ore Domenica", 27/02/'11)

sabato 26 febbraio 2011

Diario di lettura: Vittorino Andreoli


"Il primo in Italia a spiegare al grande pubblico i misteri della psiche: ogni anno pubblica due libri, uno di saggistica (l’ultimo sul denaro), l’altro di narrativa
«Si accomodi in quella poltroncina, vuole? È lì che si sono seduti tutti. In quel periodo, dopo il 1992, questo studio tranquillo, in un’appartata città di provincia, pareva più protetto. Arrivavano da Roma per curarsi: avevano visto disgregarsi un mondoGli incontri fra psichiatra e paziente sono sempre costellati di silenzi, ma con i miei malati di Tangentopoli questi smarrimenti erano ancora più lunghi e angosciosi. Per questo ho piazzato un piccolo quadro sulla parete, questo con la maschera nera di Carnevale: era lì che si andava a posare il loro sguardo nei momenti di imbarazzo».
Lo studio del professor Vittorino Andreoli, in un bel palazzo veronese di pietra non lontano dall’Adige, ha visto queste e milioni di altre cose. Psichiatra tra i più insigni in Italia, educato nella sua città ma innamorato della Scozia («Stevenson, i fari, la nascita della psicologia infantile!»), e con una lunghissima esperienza accademica tra Gran Bretagna e Stati Uniti, Andreoli è anche un divulgatore appassionato: il primo, da noi, a spiegare al grande pubblico i misteri della psiche. Autore generosissimo, pubblica al ritmo di due libri l’anno: che uno dei due debba essere un saggio e l’altro un’opera di narrativa è un impegno contrattuale e anche, come vedremo, un motivo di risentimento. Dopo aver analizzato i disagi familiari degli italiani, i grandi delitti, droga e sofferenze degli adolescenti, ha appena pubblicato con Rizzoli, Il denaro in testa - questa volta toccava al saggio -, tutto incentrato sui soldi.
Non si può dire che lei non sia sull’attualità, professore, in quest’Italia di ricatti dove pare che tutti abbiano un prezzo ... «Certo gli sviluppi sono andati oltre l’immaginabile, però il libro era nato da un mio fastidio incontrollato contro lo strapotere dell’economia e della finanza. Non è possibile che una disciplina finisca per mangiarsi tutto il resto, e che ci si riduca a dipendere esclusivamente da quello che si perde o si guadagna. Ero stufo di veder vanificate le arzigogolate raffinatezze della psicoanalisi da un crollo in Borsa: lo so, nelle favelas brasiliane Freud non serve a nulla, ma che noi psichiatri finissimo per essere ridicolizzati ... I miei colleghi di Parma, all’epoca dello scandalo Tanzi, mi raccontavano che i pazienti arrivavano la mattina e invece di portare il solito sogno della notte scoppiavano a piangere: “Dottore ho perso tutto, dottore non posso più pagarla ... ”Ecco: all’inizio del libro mi chiedo se il denaro ha legittimità di entrare in psichiatria. Dimostro che è così e ne analizzo le varie declinazioni: il modo in cui si fa malattia, come crea infelicità, dipendenza. E’ diventato la misura di tutte le cose. Quando, per citare Protagora, la misura di tutte le cose dovrebbe essere l’uomo».
C’è un autore che, qui, lei cita in modo appassionato e pertinente, ed è Aldous Huxley. Ha fatto parte delle sue letture di formazione? «Ah sì, nel libro rammento gli Alfa-Plus del Mondo nuovo. Huxley è stato un incontro importante della mia giovinezza: fra l’altro era fratello del biologo, e io nasco da studi di quel tipo. In quegli anni cominciava ad affacciarsi l’idea che l’uomo potesse essere reso felice addirittura attraverso un condizionamento in provetta. E non era fiction, badi, ma un’ipotesi scientifica ...».
Quali altri scrittori hanno contato per lei, soprattutto all’inizio? «Il primo che mi viene in mente è Pirandello. Grandissimo psicologo, anche se non ha mai avuto un rapporto diretto con l’analisi. Ha tentato il suicidio, lo sa? La sua vita era tormentata da una moglie pazza, affetta da un grande delirio di gelosia. Uno, nessuno e centomila è una lettura d’obbligo per chi si voglia occupare di sofferenza psichica. Ma tutta la letteratura è una mia passione. Purtroppo legata a un dramma».
Nientemeno? «Ma sì, io sono una vittima della differenziazione forzata tra fiction e saggistica. Vede, ho sempre scritto le storie dei miei matti, fin da quando avevo 22 anni, facevo pratica nel manicomio di San Giacomo della Tomba qui a Verona e mi portavo un grande schizofrenico, Carlo Zinelli, a casa nel fine settimana. Quando mia madre certo avrebbe preferito una ragazza, magari bruttina ... La cartella clinica di questo Zinelli era così gelida e impersonale da farmi spavento: “Assume farmaci, non si nutre, accusa male al ventre ...”. Ma era un essere umano, quello? Non dimentichi che, all’epoca, ci si chiedeva se gli schizofrenici vedessero in bianco e nero o a colori, e neanche si metteva in conto che avessero senso morale e senso estetico ... Dunque, io frequentavo quelli che erano considerati “quasi uomini” e i casi li trasferivo su carta in modo narrativo. Erano anche i tempi del conflitto fra le due culture, ha presente il libro di Charles Snow? Mio padre, il mio eroe, mi sgridava: “Vittorino, ma sei matto? Se sei uno scienziato mica puoi scrivere quella roba!”. Per anni ho tenuto una cassaforte piena di manoscritti segreti».
E quando ha iniziato a pubblicare, da dove ha cominciato? «Gli editori volevano saggi, saggi, saggi! Prima Mondadori, per cui lavoravo a una collana straordinaria, la Est. Poi Valentino Bompiani, con cui intrattenevo rapporti molto amichevoli, e che credevo volesse pubblicare i miei romanzi. E invece no: “Andreoli, io le ho steso un tappeto rosso, ma sa che cosa voglio da lei ...”. Ora sono, da tanti anni, con Rizzoli, ho un ottimo rapporto con Paolo Zaninoni, ma un contratto che mi obbliga a un saggio all’anno. Quando, glielo confesso, io ai saggi dedico il 20% delle mie energie. L’altro 80 è per le storie ...».
Due libri l’anno, oltre al mestiere di psichiatra. Come fa a onorare un impegno così pressante? «Scrivere non mi diverte, è una fatica terribile. Ho le mie liturgie, i miei tempi, le penne giuste, una lunga meditazione sulla costruzione, il titolo di lavoro, l’indice. E per lavorare mi chiudo in un posto dimenticato da tutti, nel Nord della Scozia, in un monastero sull’Atlantico. Niente cellulari, niente tivù, niente scocciatori. Il fornaio è a tre miglia di distanza».
Avrà letture che la sostengono nei momenti di sollievo. «Non sono il tipo che legge per distrarsi. I miei libri sono sempre finalizzati a un progetto: sottolineati e con i foglietti fra le pagine. Resto, anche quando leggo, lo psichiatra dei casi estremi, cerco i miei matti anche lì: amo Dostoevskij, che era pazzo, epilettico, gran giocatore d’azzardo. E Strindberg, e Pirandello. Ma prima di tutto c’è la tragedia greca, soprattutto Euripide, soprattutto Medea».
Quanto alla poesia ... « ... se mi lascia fare, le declamo Ungaretti: “L’uomo attaccato nel vuoto / al suo filo di ragno”: c’è qualcosa di più straziante? Oppure Cardarelli, I gabbiani: “Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro in perpetuo volo. La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch’essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca”. Così vivo io: in burrasca. Con tutta la sofferenza psichica che c’è al mondo, difficile fare altrimenti»." (da Egle Santolini, Evviva i matti come Dostoevskij, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/02/'11)

L'Italia delle biblioteche


L'Italia delle biblioteche
"Si può parlare di biblioteche in occasione del centocinquantesimo compleanno dell'Italia, cercando di tenere insieme una riflessione storica e uno sguardo rivolto al futuro? Difficile farlo senza far riferimento alle condizioni culturali in cui si compì il processo di unificazione nazionale. Nel 1866 Pasquale Villari invitò a prendere atto che c'era «nel seno della Nazione un nemico più potente dell'Austria, la nostra colossale ignoranza». Tre italiani su quattro erano analfabeti e bisognerà aspettare il nuovo secolo per avere un'esigua maggioranza di cittadini capaci di leggere e scrivere: solo nel 1901 la percentuale degli analfabeti scese al 48,5%.
Storia della lettura e storia della «pubblica lettura», cioè dell'organizzazione bibliotecaria nazionale, sono profondamente connesse ed è evidente che in quel contesto le biblioteche erano destinate a un ruolo marginale. Sulla realtà italiana, specie a confronto dell'Europa centro-settentrionale, incidono anche altri fattori di ordine storico-culturale di più lontana origine, come la consuetudine con la lettura della Bibbia tra i protestanti (i paesi scandinavi, la Germania, l'Inghilterra hanno sconfitto prestissimo l'analfabetismo). Non è questa la sede per ricordare quanto Riforma e Controriforma abbiano inciso sui destini della cultura europea, ma dobbiamo dire che in Italia non si è fatto molto per modificare lo stato delle cose. Alle debolezze e alle difficoltà di partenza si sono aggiunti nel tempo il disinteresse e l'insipienza dei decisori politici, incapaci di realizzare una rete di infrastrutture culturali che potesse far crescere unitariamente e armonicamente l'Italia e gli italiani.
L'eredità pre-unitaria era formata, prima della breccia di Porta Pia, da 210 biblioteche, di cui 164 aperte al pubblico, distribuite in 45 città (senza considerare Roma). Da lì prese le mosse l'edificazione del sistema bibliotecario del nuovo Regno. E fu in quegli anni che si consumò un grossolano equivoco: le biblioteche civiche territoriali, solitamente destinate all'intera comunità locale, in molti casi nacquero proprio allora per effetto della confisca dei beni ecclesiastici. La decisione di affidare questi "beni nazionali" ai Comuni servì più a garantirne la custodia che a realizzare un tessuto di servizi pubblici per i cittadini. Si trattava infatti di collezioni librarie nate per altri scopi e rivolte ad altri destinatari, per cui la loro utilizzabilità in funzione dell'alfabetizzazione e della promozione della lettura fu pressoché nulla. Si definì in quegli anni l'identità delle biblioteche italiane, fortemente orientate alla conservazione.
Totalmente diversa l'origine della public library anglosassone, fondata sul sistema del self-government britannico e concepita per il proletariato urbano nato dalla rivoluzione industriale. Questi istituti, fortemente impegnati nel campo dell'educazione permanente, mettevano al primo posto non la tutela del patrimonio ma la capacità di erogare servizi. A questo obiettivo puntarono le biblioteche popolari, che cominciarono a diffondersi in Italia nella seconda metà dell'Ottocento per iniziativa di organizzazioni filantropiche di ispirazione religiosa o politico-sindacale, non raggiungendo mai però un forte radicamento nella collettività.
Senza proseguire oltre in questa analisi storica, possiamo prendere atto dell'assoluta marginalità delle biblioteche, di tutte le tipologie di biblioteche, che oggi ammontano sulla carta a oltre 16.000 (di cui 46 appartenenti al ministero dei Beni Culturali, 6700 agli enti locali, 2500 universitarie), frequentate secondo i dati Istat solo dall'11% degli italiani.
Permangono fortissimi squilibri territoriali: il 40% delle librerie e il 50% delle biblioteche operano nelle regioni settentrionali e meno del 30% al Sud e nelle isole.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: l'Italia della lettura è attraversata da profonde disuguaglianze territoriali, per genere, età, condizione socio-economica.
Nel 2010 circa venti punti percentuali distanziano il Sud (35% di lettori sulla popolazione) dal Nord (54%) e viene quasi da pensare che non si stia parlando della stessa nazione: il dato delle regioni settentrionali è simile a quello di Germania, Regno Unito o Francia, mentre la percentuale del Sud è grosso modo la stessa di Portogallo, Malta e Bulgaria.
Anche le caratteristiche e le dimensioni del luogo di residenza incidono molto: chi vive nelle grandi aree urbane legge di più. Questo dato non deve sorprendere, perché sono tantissimi i comuni, anche di media grandezza, privi di librerie e di biblioteche, in cui un cittadino non ha l'opportunità di incontrare un libro sul proprio cammino.
Sensibile anche la differenza tra i due sessi. Il dato medio del 46,8% di italiani che lo scorso anno ha letto almeno un libro nasce da una percentuale del 40 tra i maschi e del 53 tra le femmine. Fino al 1973 gli uomini leggevano più delle donne, ma da quel momento in poi, per effetto della maggiore scolarizzazione, la lettura è diventata un'attività prevalentemente femminile, e ora in tutte le fasce d'età le donne leggono più degli uomini.
La situazione andrebbe fronteggiata con un potenziamento della rete dei servizi. E invece tutte le biblioteche italiane sono in una crisi profonda, acuita negli ultimi anni da drastici tagli ai bilanci. Quelle messe peggio di tutte sono le biblioteche statali. Si pensi che la Nazionale di Roma ha un budget di 1,5 milioni e quella di Firenze, il maggiore istituto bibliotecario del Paese, dispone solo di 2 milioni annui, mentre quella di Parigi ha un bilancio di 254 milioni, Londra di 160 milioni, Madrid di 52 milioni. E per il 2011 il ministero dei Beni Culturali annuncia tagli del 50%. Di questo passo si va dritti dritti verso la chiusura.
Per guardare con fiducia al futuro occorrerebbe finalmente una politica bibliotecaria nazionale, nella consapevolezza che non si sta parlando solo di biblioteche, di libri e di lettori, ma di una funzione formativa essenziale nella società contemporanea, con ricadute importanti sulle potenzialità di crescita economica e sulla vita sociale della comunità nazionale. A causa di una scarsa consuetudine con la parola scritta, il 70% degli italiani non sa comprendere un semplice testo, compilare un modulo, seguire le istruzioni per l'uso di un elettrodomestico. All'arretratezza che caratterizza il nostro Paese sul terreno della lettura si aggiunge ora quella relativa alla diffusione della rete a banda larga e alla presenza di Internet nelle case, col rischio di ritrovarci con una palla al piede simile a quella che centocinquanta anni fa era rappresentata dall’analfabetismo.
Da tempo il tema della information literacy si è imposto all'attenzione degli educatori e dei bibliotecari di tutto il mondo, che stanno reinterpretando in questo
modo la funzione di promozione culturale esercitata dalle biblioteche, volta alla crescita individuale e collettiva delle persone, garantendone i diritti di cittadinanza in unasocietà realmente inclusiva. In questa nuova frontiera dell'alfabetizzazione possiamo individuare forse il principale compito delle biblioteche italiane nella società dell'informazione." (Giovanni Solimine, Ma l’Italia non va in biblioteca, "La Stampa", "TuttoLibri", 26/02/'11)

L'Italia che legge di Giovanni Solimine (Laterza)

venerdì 25 febbraio 2011

Alberto Savinio, la commedia dell'arte


"Le investigazioni metafisiche di Savinio evocano la Grecia antica, recuperano eleganze rinascimentali, si appropriano di fastosità barocche. E, insieme, offrono sorprendenti aperture in direzione della contemporaneità: addirittura si potrebbero scorgere relazioni – indirette, involontarie – con il mondo dei cartoon. Si tratta di un’affinità su cui la storiografia non si è mai soffermata. Per un attimo, dimentichiamo il complesso ordito culturale sotteso all’iconografia saviniana. E guardiamo ingenuamente la madre-gallina o struzzo, il padre-giraffa, Egeo-dromedario, Ruggero-gallo, Psiche-pellicano, i centauri, poltromamma e poltrobabbo. Sono evidenti le assonanze con gli eroi che riempiono la galleria creata dal più straordinario favolista del XX secolo, Walt Disney.
Una mera illazione? Rileggiamo un articolo uscito su La Stampa il 25 luglio 1934, in cui Savinio riconosce la vetta del surrealismo umanistico in Topolino. Un eroe minore che, rapidamente, è penetrato «nei costumi del cinematografo, o come dire nei costumi del popolo»: mentre si svolgono sullo schermo, le sue gesta suscitano negli spettatori reazioni di compiacimento. Mickey Mouse non è solo divertissment. Incarna una «forma di surrealismo volgarizzato, un surrealismo alla portata di tutti, un surrealismo per piccole borse», scrive Savinio, anticipando un rilievo di Dalí, il quale, in una lettera a Breton, confesserà non senza enfasi: «Sono venuto a Hollywood e ho incontrato tre grandi surrealisti americani: i fratelli Marx, Cecil B DeMille e Walt Disney». Topolino, secondo Savinio, «risveglia e rende plastico l’animismo degli oggetti», trasformando le «abituali finalità della vita». Con disinvoltura, ci fa capire che ogni cosa può essere se stessa e altro. «Addomestica gli abissi marini e quelli celesti, ravvicina i pianeti, riduce i misteri a proporzioni non solo umane, ma infantili». Sa sbaragliare «la tenebra generatrice di terrore e di superstizione», dimostrando che tra poesia e caricatura il passo è breve.
Battagliero, scapigliato, oltraggioso, elastico, trasposizione autobiografica di Disney: ecco Mickey Mouse. Quasi un Mercurio della modernità: anch’egli agile, anarchico, dinamico, vagabondo, irriducibile, proteiforme, energetico. Savinio ne fa un elogio, ricorrendo a parole che potrebbero ricordare quelle di Walter Benjamin, il quale, in un breve saggio del 1931, enuncia l’estetica di Topolino. Il suo percorso non è una corsa, ma un labirinto tortuoso, «come una pratica burocratica dentro un ufficio». Riesce a infrangere «’intera gerarchia delle creature basata sulla supremazia dell’essere umano», diventando metafora per «ritrarre, smascherare e rendere possibile la critica all’ideologia della borghesia». Vive avventure, prendendosi gioco della civiltà della tecnica e della cultura. In che modo? Ridendo. Mette sottosopra la realtà. L’esito più sorprendente è che «tutte queste meraviglie, senza trucco alcuno e del tutto improvvisate, saltano fuori dal corpo di Topolino, dei suoi compagni e dei suoi persecutori». Siamo al centro di una narrazione priva di drammaticità, che «dirige quasi ritmicamente gli spettatori di una sala intera». Grazie a Mickey Mouse, possiamo «imparare a conoscere la paura».
La posizione di Savinio rispetto ai cartoon è piuttosto ambigua. Basta soffermarsi su una recensione del 1947 dedicata a Fantasia. Disney? Eccessivo. Non ha il senso della misura. È del tutto privo del «principio della sobrietà». Il suo cinema è come «un pasto composto unicamente di caramelle saccarinate»: un «misto di volgarità, stupidità, scemenza, amoralismo», annegato in un «cromatismo iridescente» che rinvia a metropoli luminosissime come New York e Los Angeles. È «l’esteta più plateale del nostro tempo»: le sue sono solo cartoline illustrate.
Sorretto dalla sua grecità, Savinio è cauto nei confronti dei cartoni animati. Ma dimostra di conoscere bene la filosofia disneyana. Ne riesce a cogliere anche aspetti poco esplorati: la carica sottilmente surrealista. In pittura, egli compie un’operazione molto vicina a quella portata avanti da Disney negli stessi anni. Tra il 1926 e il ‘27, ad esempio, recupera immagini fotografiche sbiadite dal tempo, e le ingrandisce: introduce nella fonte acquisita modifiche cromatiche, con effetti da cartelloni pubblicitari. Talvolta, preleva riproduzioni già-fatte, per realizzare collages dipinti. Contamina alto e basso: pittura e stampa popolare, riuscendo a destabilizzare i sistemi percettivi e comunicativi. In questo modo, arriva addirittura ad anticipare procedimenti che saranno sperimentati, negli anni settanta, da un artista pop come Roy Lichtenstein, celebre per le sue riscritture dalle strips.
Pur lontani per sensibilità, formazione, attitudini, cultura e intenti, Savinio e Disney sono accomunati dal bisogno di elaborare atmosfere favolistiche. Ecco cosa aveva scritto l’autore di Hermaphrodito: «L’arte porta il ricordo in sé del paradiso perduto ma insieme porta la promessa del paradiso ritrovato». Ed ecco in che maniera un regista sofisticato come Ėjzenštejn spiega la filosofia del creatore hollywoodiano: «La poetica di Disney [è] il "Paradiso Ritrovato". Proprio il Paradiso. Che non si realizza sulla terra. Concretizzato soltanto dal disegno. Non è l’assurdità del contrasto tra le concezioni infantili di un tipo vagante e la realtà degli adulti, ma l’effetto comico generato dalla loro incompatibilità. E la tristezza di sapere che l’infanzia per l’uomo, l’età dell’oro per l’umanità, sono perdute per sempre [...]. Disney [...] rappresenta il ritorno completo al mondo della libertà totale [...], un mondo liberato dalla necessità».
Ėjzenštejn si dice entusiasta dinanzi a film che propongono rivolte «contro lo smembramento e la legalizzazione, contro la lividezza e il grigiore». L’arte di Disney è magnifica, allegra: «scintilla di forme ricercate e brilla di una purezza accecante». È consacrata alla metamorfosi, alla trasmutazione. «I personaggi passano uno nell’altro»: un po’ animali, un po’ uomini. Metafore plastiche: «forma arricchita, primitiva [...] dell’interazione dei contrari». Una maniera per addentrarsi nelle corde più segrete del cuore." (da Vincenzo Trione, Mickey Mouse: surrealismo e ironia di un Mercurio dei tempi moderni, "Corriere della Sera", 25/02/'11)

Alberto Savinio, la commedia dell'arte (Palazzo Reale, Milano)

Milano, il suo amore della maturità ("Corriere della Sera")

Un visionario a Milano ("La Repubblica")

A Palazzo Reale di Milano va in scena il gran teatro dell'arte saviniana (da "Il Sole 24 Ore Domenica")

I disegni spiegano più delle parole


"A due minuti a piedi dai negozi colorati del Canal Saint-Martin, davanti alla Gare de l’Est, c’è un ex convento che il Comune di Parigi ha trasformato in residence per artisti, ricercatori, intellettuali. Manuele Fior vive qui, «grazie alla domanda presentata dal mio editore» spiega. Dal monolocale con soppalco si vede una Parigi alla moda e bohémien al punto giusto. Romantica, come lo spazio al di qua della finestra. In un angolo la chitarra, la libreria Billy e lo stereo che ora suona canzoni dei Diaframma e di Rufus Wainwright, proprio accanto al tavolo da disegno. Attaccati al muro, dei post-it disegnati durante una cena tra amici e le foto di Manuele con la fidanzata francese Anne-Lise scattate nelle macchinette del metrò. È una casa piena di grazia, dove Manuele crea fumetti che hanno appena ricevuto il più importante premio d’Europa, il «fauve d’or» del Festival internazionale di Angoulême.
Cinquemila chilometri al secondo, edito in Italia da Coconino Press, è la storia di un amore che non finisce ma neanche riesce a ricominciare, il racconto dei sentimenti incrociati dei grandi amici Piero e Nicola per Lucia, tra l’Italia, la Norvegia e l’Egitto. «Un graphic novel dove i disegni sono importanti quanto la trama - dice Fior -. Anzi, sono gli acquerelli spesso a condurre il gioco. Ogni fumettista ha un suo modo di procedere, io non scrivo mai per prima la sceneggiatura per poi illustrarla. Ho un’idea degli snodi fondamentali della storia, ma poi lascio che siano le tavole a imporre il ritmo. Certi disegni, certe espressioni dei personaggi finiscono per essere determinanti, spiegano più di molte parole. I fumetti non sono un romanzo illustrato, come diceva Hugo Pratt».
Il graphic novel come forma d’arte è stato fatto conoscere a un pubblico più vasto dal capolavoro Blankets dell’americano Craig Thompson, trentacinquenne come Fior. «Blankets ha fatto capire che l’unione di disegni e parole poteva raccontare una storia compiuta, come un film o un romanzo, ma in modo diverso. È un’altra cosa rispetto ai fumetti seriali che di solito sono di genere, polizieschi o di fantascienza ... Il fumetto autoriale può parlare di tutto, di qualsiasi aspetto della realtà, anche delle vite delle persone. Dylan Dog, Tex, Diabolik vanno benissimo, ma con i fumetti si può fare anche altro».
Manuele Fior, nato a Cesena da una famiglia friulana, padre pilota dell’aereonautica militare e madre insegnante, ha cominciato a disegnare da bambino. «Come capita a molti fumettisti è una passione che comincia presto. Disegnando Goldrake, per esempio. Ho sempre desiderato fare questo mestiere, ma naturalmente i miei premevano per un’istruzione tradizionale. Mi sono laureato in architettura a Venezia facendo un soggiorno Erasmus a Berlino, dove mi sono trasferito finita l’università. Da allora in Italia non sono più tornato».
Esiste una «generazione Erasmus»? «Sì, alla fine l’Erasmus cambia - o rovina (dice ridendo) - le vite. Si prende gusto a imparare lingue straniere mai studiate prima, a conoscere persone interessanti. Credo che ormai si sia formata una specie di strato sociale a parte, una comunità di nuovi europei che sono andati a studiare all’estero e sono stati marchiati da quell’esperienza. In Cinquemila chilometri al secondo si affaccia anche il rovescio della medaglia, il fatto di sentirsi un po’ nomadi, senza una vera appartenenza. Un po’ di identità va perduta e certe volte fa male, è il prezzo che si paga per la libertà».
Dopo Berlino, dove ha trovato subito lavoro come architetto, Manuele si è trasferito in Norvegia per stare vicino alla fidanzata di allora. Nel racconto grafico la Norvegia è il luogo dove Lucia si trasferisce dopo la fine dell’amore con Piero, che invece va in Egitto, ad Assuan, a fare l’archeologo. «Ci ho vissuto anche io - racconta Manuele - a Berlino conobbi un ricercatore che lavorava lì e gli ho chiesto di portarmi con sé, avrei pure lavato i pavimenti. Invece mi misi a fare i disegni degli scavi archeologici». Cinquemila chilometri è più o meno la distanza tra Assuan e la Norvegia e un secondo è il tempo che ci vuole - nella telefonata tra Lucia e Piero - perché la voce dell’uno arrivi all’altro. «Ma a parte i luoghi la storia non è autobiografica, preferisco personaggi inventati perché sono più libero di maltrattarli come mi pare».
Finita la relazione con la ragazza norvegese, Fior sceglie la Francia, perché il suo amico Alessandro Tota gli offre di ospitarlo per qualche tempo e perché in fondo Parigi (con Bruxelles) è il cuore del fumetto europeo. «Mi sono sentito subito a casa, un certo calore latino mi mancava. La Francia mi sembra un’Italia che funziona. Vivo qui da tre anni, c’è una comunità di disegnatori italiani piuttosto solida. Dopo la generazione di Lorenzo Mattotti, Tanino Liberatore e Igort, sono passati da Parigi o vivono ancora qui Gipi, che vinse Angoulême nel 2006, Alessandro Tota, Luigi Critone, Francesco Cattani, Piero Macola».
Che differenze ci sono con i fumettisti francesi? «Loro sono dei maestri a livello tecnico, c’è una lunga tradizione e un’editoria molto forte, basta vedere gli scaffali dedicati alle bandes dessinées in ogni libreria. Se vendere cinquemila copie in Italia è un grande successo, in Francia quella cifra di solito è il punto di partenza, la tiratura di una prima edizione. Però, secondo me, gli autori italiani sono un po’ più coraggiosi, più originali».
Seduti vicino all’angolo cottura, con un bicchiere di vino rosso di Borgogna, Fior parla della musica che lo influenza. «Mi piacciono molto le canzoni di Federico Fiumani, la semplicità delle storie che racconta mantenendo però un grande calore umano, del tutto fuori moda. Una, Elena, l’ho scelta come epigrafe di Cinquemila: "Incrociando rotaie, seduto su vagoni deserti / ho guardato il presente solcare il passato / fermandomi al vetro. E il tuo volto ha il colore / di un’estate fantasma / che hai lasciato senza fretta cadere / come un vestito ..."».
In questo periodo invece la musica nell’ex convento è classica contemporanea, Luigi Nono, György Ligeti, Krzysztof Penderecki. «Ligeti in particolare evoca paesaggi, basta chiudere gli occhi e si vedono i suoi mondi. È una musica molto visuale, non è un caso che Stanley Kubrick l’abbia usata per 2001 Odissea nello spazio. Mi piace ascoltarla mentre penso al nuovo fumetto, anche se poi devo spegnere perché non riesco a disegnare contemporaneamente». Sul tavolo ci sono appunto gli schizzi del prossimo libro, «una storia ambientata nell’Italia del 2050. Un po’ di fantascienza di anticipazione: racconto come una famiglia qualunque reagisce alla notizia che una civiltà extraterrestre ha cercato di contattare invano la nostra. Non ci sono astronavi, sono incuriosito dalla dimensione intima della storia. Come Steven Spielberg in Incontri ravvicinati del terzo tipo, che parla sì del contatto con gli alieni visto però con gli occhi di una famiglia che esplode. È il senso del sublime: una scena piccola di fronte a uno scenario immenso. Uso la fantascienza come una macchina da presa molto lontana, per parlare del quotidiano con più distacco».
Dopo i gialli, gli ocra, i blu e i viola di Cinquemila, il nuovo romanzo sarà in bianco e nero, «come le fotografie di Cindy Sherman».
Vincere il premio di Angoulême significa ristampare immediatamente il libro e potere applicare in copertina la magica fascetta che di solito fa moltiplicare le vendite. Qual è il prossimo passaggio nella carriera di un fumettista? «Per pubblicare il nuovo libro ci vorrà oltre un anno di lavoro. Poi mi piacerebbe fare un film di animazione. Ne avevamo già parlato, tempo fa, con Gipi. Gli italiani di Parigi potrebbero provarci»." (da Stefano Montefiori, I disegni spiegano più delle parole, "Corriere della Sera", 21/02/'11)

Intervista a Manuele Fior: ogni storia, ogni disegno deve avere un suo battito ("Il Sole 24 Ore")

Dies Irae


"L'apocalisse del secolo ventunesimo è fredda, umida, battuta dal vento. Sagome umane, nel vuoto troppo vuoto di un orizzonte fumoso, sembrano non cercare né volere più alcunché. Forse l' inferno è proprio questo: un luogo dove tutto è già accaduto, irreparabilmente. Paolo Pellegrin resta in silenzio mentre sfoglio l' album dei suoi ultimi dieci anni di fotografo: il fotoreporter italiano oggi forse più apprezzato nel mondo. Non è convinto di queste impressioni: «Ci sono gli uomini, le donne, non è ancora finito tutto finché ci sono uomini e donne». È appena tornato dall'Egitto, dove ha fotografato la rivolta per Newsweek, e forse è questo che lo rende oggi più ottimista: «una cosa straordinaria, enorme, mi auguro che sia un inizio, ora vorrei andare in Iran e in tutti i luoghi dove possa raccontare fini di regimi e inizi di riscatto». Se tra quei ragazzi del Cairo è cominciata una nuova storia, forse ha fatto bene Pellegrin a buttarlo fuori proprio ora il primo ricapitolo del mondo che ha visto e fatto vedere negli ultimi dieci anni, che sono anche i primi dieci di un millennio. Forse si è liberato, così, del peso di un decennio spietato, il decennio del fuoco dal cielo. «Non è un' antologia di cose fatte, ho cercato un filo».
Non è un portfolio infatti,è una visione del mondo. Non voleva neppure metterci le didascalie, la divisione in capitoli. Dies Irae, il titolo gliel'ha suggerito Roberto Koch, fotografo ed editore di Contrasto, e lui l'ha accettato dopo un'esitazione. Perché Paolo Pellegrin si sente, è un umanista, e il solvet saeculum in favilla del pianeta non gliè piaciuto proprio raccontarlo così; ma è anche un fotografo, e sa che era suo dovere farlo. Romano, quarantasei anni, figlio di architetti, padre da poco più di un anno, asceso all'olimpo dell'agenzia Magnum nel 2001 dopo una lunga esperienza con i francesi di Vu. Era l'anno delle Torri Gemelle, e da allora è partito all' inseguimento di tutti i frammenti di Armageddon, di tutti gli acconti di apocalisse offerti dalla cronaca alla storia: Iran, Katrina, Libano, Tsunami, Gaza, Haiti, Cambogia, Kosovo... Fosse nato una o due generazioni prima, Pellegrin sarebbe stato un «fotografo di guerra» come Capa, come Griffiths, come Burrows, come McCullin. Non ne esistono più, perché non esistono più le guerre. Quelle che si chiamano ancora così, per inerzia, sono piuttosto le catastrofi locali di uno stato di entropia politica globale. Naturali o antropiche, è perfino difficile distinguere una catastrofe dall'altra, quando ci si arriva dentro, tanto lo scenario è sempre lo stesso: deserto freddo, disperazione, polvere, corpi, fango, esseri umani che erano vittime prima e lo sono ancora di più dopo. Pochissime le uniformi regolari in queste immagini. Anche là dove si combatte con le pallottole «il fronte non c'è, la prima linea non c' è, lo spazio è caotico, il pericolo è ovunque e in nessun posto». È un missile che ti esplode a pochi metri dal viso mentre fotografi la scena di un attentato: gli è capitato anche questo, a Tiro, Libano del sud: è fuggito, è tornato indietro, ha fotografato, tanto che senso ha correre lontano, lontano da dove, da cosa? «Tornai indietro senza sapere cosa dovevo fare, solo perché non accettavo di scappare senza aver dato un senso».
Pellegrin è un fotografo dell'era dell'incertezza. La fiducia in sé che possedeva la fotografia concerned del secolo scorso è svanita. Pellegrin non fotografa straight, diretto, geometrico come CartierBresson. Non va in cerca della bellezza perduta come Salgado che corre in direzione opposta alla sua risalendo le Scritture fino alla Genesi. Ha imparato qualcosa sul modo di raccontare dai suoi maestri, il Koudelka di Caos, il Peress di Telex Iran: le sue inquadrature si sbilanciano, tremano come sotto l'impatto di una granata, il fuoco si sfuoca, l'orizzonte si piega; il fotografo fotografa il proprio limite, la propria incapacità di capire tutto, «l' unica cosa che riesci a controllare è la tua disponibilità a metterti in gioco», accetta di essere un testimone debole, un raccoglitore dei reperti tra le macerie degli eventi, che offre ai lettori così come li ha trovati, prelevati, rimessi in qualche forma, così come li ha confusamente capiti, chiedendo aiuto a loro per capirne di più. Ma non sprofonda nell'abisso come il comandante Kurtz di Cuore di tenebra, non cede all'orrore, non diventa «amico dell'orrore». Pellegrin legge e ama il McCarthy di La strada, romanzo apocalittico ma illuminato da un lampo di speranza proprio nelle ultime righe. «C'è sempre da qualche parte un desiderio di sopravvivere, una volontà di riscatto. La pietra d'angolo a cui m' appoggio è raccontare gli uomini. Dovunque sia andato, ho spesso incontrato simultaneamente la faccia peggiore e la faccia migliore degli uomini». In particolare, nel volto delle donne. Che non combattono: ma sono il campo di combattimento, come i loro corpi, i loro gesti, le loro lacrime mostrano all' obiettivo. Sorrette da altre donne, o sole in strade troppo deserte, circondate dal vuoto, lo sguardo in quel vuoto, come temendo nuove e ancora peggiori catastrofi: quantus tremor est futurus ... È l'interminabile «giorno dell'ira», giudizio universale affollato di dannati ma senza ultimo giudice. Capa, stanco di esplosioni, sognava di essere «un fotografo di guerra disoccupato». Pellegrin ha chiuso un Dies Irae lungo dieci anni fra due copertine, sognando forse di diventare un Tommaso da Celano disoccupato. In piazza Tahrir spera di aver trovato l'incipit di un altro, diverso libro." (da Michele Smargiassi, I dieci anni dell'Apocalisse, "La Repubblica", 20/02/'11)

Se la fortuna è nostra


"A volte viene da domandarsi se esiste ancora una letteratura che non vuole scorrere facile, che sente la responsabilità e la potenza di ogni parola tracciata sulla pagina: una letteratura che deve arrivare al cuore della vita, e se non ci riesce non rischia il fallimento artistico, ma la rovina esistenziale. Aurelio Picca ha scritto un libro importante, mille miglia lontano da ciò che oggi si legge, un diario-romanzo che impasta a mani nude presente e passato, cocci di vetro e cieli azzurri, frammenti affilati dal tempo e attimi di oblio. Se la fortuna è nostra (Rizzoli) ha la porta di ingresso stretta, non invita ruffianamente a entrare in una "bella storia". Piuttosto urta, raschia, scalcia, sembra quasi dire al lettore: "Questa è casa mia, qui si fa come dico io, non pensare di passeggiare in qualche paesaggio piacevole, tra personaggetti melodiosi". All'origine del libro c'è la promessa fatta dallo scrittore al nonno di raccontare la sua storia, la storia di una famiglia intera, da quando il trisavolo Arcangelo abitava la casa di Colle di Pietra, e per amore uccise e tutto perse, fino all' infanzia del piccolo Aurelietto, che guarda e impara dalla forza e dalla pena della vita. Siamo su una linea quasi abbandonata, quella che porta dal Verga più furibondo alle visionarie malinconie di Federigo Tozzi, a quelle campagne italiane dove la terra è sangue e sogno. E' un mondo arcaico, ferocemente allegro, allegramente feroce, che procede tra fallimenti e grandi amori, tra abbracci e addii e bevute colossali e vendemmie, un mondo contadino che a poco a poco entra nella modernità rischiando di pagare il prezzo altissimo di una smemoratezza che tutto seppellisce e cancella. Per questo Aurelio Picca si fa cerimoniere di un'aia pagana e sacra dove i vivi e i morti stanno ancora insieme nella sera del Grande Banchetto. Ogni trapassato riaffiora nel presente con la sua storia, ogni morto offre radici ai fiori effimeri dell'oggi. Il padre è il perno di questa ruota malinconica, lui che morì troppo giovane, quando Aurelio Picca non aveva ancora due anni. Ma la famiglia rimase intatta, il patriarcato istituito dal nonno resse alle mazzate del destino, e il bambino crebbe in un'adorazione quasi sacra per il sangue della sua stirpe, gente rude, orgogliosa, tenacemente legata alle tradizioni, ai campi, alla propria storia. Tutto il libro batte tra la campana e la zappa, a colpi secchi, scandendo il tempo dei battesimi e dei matrimoni, delle comunioni e dei funerali. C'è un'enfasi dichiarata, un'epicità che solleva il quotidiano e lo porta fino al cielo della Necessità, una solennità che fa vibrare ogni singolo momento. Se la fortuna è nostra è il romanzo di un'Italia che non esiste più e che pure ancora ricordiamo, un'Italia terribile e nobile in cui tutto si incideva nella pietra della memoria familiare, e un'onta non si lavava nemmeno in cento anni, e l'amore diventava festa per tutti. Strappandosi i ricordi dal corpo, Picca ha voluto celebrare il nostro passato con una voce gridata, commossa, indimenticabile." (da Marco Lodoli, Una famiglia arcaica tra allegria e ferocia, "La Repubblica", 21/02/'11)

La violetta del Prater


"Nel 1933, quello che venne poi chiamato, con metafora cinefila, il treno Vienna Berlino-Hollywood stava portando verso la capitale americana del cinema, in fuga dall'incalzante nazismo, gente come Billy Wilder (che, nel caso specifico, fece uno stop a Parigi) e come Fritz Lang, che da un giorno all'altro, di fronte all'invito di Goebbels di diventare il capo della cinematografia dell'Ufa, fece le valigie e partì. A Londra si ferma invece, lasciando a Vienna una moglie e una figlia, Friedrich Bergmann, un grande regista austriaco invitato, nell'invenzione romanzesca, a girare negli studios londinesi una scipita storiella d'amore tra una fioraia e un principe in incognito intitolata La violetta del Prater. Che è il titolo del romanzo "sul" cinema che Christopher Isherwood scrisse e pubblicò nel 1945, in memoria di quel tragico 1933 in cui il mondo cominciò a cadere verso l'abisso della seconda guerra mondiale. Ma Christopher Isherwood è Christopher Isherwood, trionfo della leggerezza, maestro dell'allusione, finto cronista di un reale possibile (che nel caso di questa storia è quasi vero e realmente vissuto) in cui lui, il narratore, a mo' del Nick Carraway di Il grande Gatsby, entra solo di profilo, con il garbo di un ragazzo di buona famiglia, di buona educazione e di buoni sentimenti, che non interferisce in quello che vede succedere sotto il suo naso. Lo stesso stile, umano e letterario, che aveva utilizzato nei racconti a cui deve la sua fama, quelli di Addio a Berlino, dove, di nuovo, Isherwood è il testimone, il voyeur, l'osservatore, l'amico convocato a risolvere patemi d'animo e guai anche drammatici. Ma mai al centro della scena, che lascia, nelle storie berlinesi, al grande imbroglione e modesto spione Mr. Norris e all'ormai mitica Sally Bowles destinata a grande popolarità, quarant'anni dopo, con Cabaret.
Come annota Giorgio Manganelli nella sua postfazione d'epoca, Isherwood è «un intenditore di fatuità, un esperto di sottise, un intenditore di chiacchiere». Ma allo stesso tempo è "affascinato dalla tragedia". E così La violetta del Prater (Adelphi) comincia come una cronaca frivola sulla lavorazione di un film che nessuno ha voglia di fare (chi sente il bisogno di un ennesimo musical su una ragazza povera, un principe in incognito e poi in esilio, e il trionfo dell'amore mitteleuropeo?) per cadere bruscamente, anche se con tutte le morbidezze di Isherwood, nella tragedia del nazismo. Ecco dunque che il giovane Isherwood, men che trentenne ma già esperto di cose tedesche, reduce da Berlino viene convocato con tipica urgenza cinematografica dal factotum di tale Chatsworth, produttore, che sogna di realizzare una Tosca interpretata dalla Garbo e scritta da Somerset Maugham, e invece ha per le mani solo La violetta del Prater, l'ancora inesperto Isherwood come sceneggiatore e Bergmann, il grande regista più o meno in esilio, che lavora ovviamente obtorto collo. Tra quello che viene descritto come "il Socrate ebreo" con una faccia da imperatore romano e il giovane apprendista sceneggiatore scoppia la simpatia, che consente loro di tirare avanti in questo progetto dissennato. E mentre (cito Manganelli) «in una lontana, apparente, feroce realtà accadono eventi atroci: la Germania nazista celebra il processo per l' incendio del Reichstag, in Austria la guerra civile distrugge le milizie operaie: si fucila, si impicca ... sta arrivando una guerra orrenda», alla periferia di Londra ci si gingilla con le ombre del cinema. E, rinunciando per una volta al suo tradizionale aplomb ironico, Isherwood, parla d'amore, del suo amore, del suo amore del momento, che si nasconde sotto la lettera J. E che, nel libro, curiosamente non ha genere - anche se sappiamo che le preferenze di Isherwood, come del suo amico del cuore e compagno nell'esilio americano W. H. Auden, erano omossessuali. C'è un improvviso scarto, un cambiamento di tono, dalla leggerezza al dramma, in queste ultime pagine di un libro fatto, apparentemente, di niente, ma che si allinea, con tutta la sua frivolezza e la sua precisione nel ritratto ambientale, a pesi massimi sul mondo del cinema come Gli ultimi fuochi, I disincantati, Il giorno della locusta. «Gli stabilimenti cinematografici di oggi non sono altro che una reggia del XVI secolo. Vi si vede ciò che vedeva Shakespeare: il potere assoluto del tiranno, i cortigiani, gli adulatori, i giullari, gli intriganti insidiosi, ambiziosi ... C'è la più folle dissipazione e la più gretta economia su questioni di pochi soldi ... Ci sono segreti che tutti conoscono e di cui nessuno parla...». Non basta? Lieve, ma vero. Per i curiosi: Bergmann si chiamava nella realtà Berthold Viertel, il film Little Friend, la casa produttrice era la British Gaumont. E l'androgino amore tale Heinz." (da Irene Bignardi, Film e tragedie, la dolce leggerezza di Isherwood, "La Repubblica", 19/02/'11)

Other People's Books: Collecting Association Copies


"È la rivincita delle vite ai margini. Marginalia le chiamano, alla latina, gli anglosassoni. Mentre per noi - che dei latini saremmo gli eredi ma che della cultura abbiamo un rispetto sacrale soltanto nelle forme - sono semplicemente "note a margine". Sì, quelle annotazioni sui libri che a scuola i professori ti vietavano per non sporcare il totem. A difesa delle "marginalia" si sta mobilitando la cultura americana ora che il libro elettronico sta sostituendo la vecchia pagina di carta. Al punto da dedicare un simposio alle cosiddette association copies: cioè i libri degli altri "posseduti e annotati" da autori famosi. Il convegno, intitolato appunto Other People's Books: Collecting Association Copies, si terrà a Chicago organizzato dalla Newberry Library. E verrà accompagnato da un volume con 52 saggi sugli autori di annotazioni più famosi. Da Abramo Lincoln a Jane Austen. Da Walt Whitman a David Thoreau. Proprio la Newberry conserva una delle "association copies" più di valore. Un volume intitolato prosasticamente Il libro e la penna che si presentava come una specie di guida editoriale. E che è custodito invece come una reliquia per le annotazioni sarcastiche di un certo Mark Twain.
Ma che fine faranno le "marginalia" nell'era dell'ebook? Immaginando la futura "diarchia" tra i due mezzi (confermata tra l'altro negli Usa dalle indagini di mercato della Pwc) Umberto Eco qualche tempo ha messo proprio il piacere delle "marginalia" tra i plus che il vecchio libro continuerà a offrire: «C' è una bella differenza tra ricuperare in cantina un testo di tanti anni fa che reca le nostre sottolineature e le nostre note a margine, facendoci rivivere antiche emozioni, e rileggere la stessa opera sullo schermo del computer». Mentre un divulgatore come Thomas Cahill ha ricordato (Come gli irlandesi salvarono la civiltà) che proprio le "marginalia" sui testi sacri ricopiati dai monaci ci hanno tramandato la sapienza degli antichi.
Ma davvero tutta questa magia scomparirà con il libro elettronico? «La gente troverà pur sempre un modo di annotare anche gli ebook», dice al New York Times uno dei più autorevoli bibliofili e studiosi di letteratura inglese, G. Thomas Tanselle. Per la verità l'industria l'ha già trovato. Da Kindle all'iPad molti lettori digitali consentono, tramite tastierina, di annotare anche il testo elettronico. Anzi c'è di più. Grazie a Internet è possibile accedere a una funzione in cui si possono vedere quali sono le "sottolineature più popolari". Così anche l'annotazione diventa sociale: e la lettura personale un'esperienza da community. Un bene? Un male? Ai lettori, di carta e di elettronica, l'ardua sentenza." (da Angelo Aquaro, Le note e margine salvate dall'e-book, "La Repubblica", 22/02/'11)

Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica


"Barack Obama, benché convinto che i soldi spesi in istruzione siano soldi risparmiati in polizia e assistenza sociale, ha intessuto recentemente l'elogio dei Paesi orientali: «Stanno investendo meno tempo a insegnare cose che non servono, e più tempo a insegnare cose che servono. Stanno preparando i loro studenti non al liceo o all'università, ma alla carriera. Noi no». Dove evidentemente la preparazione sembra essere propedeutica alla carriera e al profitto, non all' umanità. Lo fa notare Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, in uscita dal Mulino, con una prefazione di Tullio De Mauro. Si tratta dell'approdo di un percorso ormai trentennale, i cui apporti fondamentali sono la formazione di classicista (la Nussbaum ha esordito come studiosa di filosofia greca, prima di estendere i propri interessi a tematiche di filosofia morale, di politica e di cultura); il rilancio del progetto pedagogico di John Dewey, che scriveva all' epoca in cui gli Stati Uniti erano in ascesa invece che in declino, e progettava una democrazia colta e inclusiva; e la collaborazione con l'economista e filosofo indiano Amartya Sen. In un recente scambio epistolare che abbiamo avuto a proposito di Non per profitto la Nussbaum ha sottolineato che il suo progetto comporta tre esigenze fondamentali. «La prima è l'attività socratica del promuovere la capacità di ogni persona di auto-esaminarsi e auto-chiarirsi, favorendo una cultura pubblica deliberativa più riflessiva, in cui si sia meno influenzati di quanto lo siamo ora dagli altri, dall' autorità e dalla moda. La seconda è la capacità di pensare come "cittadini del mondo", con una conoscenza adeguata della storia del mondo, dell'economia globale, e delle principali religioni mondiali. La terza è coltivare l'immaginazione simpatetica. Già i bambini sono capaci di immedesimarsi nella posizione degli altri, ma questa capacità ha bisogno di essere sviluppata, se deve rendere i cittadini capaci di pensarsi al di fuori del loro circolo ristretto e assumere le posizioni di gente molto diversa da loro. Una democrazia non può durare molto senza queste tre abilità. E non possiamo assumere che esse compariranno magicamente dal nulla, senza che vengano deliberatamente coltivate attraverso l' educazione».
Un tipo di educazione che «non è affatto costosa. Richiede insegnanti che si dedichino, ma non attrezzature speciali. Ho visto persone nelle aree rurali dell' India educare bambini stando seduti a terra conversando, o cantando e ballando, e ottenere ottimi risultati perché erano insegnanti a cui importava quel che facevano e che sapevano farlo bene, e senza annoiarsi». Dunque il problema non è anzitutto l' economia, bensì il pregiudizio politico e culturale nei confronti del sapere disinteressato, che a mio parere è venuto crescendo con quella svolta di fine secolo che coincide grosso modo con il postmoderno.
Da questo punto di vista, vale la pena di ricordare che il sottotitolo di La condizione postmoderna di Lyotard (1979) era "rapporto sul sapere". Il tema di fondo era la fine delle "grandi narrazioni" che giustificavano l'importanza del sapere per la società: il racconto dell'illuminismo, che vede nel sapere una forma di emancipazione e quello dell'idealismo, che lo vede come il raggiungimento di una conoscenza pienamente disinteressata. L'analisi di Lyotard, che non era affatto una apologia del Brave New World postmoderno, aveva il merito di individuare i rischi di questi crolli ideologici carichi di conseguenze pratiche, dai drastici tagli dei finanziamenti universitari voluti da Margaret Thatcher in Inghilterra al globalizzarsi del libero mercato, diventato planetario dopo il 1989. Il risultato, nel corso degli anni Novanta, è stato che le due "I" dell'Idealismo e dell' Illuminismo si sono trasformate nelle tre "I" di Inglese, Internet e Impresa, con un atteggiamento che è stato condiviso non solo dai governi di centrodestra che volevano tagli sulla cultura e la ricerca di base, ma anche da molti intellettuali, divenuti scettici rispetto al senso della loro missione. Ora, nel rilanciare la cultura "non per profitto" non si tratta affatto di restaurare un qualche mandarinismo intellettuale, perché, come mi scriveva ancora la Nussbaum, «quello che cerco sono cittadini responsabili, autonomi, autocritici, e riflessivi. Non mi interessa se leggano "Grandi Libri" o no - tranne per il fatto che alcuni di questi libri, come i dialoghi di Platone, sono in effetti molto utili per coltivare le abilità di cui parlo».
E non è nemmeno questione di perseguire il mito di una perfezione e autosufficienza razionale. Precisando questo punto la Nussbaum - che un quarto di secolo fa si è imposta sul panorama filosofico internazionale con un libro dal titolo emblematico, La fragilità del bene - mi faceva notare che, rispetto al progetto dell' Illuminismo, l'"approccio alle capacità" che ha sviluppato insieme ad Amartya Sen ambisce a dar spazio anche agli elementi di debolezzae fragilità dell'essere umano: «i filosofi dell'Illuminismo non sempre diedero il giusto valore alla cura, all'amore, e alle altre forme di buona vulnerabilità. Sotto questo profilo il mio progetto non è esattamente come quello di Kant, anche se gli è molto vicino».
Non so quanto questa apertura alla debolezza sia consigliabile in una cultura iper-indulgente come quella italiana, disposta a perdonare qualunque fragilità, soprattutto nei potenti. E da questo punto di vista preferirei sottolineare l'analogia di fondo tra la proposta della Nussbaum e il progetto enunciato in Che cos'è l'Illuminismo?. Qui Kant propone uno sviluppo della cultura come capacità, insieme, di pensare con la propria testa e di pensare mettendosi nella testa degli altri, abbandonando così lo "stato di minorità" in cui l'uomo preferisce restare delegando ad altri il peso delle decisioni, della coscienza e della responsabilità. Questo restare minorenni - sosteneva Kant - è colpevole quando non dipende da un difetto di intelligenza, ma «dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro» e, proseguiva, il motto dell'Illuminismo è «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza». Ecco il profitto di ciò che si fa "non per profitto": la correzione - sempre possibile e dunque doverosa - del "legno storto dell'umanità", il non volersi rassegnare a essere minorenni (indipendentemente dalla età anagrafica), per quanto l' idea possa a volte risultare piena di profitti economici, senza contare poi che, come scriveva ancora Kant, «è tanto comodo essere minorenni!»." (da Maurizio Ferraris, Martha Nussbaum, "La Repubblica", 22/02/'11)

mercoledì 23 febbraio 2011

Il meraviglioso mondo dei numeri


"Se avesse voluto apporre un´epigrafe al suo libro Il meraviglioso mondo dei numeri (Einaudi), Alex Bellos avrebbe potuto usare la duplice domanda del neurofisiologo Warren McCulloch: «Che cos´è il numero, che l´uomo lo può capire? E che cos´è l´uomo, che può capire il numero?». Perché il suo sterminato ed enciclopedico libro è appunto un tentativo, divertente e riuscito, di rispondere a entrambi gli interrogativi, e di mostrare come le storie del numero e dell´uomo siano in realtà intrecciate in maniera inestricabile, e i progressi e regressi dell´uno siano andati di pari passo coi progressi e regressi dell´altro.
L´espressione "mondo dei numeri" del titolo si riferisce dunque non soltanto al concetto oggettivo di numero da una parte, e alle sue rappresentazioni soggettive nello spazio geografico e nel tempo storico dall´altra, ma anche alle facoltà intellettuali dell´uomo. In particolare, al fatto che la scrittura alfabetica e la notazione numerica hanno sempre fecondamente intessuto, in teoria e in pratica, un rapporto di mutua stimolazione e derivazione.
Non stupisce quindi che il libro di Bellos sia in realtà una storia delle civiltà mascherata, osservata e raccontata dai complementari punti di vista del numero, delle cifre e del calcolo: tre aspetti di un´unica realtà, che costituiscono le versioni aritmetiche del pensiero, della scrittura e del linguaggio. Né stupisce che il libro mostri che, come le idee sono legate alla lingua in cui vengono espresse, e le parole sono legate alla scrittura con cui vengono registrate, così le varie civiltà abbiano affrontato e risolto in maniera diversa i problemi di definire filosoficamente i numeri, rappresentarli semioticamente e manipolarli matematicamente, rispondendo in maniera diversa alla domande su che cosa essi siano, come si possano indicare e come li si possa maneggiare.
Naturalmente, non tutte le civiltà hanno trovato "la soluzione" di questi problemi, che consiste in una ricetta che combina i seguenti quattro ingredienti. Primo, scegliere una base arbitraria ma conveniente: ad esempio, dieci. Secondo, indicare tutti i numeri positivi minori della base con segni differenti: ad esempio, le cifre da 1 a 9. Terzo, rappresentare i numeri maggiori mediante un sistema posizionale, in cui le cifre hanno un valore diverso a seconda di dove si trovano: ad esempio, assegnando allo stesso 1 il valore di uno, dieci o cento, e allo stesso 2 il valore di due o venti, nelle espressioni 1, 12 e 123). E quarto, aggiungere una cifra (ad esempio, 0) per rappresentare allo stesso tempo sia un posto vuoto nella precedente rappresentazione, sia il numero zero corrispondente a una quantità nulla.
Anzi, questa "soluzione" è il lascito culturale all´umanità di un´unica, grande civiltà: quella indiana della dinastia Gupta, che regnò nella valle del Gange e dei suoi affluenti tra il terzo e il sesto secolo della nostra era, ed è ricordata anche nella storia dell´arte per i suoi capolavori, primi fra tutti le pitture e le sculture delle grotte di Ajanta. La più antica registrazione dell´uso del sistema numerico indiano viene dalla Lokavibhaga: un´opera del 458, la cui datazione stabilisce un limite temporale superiore alla nascita del sistema numerico che oggi è universalmente in vigore nel mondo intero, dopo essere stato adottato dagli Arabi, e da essi tramandato agli Europei.
I quali, come ricorda Bellos, non soltanto l´hanno accettato con grandi e secolari resistenze, ma ancor oggi lo usano in maniera impropria. Ad esempio, privilegiando alcune potenze della base dieci come il mille, il milione o il miliardo, e non assegnando alle potenze intermedie nomi propri, bensì nomi composti come diecimila e centomila, o dieci milioni e cento milioni, che trattano quelle potenze come basi aggiuntive al dieci e macchiano la purezza del relativo sistema decimale. Una stonatura che invece gli indiani seppero evitare.
Come racconta Bellos, il massimo numero per il quale gli indiani coniarono un nome fu quello delle gocce di pioggia che potrebbero cadere in diecimila anni sull´insieme dei mondi, valutato dal Buddha in dieci alla centoquaranta e da lui chiamato asankhya: una parola sanscrita che significa letteralmente "innumerabile" o "incalcolabile". In Occidente soltanto Archimede poté competere con queste imprese: per rimediare alla pochezza della lingua greca, che aveva come massimo nome di numero la miriade, pari a diecimila, nell´Arenario egli inventò un modo sistematico per parlare di grandi numeri e lo applicò al calcolo del numero dei granelli di sabbia che potevano riempire l´universo, da lui valutato in dieci alla sessantatrè.
Ma non solo i Greci non avevano nomi per i grandi numeri: non avevano neppure le cifre, e usavano le lettere al loro posto. Poiché l´alfabeto classico aveva ventiquattro lettere, aggiungendone tre cadute in disuso essi ottennero un sistema di ventisette lettere, che divisero in tre gruppi di nove ciascuno: le prime nove per le unità, le seconde nove per le decine, e le ultime nove per le centinaia. Questo permise divertimenti come la composizione di poemi isopsefi, "a stesso calcolo", in cui tutti i versi avevano la stessa somma numerica delle lettere. O paranoie come la lettura simbolica di numeri quali l´apocalittico 666, variamente interpretato nei secoli come il nome di Nerone, Diocleziano, Lutero o il Papa.
Ma non facilitò le operazioni aritmetiche, per le quali si dovette ricorrere a vari tipi di abaco: una letterale "tavoletta" che poteva essere di sabbia, di cera o a gettoni, e che permetteva di compiere in maniera analogica le operazioni che il sistema indiano permette invece di fare sulla carta in maniera digitale, manipolando le cifre con l´ausilio delle "tabelline´´. Bellos ci narra che l´abaco fu usato, in qualche forma, da tutti i popoli che non possedettero un adeguato sistema numerico che permettesse di fare i "calcoli": una parola, questa, che significa letteralmente "pietruzza" (come nel caso dei calcoli al fegato o alla cistifellea), e richiama l´origine primordiale dei numeri.
È in queste molteplici origini che si trovano le tante albe del numero di cui trattano i vari capitoli del libro di Bellos. Il sistema sessagesimale additivo dei Sumeri, ad esempio, di cui rimangono vestigia nel nostro computo dei secondi in un minuto, dei minuti in un´ora e dei gradi in un angolo giro. Il sistema decimale posizionale dei Babilonesi, che introdusse lo zero come posto vuoto. Il sistema vigesimale posizionale dei Maya, che arrivò a considerare lo zero come numero indipendente. E soprattutto il sistema completo di tutti gli ingredienti degli Indiani, che condividono con i Babilonesi, i Cinesi e i Maya l´introduzione del sistema posizionale, con i soli Maya l´invenzione dello zero, ma con nessun altro l´intuizione della necessità di indicare in maniera indipendente tutti i numeri minori della base.
Analogamente all´evoluzione biologica dell´uomo, o all´evoluzione linguistica dell´alfabeto, non bisogna però guardare all´evoluzione numerica del sistema indiano come a una teleologia. Da un lato, infatti, la constatazione che solo una civiltà è arrivata alla "soluzione" mostra che quest´ultima non può essere vista come un´inevitabile necessità, e dev´essere piuttosto considerata come una fortunata contingenza. E, dall´altro lato, i risultati geometrici, astronomici e architettonici raggiunti rispettivamente dai Greci, dai Maya e dai Romani, che possedevano solo sistemi numerici parziali e incompleti, mostrano che il progresso matematico, scientifico e tecnologico può evolversi in direzioni multiple e complementari, di molte delle quali Il meraviglioso mondo dei numeri narra le affascinanti vicende." (da Piergiorgio Odifreddi, E' la matematica il grande motore della civiltà, "La Repubblica", 23/02/'11)

Ecco Schopenhauer, un autore fiero di essere «inattuale»


"Ha ancora senso leggere Arthur Schopenhauer nell’era degli sms e di Facebook? Nell’epoca in cui taluni filosofi dal fiato corto sostengono che le opere del pensiero hanno una scadenza come lo yogurt, i medicinali o i funghi sott’olio? C’è chi la fissa a dieci, chi a quindici anni; comunque sia, le riviste scientifiche che contano sono ormai online, giacché i dati discussi durano in genere qualche mese. Eppure, nonostante questo scenario, proprio oggi ha senso leggere e meditare Schopenhauer. Anzi, è autore da tenere sempre a portata di mano, sul comodino o accanto alla poltrona dove si dovrebbe consultare anche per qualche minuto, dopo aver spento la stupida televisione e quel ladro di tempo che è il computer. Arthur Schopenhauer (1788-1860) è completamente inattuale. Non provò alcun interesse per la patria, la politica, gli strilli dei bambini e il matrimonio, meno che mai per il prossimo. Non modesto, di pessimo carattere, disprezzò Hegel e gli idealisti, rideva dei filosofi di professione e non risparmiò strali ai professori, giacché era convinto che nelle loro testoline non possono entrare le grandi idee dell’umanità (usava espressioni più forti, ma non è il caso ...).
Non amava la vita mondana, anzi a tale proposito pizzicò Goethe: «Per lei l’attività letteraria è sempre stata cosa secondaria, mentre la cosa principale è stata la vita reale. Per me, invece, è il contrario. Per me ha valore e conta quello che penso e scrivo; invece quello che vivo personalmente e che mi succede è cosa secondaria, anzi me ne faccio beffe» (lettera del 3 settembre 1815). I suoi amori, a differenza di quelli fallimentari di Nietzsche, riusciva a celarli e a tenerli per sé. Fa impressione quel suo magnifico distacco dalle ginnastiche amorose, che espletava e non menzionava, indipendentemente dal fatto che l’oggetto delle sue attenzioni fosse una nobildonna o una signora con tariffa. Nel Curriculum vitae, dove avrebbe potuto accennare ai trastulli veneziani con Teresa Fuga, scrive soltanto: «Post undecim annorum continua litterarum studia, animum peregrinatione recreare statui» («Dopo undici anni di studi letterari, decisi di risollevarmi l’animo viaggiando» ). Da questo punto di vista fu comunque più umano di Kant, che tanto ammirava, il quale delle donne e del sesso non seppe mai cosa farsene. Riproporre Il giudizio degli altri di Schopenhauer, pagine che costituiscono il quarto capitolo dei noti Aforismi per una vita saggia, significa offrire un testo di riflessione sulla felicità; o meglio: un’operina che aiuta a difenderci da quello che gli altri dicono, pensano o scrivono di noi. Anche se è difficile spiegare perché ogni uomo si rallegri nel momento in cui riceve un’opinione favorevole («come il gatto, quando uno lo accarezza, fa, immancabilmente, le fusa» ), Schopenhauer consiglia di «moderare il più possibile» la sensibilità verso quello che giunge dal prossimo, siano cose positive o negative. Insomma, raffreddare entusiasmi e delusioni per non rimanere «schiavi delle idee altrui». È un esercizio che il filosofo tedesco insegna con impareggiabile mestiere e in una nota sbugiarda i godimenti dei ricchi, che non dipendono da quello che possono o provano, ma dall’opinione che giunge loro: «Le classi più alte, con tutto il loro fasto, il loro lusso, le loro pompe, la loro magnificenza e i loro sperperi di ogni genere, possono dire: "La nostra felicità sta tutta fuori di noi: la sua sede sono le teste degli altri"» .
Leggere Schopenhauer, così come Michel de Montaigne, aiuta a diventare adulti. Per questo uno dei pochi veri pensatori italiani del secolo scorso, Piero Martinetti, ha scritto nel suo Breviario spirituale: «Per apprezzare al suo giusto valore l’opinione altrui basta riflettere, come consiglia Schopenhauer, sulla superficialità e futilità dei pensieri, sulla bassezza dei sentimenti, sull’assurdità delle opinioni che si riscontrano nella maggior parte dei cervelli ... E allora impareremo a vivere più per noi che per gli altri, con maggior sicurezza e naturalezza, con maggior preoccupazione per i mali reali: così guadagneremo non soltanto in tranquillità d’animo, ma anche in saggezza e in felicità»." (da Armando Torno, L’anticonformismo contro le idee futili. Ecco Schopenhauer, un autore fiero di essere «inattuale», "Corriere della Sera", 23/02/'11)

lunedì 21 febbraio 2011

Ai ragazzi parlate di bellezza


"«Quando ho finito di leggere il suo romanzo ho sentito un fuoco dentro di me, qualcosa di misterioso si è svegliato e mi sono detto: io voglio vivere così. Ora lei deve spiegarmi come mai questo è accaduto».
Me lo ha chiesto venerdì pomeriggio Mattia, 17 anni. Eravamo in una scuola di una città emiliana, di pomeriggio.
Ci sarebbe stato un professore a parlare di un libro: c’erano centinaia e centinaia di ragazzi, spontaneamente. Lo stesso era successo una settimana prima in una città lombarda, lo stesso in un’altra ancora due settimane fa e così via ... Ogni settimana, ragazzi che non vorrebbero stare a scuola al mattino, poi tornano volontariamente al pomeriggio e pongono domande sulla loro vita a partire da un libro, loro che si dice non leggano mai ...
Sono stufo di luoghi comuni e piagnistei sui giovani italiani: viziati, superficiali, disinteressati. Da quando è uscito il romanzo sto girando come una trottola per le scuole e il più delle volte sono i ragazzi stessi che spingono i professori a organizzare gli incontri. Vado anche se mi costa fatica, dovendomi anche io occupare dei miei studenti, ma volevo vedere con i miei occhi. Sono stato in decine di scuole, ho incontrato migliaia di ragazzi da Trieste a Marsala, perché mi interessa avere il polso di questi giovani tanto vituperati dai media e dai giornali: mi parlano di impegno, studio, famiglia, amore, dolore, morte, paure, sogni ...
Trovo un desiderio di impegnarsi e di fare cose grandi che nessuno racconta. Basta luoghi comuni, basta piagnistei! Non basta stare chiusi in uno studio televisivo o davanti a Internet per conoscere e parlare di giovani. Mai come oggi si parla così tanto dei giovani e si parla così poco con i giovani. Bisogna passare il tempo con loro, bisogna stare in mezzo a loro, ascoltare.
Con questo non voglio dire che i ragazzi non siano viziati, o che si accontentino a volte di marche, gadget e affini (basta accompagnarli in un viaggio di istruzione per saperlo...). Ma questo accade perché viziati sono gli adulti. Siamo noi, incapaci di additare mete alte e porti da raggiungere, di manifestare con i nostri occhi che siamo fatti per una vita grande, piena. Siamo noi, malati di pessimismo, ad accontentarci e a non trovare altra ricetta se non accontentarli. Abbiamo sostituito la felicità con il benessere, ma per fortuna i ragazzi hanno un anti-corpo che noi adulti perdiamo con il tempo, con il nostro abitudinarismo borghese e comodo, fatto di cellulari e maxischermi, partite di calcio e televisori accesi durante i pasti. I ragazzi hanno un anticorpo: sono giovani.
Se solo potessi far leggere le cose che mi scrivono! Ne do un breve saggio.
«Sono un liceale e ti scrivo per un aiuto, un consiglio o un parere. La scuola non va... non riesco a metterci il cuore come dici tu ... poi il problema più grosso... non riesco a darmi uno scopo in questa vita che mi sembra così tanto monotona. Forse questo è dovuto al fatto che non ho un sogno ... anche quello non riesco a trovarlo. Penso alle cose che mi fanno vibrare il cuore e sono tutte banalità ... quando esco il sabato sera e quando vedo la mia squadra giocare». «Mi riconosco molto in Leo. Un ragazzo che cerca il suo sogno, come cerco di fare io. Anche se mi sembra di non riuscirci, mi sembra di non trovare nulla che mi appassioni davvero. Cerco di non abbattermi, perché credo che la vita sia troppo breve per essere tristi, o odiare qualcuno o qualcosa. E credo che sia necessario essere curiosi e avere voglia di vivere, di essere felici e di procurare felicità agli altri».
«Ho capito che non bisogna accontentarsi delle banalità che ci offre la vita, ma bisogna combattere e impegnarsi in ogni cosa».
Non ho cambiato una virgola di queste lettere. Sembreranno incredibili, proprio perché noi adulti siamo i primi a non credere in questi ragazzi, che non conosciamo. Ragazzi che, oppressi dal dolore per le loro vite impoverite e derubate, chiedono consigli a uno sconosciuto, che ha avuto la fortuna di pubblicare un libro in cui trabocca la passione per la sua e le loro vite. Se non portiamo i ragazzi a fare uso della libertà, che è scegliere, le loro vite piombano nella paura o nella monotonia del benessere e dell’individualismo. Le cose non bastano mai, si rovinano, si rompono. Siamo ancora capaci di sognare le loro vite, di prenderci cura del loro destino, di proteggerli, ascoltarli e sfidarli in grandi imprese, portandoli a scegliere ogni giorno? Abbiamo insegnato loro la libertà di indifferenza: la libertà «da», invece di quella «per». Chiedete a un ragazzo che cosa sia la libertà e vi dirà: «Fare ciò che si vuole» o «ciò che finisce dove comincia quella di un altro». La prima definizione è falsa, la seconda è vuota. La libertà è decidere come giocarsi la vita, libertà è partecipazione avrebbe cantato Gaber. Ma quali dei nostri ragazzi toccano ciò che vale la pena scegliere? Quanti di loro vengono abituati da noi adulti a scegliere davvero e non solo tra due marche, tra due film, tra due cellulari, due giochi per la Playstation?
Portiamoli di fronte a ciò che è grande, bello, vero (prima di tutto la loro stessa esistenza) e il fuoco della vita divamperà e brucerà pessimismo e paure. Credo in loro, perché credo nella grandezza della mia vita, non perché io sia migliore di nessuno, ma perché qualcuno ha creduto e amato la mia vita (con le sue luci e ombre, pregi e difetti, qualità e fragilità), mostrandomi che era troppo bella, grande, libera per sprecarla o tenermela per me.
Invece «colla esperienza, trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze, malvagità, sciocchezze, bruttezze ecc., a poco a poco si avvezza a stimare quei piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla speranza dell’ottimo o del buono, e a lasciar l’abitudine di misurar gli uomini e le cose con se stesso».
E questo lo diceva Giacomo Leopardi già due secoli fa, un uomo che i luoghi comuni hanno reso capostipite dei pessimisti, lui che era un realista spietato, con il quale la vita non era stata generosa, era incapace di mentire sul vuoto di certo ottimismo borghese, che dietro luccicanti promesse da consumare nascondeva soltanto la monotonia, la noia, la chiusura di chi ha sostituito le idee con le cose, l’essere con il fare, l’amore con il controllo.
I ragazzi sono viziati, perché gli abbiamo insegnato a sognare cose piccole, da soddisfare con il portafoglio. Proprio loro, insoddisfatti, ci salveranno dai vizi che abbiamo loro trasmesso. Lo stanno già facendo a colpi di suicidi, dipendenze, depressioni. Lo stanno già facendo a colpi di domande, sogni, ribellioni." (da Alessandro D’Avenia, Ai ragazzi parlate di bellezza, "La Stampa", 21/02/11)

Viaggio tra i capolavori della letteratura italiana, Francesco De Sanctis e l'Unità d'Italia



"Il testo più importante della nostra letteratura, la Commedia di Dante, ci è tramandato da copie di copie e non possediamo una sola riga autografa di colui che viene considerato il padre della lingua italiana. Se l'autografo della Commedia è il santo Graal di ogni studioso, sono in realtà molti gli originali dei capolavori della nostra letteratura di cui si sono perse le tracce. L'autografo del Principe, per esempio, andò presto perduto; una perdita sciagurata, se si pensa che di mano di Niccolò Machiavelli abbiamo centinaia di scritti di cancelleria, lettere, e anche qualche opera letteraria minore.
L'importanza di simili materiali è evidente. Le carte di un autore sono, in tutto e per tutto, ciò che resta del suo laboratorio. Non si tratta di feticismo o di manie da collezionisti. Ma della possibilità di vedere da vicino la nascita della letteratura. Per questo, almeno a partire dalla fine dell'Ottocento, gli studiosi si sono impegnati a cercare quante più testimonianze possibili. E l'esperienza ha mostrato che non si trattava solo di trovare ma spesso anche di riconoscere. Quello che oggi sappiamo essere l'autografo del Decameron di Giovanni Boccaccio è stato, fino agli anni Sessanta, uno dei tanti manoscritti che tramandavano l'opera. Solo attraverso confronti e verifiche, è stato stabilito che a scriverlo era stato lo stesso Boccaccio, ormai settantenne.
La mostra che apre da martedì alle Scuderie del Quirinale – organizzata dalla Fondazione De Sanctis, presieduta da Francesco De Sanctis Jr e curata da Giorgio Ficara, Louis Godart e Luca Marcozzi – permetterà di ammirare alcuni tra gli autografi più importanti della nostra letteratura. E lo farà con una guida d'eccezione: l'autografo della classica Storia della letteratura italiana scritta da Francesco De Sanctis poco dopo l'Unità d'Italia. Da Berlino è stato fatto arrivare proprio l'autografo del Decameron; da Ferrara, alcune carte dell'Orlando furioso di Ariosto; da Napoli, la Gerusalemme conquistata di Tasso. Ci saranno anche gli autografi dei Promessi sposi, di solito conservati alla Biblioteca Braidense di Milano. Davvero vale la pena di andare: non capita tutti i giorni di poter leggere i classici come li leggevano coloro che li hanno scritti." (da Matteo Motolese, Caro autore ci faccia (vedere) l'autografo, "Il Sole 24 Ore Domenica", 20/02/'11)

Autografi dei letterati italiani (Salerno)