venerdì 30 luglio 2010

Le mani sporche di J. P. Sartre


"Era il 1975 quando la polizia di Praga fece irruzione nell'appartamento del filosofo ceco Karel Kosik. Il regime lo considerava un dissidente e, in quell'occasione, gli agenti gli confiscarono un manoscritto di mille pagine, frutto di dieci anni di lavoro. Per sua sfortuna, Kosik non ne aveva una copia. Così, non gli restò che raggiungere l'amico Milan Kundera e sfogarsi con lui, discutendo sull'opportunità di scrivere una lettera a qualche personalità, all'estero, per cercare di far scoppiare uno scandalo internazionale.
Bisognava indirizzare la missiva a qualcuno che stesse al di sopra della politica, ad un uomo capace di rappresentare un «valore indiscutibile».
Messi di fronte alla desolazione del panorama europeo, i due dapprima si sentirono perduti. Alla fine, però, venne loro in mente a chi spedire la lettera. L'avrebbero indirizzata a Jean-Paul Sarte. Una scelta che, per la cronaca, si sarebbe rivelata saggia. L'appassionato intervento dello scrittore su Le Monde contribuì, in maniera determinante alla restituzione del manoscritto a Kosik.
L'episodio, narrato da Kundera stesso, è inserito nella prefazione alla nuova edizione di Le Mani Sporche di Sartre, firmata da Paolo Bignamini e Mauro Carbone (Mimesis). Per quanto interessante, però, questo aneddoto non sarebbe completo senza la considerazione finale dell'autore di L'insostenibile leggerezza dell'essere. «Il giorno in cui Sartre fu sepolto - conclude Kundera - mi tornava in mente il mio amico di Praga: ora la sua lettera non avrebbe più trovato alcun destinatario».
Jean-Paul Sartre è infatti l'ultimo vero simbolo di un impegno della cultura che oggi è scomparso. "Intellettuale totale", engagé, per l'appunto, per dirla alla francese, il cui approdo alla militanza è l'esito di un lungo percorso fondato sulla coerenza e sulla responsabilità. Una figura che ai nostri giorni non potremmo neppure concepire nel grande deserto preconizzato ancora una volta da un Kundera inquieto per «il vuoto dello spazio europeo che la cultura lentamente abbandonava».
Tornare a leggere Sartre, allora, assume un valore di riscoperta. Una riappropriazione che ha in sé il sapore della nostalgia ma che può anche aiutare a guardare oltre quel "vuoto", quel senso di inutilità della cultura, slegata ormai da ogni possibile tipo di impegno o di confronto con l'epoca nella quale viviamo. In questo senso, la nuova edizione di Le mani sporche tradotta appositamente per una produzione teatrale italiana, acquisisce un significato del tutto particolare.
Composta nel 1948, è l'opera più controversa di Sartre. Al momento della rappresentazione attirò le ire del Partito Comunista francese a tal punto che lo scrittore decise di ritirare il permesso per la messa in scena. Da quel momento, il testo è stato allestito soltanto in alcune occasioni ritenute opportune dall'autore. Almeno fino al 1980, anno della morte di Sartre.
Le Mani Sporche è un dramma emblematico dell'universo dell'intellettuale francese, con un protagonista (Hugo) che rifiuta la classe dalla quale proviene, la borghesia, ma che al tempo stesso non viene accettato dai compagni di partito, sempre pronti a rinfacciargli le sue origini. Lacerato da questo senso di solitudine e di inadeguatezza, deve affrontare un eterno dilemma della politica. Deve scegliere se rimanere "puro" oppure se "sporcarsi le mani". Da una parte la pragmaticità di chi è pronto al compromesso anche a costo di tradire le proprie idee, dall'altra l'integrità e gli ideali che, però, rischiano di infrangersi contro la durezza della realtà.
Hugo sceglie di stare dalla parte di chi rifiuta di scendere a patti con il nemico e decide di incaricarsi di uccidere il capo del partito, pronto invece a stipulare l'alleanza. I giochi di potere e gli intrighi si riveleranno, però, ben più complessi di quello che lui credeva ... Da qui le critiche del Partito Comunista all'opera.
Il testo, in realtà, inizia con il protagonista appena uscito di prigione per avere, evidentemente, portato a termine la missione. Quello che verrà chiarito soltanto nel finale è il motivo per il quale i compagni lo vogliono uccidere. Tutta la vicenda, dunque, è rivissuta attraverso il flashback messo in atto dal racconto di Hugo a Olga, unica nel partito che lo vorrebbe salvare.
Un'opera che ci parla di anni nei quali era vitale cercare di rimanere fedeli alle idee, alla propria visione del mondo. Tramontate le ideologie, gli uomini ormai "si sporcano le mani" senza neppure pensarci. Il concetto stesso ha perso di importanza, per il semplice motivo che sono sparite le bandiere alle quali rimanere fedeli.
E il tempo dal quale ci parla Sartre appare lontano, quasi sbiadito, eppure il dramma rimane più vivo che mai. A oltre sessant'anni dalla sua stesura e dalla prima rappresentazione, Le mani sporche racconta anche qualcosa della nostra società. Non ci descrive com'è, ma ci mostra dove inizia la strada che è stata percorsa. Ci parla di un bivio, di una scelta impossibile, di un dilemma mai risolto fino in fondo. Una tensione che attraversa tutta la storia delle utopie e delle ideologie rivoluzionarie senza riuscire mai a sciogliersi davvero. Non fosse andata così, forse, la lettera di Kosik troverebbe ancora oggi il suo destinatario." (da Marco Barbonaglia, Sartre e il dilemma delle scelte impossibili, "Il Sole 24 Ore", 26/07/'10)

Antonio Franchini: da Saviano allo Strega noi editori siamo solo piccoli rabdomanti


"Antonio Franchini - napoletano di 52 anni, editor della narrativa italiana della Mondadori - è "Il signore dello Strega". Ha vinto più premi lui di ogni altro editore. Fuori dagli ambienti editoriali il suo nome non vi dirà molto. Ma è lui che decide quali autori comprerete in libreria, quali romanzi vi porterete sulla spiaggia. Magari non saranno tutti i suoi e neppure necessariamente i più belli. Ma i suoi giudizi, le sue scelte fanno il mercato. Vado a trovarlo a Segrate, dove ha sede la Mondadori. Mi fa l'effetto di un uomo paziente e testardo, cauto e curioso, incline al ragionamento lungo e flessuoso. Mentre parla - con leggera inflessione napoletana - vengono in mente quelle lunghe maratone verbali in cui le frasi universalizzano i discorsi, volano nei cieli dell'anonimato. Da uomo prudente, Franchini non fa nomi, a meno di non esserne costretto: invoca la delicatezza del ruolo, il bisogno di non scendere in troppi dettagli, il diritto di salvaguardare i suoi autori, che poi sono tanti e che diventerebbero ingestibili, dove cominciasse il gioco delle preferenze. Ma in fondo non sono di fronte a lui per provocarlo, sono qui per capire come funziona la fabbrica dei successi che egli ha messo in piedi.
E subito salta agli occhi un anomalia. Questo signore che giudica e decide chi pubblicare è anche uno scrittore in proprio, bravo, anzi bravissimo. A me ad esempio sono piaciuti tantissimo Gladiatori, e la raccolta di racconti: Acqua, sudore, ghiaccio. Come convivono le due anime? «Senza conflitto. Ho un editore, Marsilio, per il quale scrivo e al quale non chiedo niente e poi ho il mio lavoro di editor che svolgo da trent'anni. Dal momento che sono un lettore di narrativa, nel poco tempo che mi resta mi dedico alla lettura dei testi sacri. Ho cominciato con i Vangeli e poi sono stato catturato dalle Upanishad e partendo da lì mi sono appassionato alla cultura indiana».
Il suo ultimo libro Signore delle lacrime ha come sfondo l'India. Non è diventato un luogo troppo facile da raccontare? «Per me è un pretesto, un modo per entrare dentro una materia complessa e remota, che ha a che vedere con il sacro. Penso che la parola del testo sacro sia un buon antidoto alla parola della narrativa. La quale è una parola leggera, che corre, che va, che ti porta lontano. Invece la parola del testo sacro è pesante, spesso incomprensibile a una prima lettura».
Perché se la assume? «C'è una dimensione dello studio che ha a che fare con il piacere che viene dallo sforzo. Amo la fatica, anche fisica, anche atletica, mi consente di raggiungere un equilibrio e una staticità che altrimenti non otterrei». So della sua passione per le arti marziali. «Sì, fanno parte del mio mondo, ma al tempo stesso allargano la mia esperienza».
Lei studia, scrive, cura il corpo. Sono attività compensative rispetto al suo lavoro principale? «È la ricerca di un equilibrio. Il punto di vista di un critico è molto diverso da quello di uno scrittore ed entrambi sono distanti da quello dell' editore. Sono dell'idea che, pur non confondendo i ruoli, occorra praticare le tre forme, distribuendo i pesi diversamente».
Come è nata la sua professione di editor? «Ero un giovane laureato in lettere. Risposi a un annuncio in cui cercavano persone da impiegare nel marketing editoriale. Feci un colloquio ma non venni preso. Nel frattempo da Napoli mi ero trasferito a Milano, dove avevo cominciato a lavorare in alcuni studi editoriali. Erano i primi anni Ottanta. Finii alla Reader's Digest. Mi occupavo di grandi opere: giardinaggio, cucina, storia divulgativa. Pensavo di mollare. Sentivo che non era ciò che mi interessava, il lavoro per il quale ero tagliato. Quello che non sapevo è che il lavoro alla Digest era molto apprezzato negli ambienti editoriali, per via della cura con cui venivano confezionati i libri. E quando si ripresentò l' occasione con la Mondadori, venni assunto».
Oggi in che consiste il suo lavoro di editor? «La professione si è complicata rispetto al passato. Se non altro perché è aumentata enormemente la quantità di dattiloscritti che ci arrivano. Un tempo la cura veniva affidata soprattutto a tre lettori esterni, diciamo tre giudizi, dopo i quali se il romanzo era ritenuto buono, passava a una lettura interna. È un sistema oggi insufficiente. Per questo mi servo anche di un gruppo di lavoro fatto di giovani che ha competenze redazionali e letterarie mostruose».
Basta per soddisfare la marea di romanzi che vi arrivano? «Naturalmente no. E non si può leggere tutto. Tra le poche cose che nell'editoria non sono cambiate c'è l' elemento rabdomantico. È fondamentale».
Le è successo di rifiutare romanzi che poi si sono rivelati libri di successo? «È normale che accada. Il mio lavoro provoca un alto tasso di dubbio e di sofferenza. Se sbaglio nella valutazione mi porto appresso il cruccio, mi chiedo dove ho commesso l'errore, dove non ho capito, dove non ha funzionato il giudizio».
Più che il tormento mi interessa capire cosa fa nel caso del dubbio. «In alcuni casi me lo trascino a lungo. Ho un grosso romanzo che tengo da anni sulla scrivania. Quando cominciai a leggerlo rimasi sbalordito. Aveva una delle aperture più belle che io abbia mai letto. Sembrava Melville. Senonché, dopo queste pagine iniziali, il romanzo si afflosciava, diventando insopportabile . Poi aveva un' altra impennata per ricadere immediatamente dopo in una prosa terrificante. Dovrei buttarlo, ma non ho il coraggio».
C'è sempre il lavoro di editing. «Sono tra quelli che ritengono che l'editing non può cambiare il destino di un libro. Lo può migliorare o, in taluni casi, perfino peggiorarlo. Ma non può dargli quello che il libro non ha».
Eppure ci sono casi di editing drastici: Susannah Clapp, editor di Chatwin, riduce quasi della metà In Patagonia e il libro a suo modo è perfetto. «Ma se è per questo anche il lavoro di Pound su Eliot - anche se Alcide Paolini disse che quello di Pound fu un atto criminale - oppure il lavoro di tagli di Gordon Lish su Carver si possono considerare importanti. Ma sono dei casi che nascono dai rari momenti di magia che si stabiliscono tra l'editor e l'autore. Generalmente un editing radicale rischia di sconfinare nella manipolazione».
Lei è noto anche per i titoli che dà ai romanzi che pubblica. Quanto incide un titolo nel successo di un romanzo? «Se è un titolo molto felice - come accadde con La solitudine dei numeri primi - conta, non c'è dubbio».
Anche Gomorra ha contato? «Su quel titolo c'erano molte perplessità, perché si diceva che non era di immediata decifrazione. Io lo difesi e ricordo che mettemmo un lungo sottotitolo che spiegava cos'era quel libro. Poi Gomorra è diventato un marchio. Un'altra caratteristica dell'editoria è il senno del poi».
E su un titolo come Canale Mussolini vi siete trovati tutti d'accordo? «Il titolo è di Pennacchi, a me è sembrato anche se forte molto buono. Ma ho registrato opinioni contrastanti. L'obiezione che veniva fatta era: la gente non comprerà mai un romanzo con "Mussolini" nel titolo. E invece quel romanzo ha vinto anche lo Strega».
Alla vigilia sembrava che non puntaste molto alla vittoria, che le polemiche attorno a una presunta dittatura della Mondadori sullo Strega vi sconsigliassero di vincerlo anche quest'anno. Insomma, come è andata? «Siamo partiti dicendo: vediamo quello che succede. Nella convinzione che il romanzo di Pennacchi fosse un gran bel libro, ho pensato che avrebbe potuto imporsi anche in virtù della sua forza letteraria». Intende dire che il peso della Mondadori è stato secondario? «Voglio dire che da qualche anno a questa parte non ci sono libri che partono favoriti. L'anno scorso vinse Scarpa per un punto su Scurati, quest'anno Pennacchi ha prevalso per quattro voti sul romanzo della Avallone. Il Premio Strega raccoglie molti consensi e scatena altrettante polemiche. È il segno di una grande vitalità».
Cambierebbe qualcosa? «È stato già modificato: ai tradizionali 400 votanti ne sono stati aggiunti 30 che sono irraggiungibili. È questo pacchetto di voti che è diventato determinante».
Se un suo romanzo fosse presentato allo Strega, concorrerebbe? «Le rispondo come Bartleby: "preferirei di no"». " (da Antonio Gnoli, Antonio Franchini: da Saviano allo Strega noi editori siamo solo piccoli rabdomanti, "La Repubblica", 29/07/'10)

mercoledì 28 luglio 2010

Godel e il paradosso di uccidere la nonna


"Nella mitologia giapponese il pescatore Urashima Taro riesce a trasferirsi nel futuro; in quella irlandese lo stesso fa l’eroe Finn McCool. Ma c’è una clausola: Urashima non deve mai aprire una magica scatoletta e Finn non deve scendere dal suo cavallo incantato. I due trasgrediscono, e così si trovano invecchiati di colpo e ridotti infine a polvere e ossa. Ai paradossi del tempo ci ha abituato la fantascienza (pensiamo a Herbert George Wells) prima ancora che la scienza di Einstein. E chi non vorrebbe gettare un’occhiata non solo nel futuro, ma anche nel passato? Però, andare indietro nel tempo è più problematico che spostarsi in avanti. Nei loro anni di Princeton ne aveva discusso proprio Einstein con il grande logico Kurt Gödel: questi aveva mostrato che alcune soluzioni delle equazioni della relatività generale descrivevano uno strano universo in cui erano possibili traiettorie ad anello nel tempo. Uno di questi «viaggiatori di Gödel» avrebbe potuto così incontrare se stesso più giovane. O magari, travolto da un accesso di follia, uccidere a pistolettate ... la propria nonna. Ma allora com’è che era potuto venire al mondo?
Enigmi del genere hanno invaso persino il teatro. L’abbiamo visto con Infinities, lo spettacolo messo in scena pochi anni fa dal Piccolo Teatro della città di Milano, grazie agli sforzi congiunti di un brillante matematico come John Barrow e un maestro della scena come Luca Ronconi. La riflessione scientifica non è stata da meno. Ecco ora la proposta di Seth Lloyd e della sua equipe dello Mit (nel gruppo c’è anche Vittorio Giovannetti della Normale di Pisa): combinare insieme le curve temporalmente chiuse della relatività generale con la teoria più stupefacente della fisica odierna, cioè la meccanica quantistica. In una storica controversia, proprio Einstein aveva mostrato che questa basilare teoria delle particelle elementari implicava una vera e propria azione a distanza che sembrava sfidare la concezione tradizionale delle interazioni. Ne è scaturita l’affascinante idea del teletrasporto quantistico, che dovrebbe consentire di trasferire parte di un’informazione a velocità superiori a quella della luce. Lloyd e i suoi (che conoscono bene miti come quelli di Urashima Taro e racconti come quelli di Wells) immaginano di poter «invertire» il processo. Questa «post-selezione» evidenzia la possibilità di «scavare un tunnel dal futuro al passato». Tutto questo, ovviamente, per cose «molto piccole» come le particelle elementari ...
Ma noi siamo fatti di particelle elementari! Mentre i fisici sottolineano che proprio i vincoli della meccanica quantistica potrebbero ridurre o eliminare paradossi come quelli dell’uccisione della nonna, il pubblico rimane «perplesso» (un po’ come si dichiarava lo stesso Einstein di fronte alla provocazione di Gödel). Se quelle gallerie sono possibili, com’è che i curiosi provenienti dal futuro non sono già qui? È lo stesso argomento che Enrico Fermi usava per smontare ipotetici scenari di invasione da parte di alieni così tecnologicamente raffinati da poter colonizzare il nostro sistema solare. La fisica si è forse trasformata in un ramo della letteratura fantastica, come a suo tempo diceva Borges della teologia? Può anche darsi; ma intanto gli esperti pensano che proposte teoriche del genere ci aiutino a capire qualcosa di più dell’elusiva connessione di quanti e relatività. Però, a qualcuno può venire in mente la storiella di quel professore afroamericano che vuole avere informazioni in presa diretta sulla Guerra civile. Riesce a «trasferirsi» al momento della battaglia di Gettysburg; ma causa involontariamente la morte di un ufficiale nordista, e questo cambia le sorti dell’intero conflitto. Quando ritorna al suo tempo, il professore si scopre schiavo in una piantagione di cotone del Sud vittorioso.
Che la meccanica quantistica ci protegga da pasticci del genere! Per intanto, come ha suggerito un commentatore in Rete, se qualcuno ha proprio voglia di ficcanasare nella storia, «si affidi a qualche sceneggiatore di Hollywood»: ne vedrà delle belle, senza mettere a repentaglio le proprie ... particelle elementari." (da Giulio Giorello, Godel e il paradosso di uccidere la nonna, "Corriere della Sera", 25/07/'10)

Short Cuts


"L'età digitale si è affermata con la posta elettronica, i messaggi istantanei. E ora tre studiosi britannici specialisti in processi comunicativi ci dimostrano che l'inondazione verbale produce automaticamente scorciatoie comunicative, che non sono però solo un frutto del nostro tempo: gli antichi Romani adottavano sigle e abbreviazioni in qualche modo antenate degli sms. Statistiche aggiornate dimostrano che, come per una forma di autoimmunizzazione, il lettore di giornale non arriva alla conclusione dell'articolo: si arresta alla metà, o anche meno. I più non riescono a leggere un articolo: la loro capacità di attenzione si ferma al titolo. Una sorta di autodifesa rende compatte le comunicazioni che vogliono essere lette, ascoltate. Alexander Humez (dottorato di docenza in Linguistica indoeuropea), suo fratello Nicholas e Ron Flynn hanno raccolto nel brillante volume Scorciatoie (titolo originale Short Cuts, Oxford University Press lo pubblicherà il mese prossimo) una selezione di forme di miniaturizzazione della comunicazione verbale e per segni che anche attraverso i dizionari si impone nella nostra vita.
GRAFFITI La letteratura murale non è soltanto un fenomeno di vandalismo contemporaneo incoraggiato dai produttori di pennarelli o carboncini. Lo Slang Dictionary del 1873 offre una mappa di una città con i luoghi in cui sono stati decifrati i "geroglifici dei parassiti". Il loro contenuto è lo stesso di quelli che oggi in inglese sono conosciuti come hobo signs (cioè i segnali dei vagabondi). Ci vengono tradotti come "cane feroce", "donna di buon cuore", "uomo armato", "cibo per lavoro", "racconta una storia pietosa". Dal 2002 si sono aggiunti quelli per hacker che indicano l'esistenza di un segnale Wi-Fi a cui agganciare il proprio computer gratis.
SMS Molti linguisti sostengono che pochi abbiano martoriato la lingua quanto i messaggiatori istantanei. Gli sms infliggerebbero alla nostra lingua quello che Gengis Khan inflisse sui suoi vicini 800 anni fa. "I h8 txt msgs" andrebbe letto "I hate text messages" - cioè "odio i messaggi testuali". I ragazzi che scrivono sul cellulare ttyl - per talk to you later (ti parlerò più tardi) - sviluppano secondo taluni esperti un nuovo linguaggio "che alla fine distruggerà la nostra lingua e la nostra cultura". Chi li contraddice ricorda che le abbreviazioni venivano usate dai romani che iniziavano una lettera amichevole con SVBE per Si vales bene est: se stai bene è una buona cosa.
ULTIME PAROLE Seguendo il percorso a ritroso ecco "le ultime parole": quelle pronunciate sul letto di morte. In secoli recenti oggetto di collezionismo, mentre in precedenza erano in antologie costruite a scopo educativo: ristrette a martiri, criminali o agli infedeli. Più di recente si sono raccolte perché rivelavano qualcosa dell'età in cui era vissuto il morituro. Anzitutto va ricordata l'ironica saggezza di Mark Twain che ha ammonito: «Un uomo illustre dovrebbe far attenzione alle sue ultime parole ... scriversele su un pezzo di carta e farle giudicare dai suoi amici. Certo non dovrebbe lasciare una cosa del genere all'ultima ora della sua vita». Il grande economista John Maynard Keynes sintetizzò la sua vita in «Vorrei aver bevuto più champagne». Cechov, più conciso, disse soltanto «champagne!»: forse un invito a celebrare. Una categoria di "ultime parole" è quella delle note dei suicidi. Sono meno di quanto si creda: soltanto il 15% dei suicidi lasciano note. I sopravvissuti spesso le fanno sparire. Leggiamo: «Amore, questa è l'unica strada che conosco. Ho sbagliato tutto. Ti amo moltissimo. Bill». O anche, più succintamente: «Spero che questo sia quello che volevi». Sul piano semantico l' ambivalenza talvolta è straordinaria: «Dear Betty, I hate you. Love, George», cioè «Cara Betty, ti odio» e il love che segue non ha il significato di amore: ma, posto prima della firma in una lettera sta per "saluti affettuosi". Oggi molte note sono collocate dal suicida nella propria pagina di Facebook. Un certo Christian Mogensen, prima di uccidere la moglie e di suicidarsi, collocò sul suo blog la loro foto di nozze con le date di nascita e di morte. In tema di comunicazioni funebri nei giornali anglosassoni domina l'obituary: il necrologio. Molto diverso da quello italiano: è un vero articolo che su uno schema uniforme condensa la vita del defunto. Scritto con solennità spesso fa sorridere per il tono reverenziale. Chi non si sente sicuro di quello che scriveranno i suoi familiari potrà scriverselo lui stesso: come fece Norman Mailer. «Norman Mailer è morto ieri dopo aver celebrato il suo quindicesimo divorzio e sedicesimo matrimonio. "Non sento più il vigore d'un tempo" si lamentava lo scrittore di recente». In realtà Mailer non riuscì a realizzare il suo modello. Morì dopo essersi sposato soltanto sei volte.
AL TELEFONO Il telefono è il prodotto della tecnologia che più ha contribuito alla nascita di nuove formule espressive. Fuori dall'Italia l'invenzione è attribuita ad Alexander Graham Bell, professore di Fisiologia vocale all'Università di Boston, nel 1876. In realtà Antonio Meucci l'aveva sperimentato per decenni senza i fondi per ottenerne il brevetto. «Mr. Watson venga qui, voglio vederla», è l'incipit risaputo in America con cui Bell indirizzò il suo assistente attraverso il suo prototipo del telefono. Segue la varietà di hullo, hollo, hillo come forma di presentazione nell' afferrare il ricevitore: poi rimpiazzati dal noto hello (preesistente quale interiezione). Un Libro d'etichetta tascabile del 1937 prescrive che gli adulti dichiarino il proprio nome come apparirebbe nel registro di un hotel. Per i bambini che rispondono a sconosciuti formule tipo: «Posso parlare con tua mamma?» oppure: «Sta pulendo i fucili con mio padre e non possono venire al telefono». Il telefono cellulare ha poi inaugurato nuove forme di verbosità, alterazioni di abitudini sociali, conformazioni mentali, reazioni psicologiche. In America, di fronte a un film di qualche anno fa si sente dire «sarebbe finito in un quarto d' ora se ci fossero stati i telefoni portatili». Il professor James Katz (Rutgers University) studia l'impatto sociale dei cellulari; Palen (University of Colorado) li definisce "biberon per adulti" per la nuova necessità di essere sempre collegati con qualcuno. Nasce la "disattenzione civile" (civil inattention) quando si ignora chi ci sta accanto blaterando al telefono. Nei paesi di lingua spagnola ha dominato come suoneria il ¿Por qué no te callas? (perché non taci?) con cui Re Juan Carlos apostrofò Hugo Chávez che continuava a interrompere Zapatero durante un summit.
DIZIONARI E WIKIPEDIA Sul tema dizionari leggiamo che il 45% delle ricerche iniziali è dedicato alle parole sconce. Nel suo Devil's Dictionary Ambrose Bierce scrisse «Dizionario: Un malevole strumento letterario per soffocare la crescita di una lingua e renderla rigida ed inelastica», dove il suo dizionario fa eccezione. Quanto sono attendibili gli strumenti di consultazione? Apprendiamo che sono ricchi di personaggi immaginari che vi appaiono finché non sono eliminati dall'edizione successiva per poi rifiorire in altre opere enciclopediche ignare della loro eliminazione. Esempio: un certo Guglielmo Baldini, compositore di madrigali (Ferrara 1540). Qualcosa di simile oggi accade su Wikipedia. Intervistato, il divo rock Meat Loaf ammette di aver inventato di essere stato travolto da un'auto: «Già, come tutte le altre cose che ho inventato nelle interviste. Quando hanno accettato il mio nuovo nome, ho capito che potevo inventare il resto»." (da Gabriele Pantucci, Che lingua corta. Dal latino agli sms, le comunicazioni in miniatura, "La Repubblica", 28/07/'10)

Troviamo le parole. Lettere 1948 - 1973


"Fu amore fin dall’inizio. Filtrato da parole lucide e oscure e da irriducibili silenzi. S’incontrarono a Vienna, nel maggio del 1948, Ingeborg Bachmann e Paul Celan, due fra i più grandi lirici di lingua tedesca del dopoguerra. Venivano da realtà opposte, ma dimoravano entrambi nella poesia.
Lei, studentessa ventiduenne in attesa di laurearsi su Heidegger; lui, il cui vero nome era Paul Antschel, più anziano di sei anni, figlio di ebrei tedeschi residenti a Czernowitz, capitale della Bucovina, trucidati in un lager dell’Ucraina nel 1942.
La giovane carinziana Ingeborg aveva preso da tempo le distanze dal mondo del padre e dalla comunità nazionalsocialista immergendosi nella scrittura come in una forma di emigrazione interna. Paul, fuggito dalla Romania viveva nella capitale austriaca in una sorta di vigile agonia, ai margini di un abisso popolato di fantasmi, di voci e volti della sua gente ebraica dissolta nel nulla. Per essa l’anno prima ha scritto in romeno Fuga della morte, uno struggente lamento sull’orrore della Shoah, un epicedio che gli darà fama imperitura.
Celan scorge in quella sensibile e intelligente provinciale che riflette su colpa e responsabilità come sul difficile destino della donna fra patriarcato e violenze della storia, la mediatrice di un possibile vincolo con le ragazze ebree scomparse: le varie Ruth, Miriam, Noemi che cita nella bella poesia In Egitto dedicata a Ingeborg qui definita «la straniera». Nell’amore per lei, che conosce la via del riscatto, egli crea un legame che risuscita l’alleanza fisica e spirituale con le revenantes della sua mente ossessionata dal dramma dell’Olocausto. In Egitto è il primo documento di uno scambio epistolare fra i due che l’editore Nottetempo pubblica ora con il titolo Troviamo le parole. Lettere 1948 - 1973 nella versione curata da Francesco Maione e integrata con i brevi carteggi fra Celan e Max Frisch, compagno della Bachmann verso la fine degli Anni Cinquanta, e fra quest’ultima e Gisèle Lestrange, moglie del poeta.
Quelle brevi settimane di tarda primavera segnano i loro destini nella comune riflessione sulla problematicità della scrittura dopo Auschwitz. Dai messaggi scambiati nei mesi successivi echeggia per un po’ l’impeto delle emozioni: lui l’aspetta a Parigi dove si è trasferito, «colmo di impazienza, d’amore», mentre lei lo trasfigura in seducenti visioni: «Per me tu vieni dall’India o da un paese ancora più remoto (...) per me tu sei il deserto e il mare e tutto quanto è mistero».
Ma ben presto si fanno strada un’inquietudine e un’incertezza devastanti.
Ingeborg ha un cuore matto, confuso: «Ti amo e mi rifiuto di amarti - confessa - questo è troppo ed è troppo difficile». Lui alterna ostinati silenzi e parole severe, borbottii ossessivi, ma anche esplosioni di felicità.
Riallacciando il loro rapporto nell’autunno del 1957, dopo anni di vuoto, Paul non ha esitazioni: «Tu sei il fondamento della vita - le confessa - anche perché sei e resti la giustificazione del mio Dire». Nulla sembra frapporsi al nuovo slancio amoroso: né il figlio o la moglie Gisèle («... è così coraggiosa», asserisce lui!) né le turbolenze della vita. E’ il «tempo secondo il cuore», scrive Celan, una stagione di nuove armonie che confluiscono in quel serrato dialogo sulla poesia, in cui tutto si amalga, parola e silenzio, scrittura e mutismo in una nuova, comune lettura del mondo.
Poi si accentuano i malintesi e le reciproche accuse che coinvolgono anche il nuovo compagno di Ingeborg, lo scrittore Max Frisch. Per di più Celan, accusato dalla vedova del poeta alsaziano Yvan Goll di aver plagiato il marito, è da tempo preda di crisi che lo rendono più fragile e aggressivo, si atteggia a vittima, vede riemergere i fantasmi dell’antisemitismo, scorge nemici ovunque perfino fra scrittori come Böll o Andersch. Non bastano le parole di Ingeborg ad arginare quel decadimento psichico che lo obbligherà a ricoveri forzati - e dalla clinica nel 1966 indirizzerà alla moglie il canzoniere Oscurato, ora in prima edizione italiana da Einaudi (a cura di Dario Borso) - fino a spingerlo al suicidio in una notte di aprile del 1970: «Da ignota, alta / marea corrosa /questa / vita».
Tuttavia Ingeborg trova nel dialogo con Paul, «testimone dell’Olocausto» e protagonista della sostanza più problematica della sua scrittura, un ancoraggio ai propri interrogativi sulla colpa storica di un paese e l’identità muta e annichilita della donna, la sua condizione di vittima e l’afasia di chi si sente cancellato. Ma le lettere ribadiscono altresì l’idea celaniana della poesia come soglia fra separati che finiscono per non incontrarsi mai.
C’è nel carteggio una lezione di poetica come la ritroviamo nei Microliti di Celan che Zandonai offre nell’ottima versione di Dario Borso, piccole schegge in prosa, aforismi ed epigrammi definiti dallo stesso autore «pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso» dell’esistenza.
Qui si legge che i poeti sono gli ultimi custodi delle solitudini: come Ingeborg e Paul alla ricerca di una verità che scompagina le loro esistenze. Resta il segno
indelebile della scrittura, il loro dialogo in versi che dilaga nelle lettere in citazioni e richiami.
Perché la poesia è porosa, riconosce Celan in uno dei suoi aforismi, e la vita vi filtra dentro e fuori, imprevedibilmente bizzarra. Fino ad annullarsi, per ambedue: Paul cadavere nella Senna e lei che lo ricorda nel suo romanzo Malina: «La mia vita finisce, perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione ...». Il suicidio dell’amato ha le stimmate di una storica tragedia che non trova pace, nemmeno nella poesia, loro ultimo rifugio." (da Luigi Forte, Ingeborg e Paul, l’amore sconvolto dall’Olocausto, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/07/'10)

Dramma d'amore e di poesia (L'Espresso)

Bachmann - Celan, il tormento e il dolore di due poeti innamorati (La Repubblica)

lunedì 26 luglio 2010

Leggo il mondo nella mia stanza


"«Cambiano cielo non cambiano cuore / quelli che fuggono di là dal mare» scriveva Orazio all’amico Bullazio, più di 2000 anni fa. E con ciò è detto tutto sulla smania contemporanea di girare ininterrottamente per il mondo globalizzato e turisticamente omologato. La dicotomia viaggiatori e sedentari, scarponi e zimarra, bussola e pantofole è comunque strutturale, fin dai tempi di Ulisse. Ariosto, che s’è inventato persino un viaggio sulla luna e che dello sviamento vagabondo ha fatto poema, scriveva però, nella terza satira: «Chi vuole andare a torno, a torno vada: / vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; / a me piace abitar la mia contrada. (…) Questo mi basta; il resto de la terra, / senza mai pagar l’oste, andrò cercando / con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra».
Non fu questa la sorte di Xavier de Maistre (1763-1852), fratello minore del più noto Joseph. Di famiglia savoiarda, quando nel 1792 i francesi invasero la sua terra, allora provincia del Regno di Sardegna, vagava tra Piemonte e Val d’Aosta, ufficiale dell’esercito sardo. A Torino, nel 1790, è per 42 giorni agli arresti nella cittadella in seguito a un duello per motivi d'onore. Da lì, per allontanarsi dagli esecrati francesi rivoluzionari, segue in Russia il maresciallo Suvorov. Al servizio dello zar continua la carriera militare e va a combattere in Georgia e nel Caucaso contro i ribelli (ci andrà anche Tolstoj, da quelle parti, e ancor oggi ci si massacra ...), e in Slesia e Polonia contro Napoleone. In Russia sposa una ricchissima principessa, dama di compagnia della zarina e zia acquisita di Puškin, si vede col fratello Joseph, plenipotenziario colà di Vittorio Emanuele I, riprende a viaggiare, torna in Savoia, a Parigi conosce Sainte-Beuve, che gli dedicherà un saggio; in Italia si muove tra Pisa, Livorno, Lucca, Roma, Napoli, Castellammare, incontra Manzoni; l’infelice Paolina Leopardi lo tradurrà nel 1832; torna in Russia dove morirà ultranovantenne. Nella sua lunga vita si occupò anche di ricerca scientifica e nella città natale, Chambéry, l’anno dopo l'esperimento aerostatico dei fratelli Mongolfier (1783), organizzò un volo salendo fino a 2000 mt.
Non si direbbe che uno così abbia scritto, oltre ad alcuni racconti notevolissimi (Il lebbroso della città di Aosta, I prigionieri del Caucaso, La ragazza siberiana) due libretti da autentico flâneur dell’anima, ricchi di rêveries e di fantasticherie, ma anche di piacevolissime digressioni morali e metafisiche, un po’ nello spirito delle Promenades roussoviane. Evidentemente un risarcimento della sua vita errabonda, forse ricordando Pascal: «Tutta l'infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli in una camera».
Nascono così Viaggio intorno alla mia camera (1796) e Spedizione notturna intorno alla mia camera (1799-1823), leggibili nell’ottima traduzione di Carmelo Geraci, autore anche della prefazione e di puntuali apparati, editi in volume unico da Moretti & Vitali. Grazia settecentesca, soprattutto nei deliziosi ritratti femminili, e brividi romantici nelle aperture sgomente e devote all’infinito spaziale e temporale: «Nell’immensità del tutto, l’impercettibile dissolvimento degli esseri e ogni sventura degli uomini non hanno importanza alcuna. (...) No, Colui che inonda di tanta luce l'oriente non l'ha fatto certo splendere ai miei occhi per sprofondarmi subito dopo nella notte del nulla».
A noi, iperscientisti, può apparire una fede ingenua, ma ci tocca l’immagine del vascello che «schiantato dalla tempesta continua a vagare per un po’ sul mare agitato». E subito dopo, ma in un capitolo a sé, spicca sul bianco della pagina: «Finché, infiltrandosi l’acqua a poco a poco fra le tavole sconnesse, il misero vascello scompare inghiottito dall’abisso; le onde lo ricoprono, la tempesta si placa e la rondine di mare rade la distesa solitaria e tranquilla dell’oceano».
C’è qualcosa di leopardiano in questa trasparente immagine dell’indifferenza della natura. E non c’è solo retorica nell’esclamazione: «O tempo, terribile divinità! Non mi spaventa la tua falce crudele; temo soltanto i tuoi orrendi figli, l’indifferenza e l’oblio, che trasformano in una lunga morte i tre quarti della nostra vita». Nel Viaggio la camera è quella della cittadella torinese in cui Xavier passa i 42 giorni di arresti, e c'è ovviamente ironia in questo coatto aggirarsi in una cella, sia pure confortata dalla presenza del domestico Joanetti e della cagnetta Rosina. L'ozio, la nostra perduta virtù, è produttivo: la poltrona è una carrozza che porta in giro il nostro Wanderer (Schubert è riferimento immediato per il lettore) e ogni oggetto della stanza suscita divagazioni narrative, ricordi, ritratti, vagheggiamenti amorosi. Il tono generale è quello del Viaggio sentimentale di Sterne, ma anche del Tristram Shandy, le cui trasgressioni formali e grafiche vengono riprese, sia pure addomesticate. Nella Spedizione è più intensa la meditazione malinconica, la divagazione più riflessiva. Il viaggio interiore si dipana in una mansarda torinese e dura solo le quattro ore che separano il narratore dalla partenza per la Russia. Si svolge quasi tutto a cavallo, ma di un alto davanzale su cui il protagonista si è rischiosamente inerpicato, attratto dal canto di una fanciulla, che intravede fuggevolmente nel balcone di sotto: di lei resterà, unica traccia, una pantofola abbandonata rientrando ... In groppa al suo davanzale il nostro eroe si protende verso l’illimite e commisura l’infinito col finito dell’uomo: «Spettatore effimero d’uno spettacolo eterno, l’uomo alza per un istante i suoi occhi al cielo, e poi li chiude per sempre! Ma durante quel rapido istante che gli viene concesso, un raggio consolatore, partendo da ciascuno dei mondi, da tutti i punti del cielo, dai confini dell’universo, viene a colpire il suo sguardo per fargli sapere che esiste una relazione tra lui e l’immensità».
Ma l’empito romantico, pur così presente nel montanaro Xavier, in entrambi i libri lascia spazio anche a una sentimentalità più Biedermeier, da camera appunto, in cui la nota preponderante è quella dell’affettuosità malinconica, di una quieta gratitudine che si inanella come un ghirigoro di clarino: «Sì, io mi lego con affetto sincero a tutto ciò che mi circonda. Amo le strade che percorro, la fontana che mi disseta; a malincuore mi separo dal ramoscello che ho staccato per caso da una siepe e, dopo averlo gettato via, continuo a seguirlo con lo sguardo, poiché avevamo già fatto conoscenza; rimpiango le foglie che cadono e persino lo zefiro che passa»." (da Gianandrea Piccioli, Leggo il mondo nella mia stanza, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/07/'10)

L'esperienza della lettura


"Vittorio Spinazzola studia la letteratura della modernità e dei suoi generi più caratteristici - a partire dal romanzo, anche nella sua declinazione più popolare - da oltre cinquant'anni e nel frattempo il punto di vista dal quale guardare la società in ogni caso non è più lo stesso. Per un verso è radicalmente cambiata la società, che allora - alla fine degli anni Cinquanta - si stava rapidamente trasformando da contadina a industriale, in un vorticoso aumento dei redditi, dei consumi e del benessere, per l'altro non sono più gli stessi gli strumenti dell'analisi e dell'interpretazione, allora prevalentemente ideologici, poi supponentemente 'scientifici', ora assai più empiricamente descrittivi, con in più un'ansiosa ricerca di senso storico, di prospettiva ordinatrice: 'Agli studiosi - speiga appunto Spinazzola - resta affidato il compito più che mai indispensabile di portare ordine'.
Nell'attraversamento di questo tumultuoso mezzo secolo, Spinazzola ha conservato, persino con ostinazione, una sua intima o quasi lineare coerenza pur trasformando metodi e criteri, rivedendo giudizi e pregiudizi e abbandonando al loro destino, se non tout-court le ideologie, certo gli schemi sociali e critici che queste avevano prodotto e imposto, e gli è straordinariamente riuscito di farlo perché sempre nel suo studio aveva privilegiato l'esplorazione del panorama sociale e testuale e la sua successiva puntuale descrizione, prescindendo da drastici giudizi di vlaore estetico o politico che fosse. I suoi studi così hanno meglio retto all'usura del tempo di tanti altri somemrsi dal cambiamneto e ormai definitivamente inutilizzabili.
L'esperienza della lettura (Unicopli), il suo libro più recente, riassume esemplarmente un lungo percorso al di là del marxismo e dell'impegno, fedele tuttavia alla valorizzazione di quella che egli stesso definì La democrazia letteraria (1984) riconoscendone il primato nell'esercizio molteplice della lettura e nella centralità del rapporto tra lo scrittore e i suoi lettori, nel quale acquista rilievo eminentemente morale la scelta di ognuno di avvicinarsi a un testo responsabilmente scelto e quindi di giudicarlo in relazione ai bisogni che erano stati all'origine dell'incontro e delle domande cui si voleva dare risposta. 'La liberalizzaizone e la democratizzazione dei rapporti tra chi scrive e coloro che leggono', proposti come 'l'effetto del grande moto di rivalsa in nome della comunicatività agevole', sono quel che resta dell'antico primato ideologico dell'impegno e dei suoi risvolti pedagogici, rinunciando a ogni 'linea di condotta', a qualsiasi primato classista, a tutte le aspirazioni di palingenesi rivoluzionaria: 'Il proletariato moderno non si è fatto portatore di una sua proposta adulta di moduli espressivi atti a oltrepassare l'orizzonte della società borghese'.
Assemblando nove studi degli ultimi venticinque anni, Spinazzola annuncia che, oltre il modernismo e le sue trasgressioni antiborghesi 'di indole avanguardistica', ha inizio un processo 'di riconciliazione con la modernità' - un tempo che lui fa coincidere con quello della presenza del libro a stampa -, anzi persino di 'rilegittimazione delle sue istituzioni letterarie' a cominciare dal romanzo, prontamente 'riciclato' insieme ad altri 'ingredienti vecchi e nuovi o seminuovi' e poi coniugato in una 'moltiplicazione straordinaria di generi, specie, famiglie', che ne attestano l'inesaurita vitalità.
In questa disordinata effervescenza non si tratta di imporre un ordine estetico o ideologico, ma di riconoscere la pluralità delle esperienze di scrittura e più ancora di lettura, rispettando 'tutti i gusti e le preferenze emergenti nel pubblico', unico, indiscusso protagonista dell'avventura della parola e dell'invenzione in questo mondo che non sa più dire dove andrà a finire, ma è ben cosciente di voler consumare la propria esperienza con la maggior soddisfazione possibile." (da Cesare De Michelis, La letteratura alla portata di tutti, "Il Sole 24 Ore Domenica", 25/07/'10)

Jane Goodall: cinquant'anni a Gombe


"'Se chiudo gli occhi, i primi giorni tornano così vividi. Riesco a ricordare così bene il senso di irrealtà che provavo mentre salivo a nord del lago Tanganika verso gombe, oltrepassando le valli piene di foreste. Avrei trovato gli scimpanzé?, mi chiedevo. E poi, oh sì, come ricordo David Greybeard, il mio scimpanzé preferito di tutti i tempi ...'. Ci si può innamorare di uno scimpanzé? Il lungo viaggio alle radici dell'uomo dell'etologa eretica cominciò proprio nell'estate di cinquant'anni fa.
Oggi Jane Goodall, 76 anni, è anche il nome di un istituto con una ventina di sedi sparse nel mondo e Gombe è diventato un santuario della ricerca scientifica. Ma quando nel 1950 l'antropologo Louis Leakey la spedì in Tanzania, quella ragazza non era neppure laureata. Figuriamoci la sorpresa il giorno in cui Jane presentò le proprie conclusioni. Uomo e scimmia hanno lo stesso tipo di dieta mista (carnivora e vegetale) e costruiscono utensili: due caratteristiche che si credevano solo umane. Leakey rispose, sconvolto, con un cablo: 'Adesso dobbiamo ridefinire la nozione di 'utensile' e la nozione di 'uomo': oppure dobbiamo accettare gli scimpanzé come esseri umani'. [...]
In ottobre l'etologa ricostruirà il suo cammino in un nuovo libro, Jane Goodall: 50 anni a Gombe. Ma già ora mette a confronto ieri e oggi: 'Nei primi giorni mangiavamo intorno al fuoco dell'accampamento ogni sera e lavoravamo alla luce delle lampade: oggi la maggior parte degli edifici sono dotati di pannelli solari e mangaimo ovviamente al coperto. Le nostre prime mappe per seguire gli spostamenti degli scimpanzé erano realizzate da foto aeree in bianco e nero: oggi usiamo il Gps e i satelliti'. Ma certe cose non sono cambiate. 'Ogni volta che salgo in cima - oggi la chiamano Cima Jane - e mi siedo a guardare quel panorama, posso sentire ancora quello che provavo da giovane: l'eccitamento di non sapere che cosa avrei visto, quello che avrei scoperto'.
Dopo una controversa love story proprio con l'antropologo Leakey, Jane sposò Hugo Van Levick, il fotografo del National Geographic sceso a Gombe per illustrare le sue scoperte, e poi Derek Bryceson, il direttore dei parchi della Tanzania che ha difeso il suo lavoro dagli speculatori turistici. Oggi l'etologa gira il mondo per continuare a difendere le sue scoperte e il suo santuario. 'A volte bisogna lasciare ciò che si ama per salvarlo. E così eccomi ancora qui in viaggio: cercando di raccogliere supporto. Pensando sempre a Gombe'." (da Angelo Aquaro, L'etologa Jane Goodall racconta in un libro la sua vita a Gombe, "La Repubblica", 25/07/'10)

From Savage to Savvy: A New Understanding of Chimps (Wall Street Journal)

Edwige, l'inséparable

"Assenza, più acuta presenza" (Attilio Bertolucci)

"Un orfano inconsolabile di 89 anni. Edgar Morin si definisce così, da quando, il 29 febbraio di due anni fa è scomparsa la moglie, l'amatissima Edwige. Per il celebre intellettuale francese, quella donna di 76 anni era stata tutto, 'moglie, amante, madre e figlia'. A lei era unito da un legame profondo e vitale durato tre decenni: 'Eravamo inseparabili, radicati l'uno nell'altra, pur conservando ciascuno la propria personalità. Vivevamo un amore intenso e necessario, fonte continua di gioia e poesia. Con lei la vita quotidiana era un paradiso e la nostra casa un nido di felicità. A dieci anni ho perso mia madre, so cosa significa essere orfano. Alla morte di Edwige ho riprovato le stesse sensazioni, mi sono sentito orfano una seconda volta'.
Da tale straziante condizione è nato un libro bellissimo e struggente, attraversato dal dolore e dominato dall'amore: Edwige, l'inséparable (Fayard). Come già André Gorz in Lettera a D. Storia di un amore (Sellerio) e Jacques Le Goff nelle pagine Con Hanka (Laterza), Morin ha sentito il bisogno di confrontarsi con il ricordo della propria storia di coppia, affrontando un terreno ad alto tasso emotivo, poco consono al razionalismo degli intelelttuali. L'ha fatto con sincerità disarmante. scrivendo un libro disperato, testimonianza della sofferenza di chi rimane, ma soprattutto omaggio a colei che non c'è più. 'Ho scritto il libro per far conoscere mia moglie, una persona segreta e quasi misteriosa. Volevo mostarne le qualità e la forza, pur senza nasconderne i difetti', racconta lo studioso, accogliendoci nella sua casa parigina piena di libri, dove si aggira silenziosa Herminette, la gatta tanto amata da Edwige. 'Mentre scrivevo, piangevo e soffrivo, ma continuavo a starle vicino. Era un modo per lottare contro la morte, facendo durare la sua memoria'.
Morin aveva incontrato Edwige nel 1961 a santiago del Cile, rimanendo folgorato dalla sua bellezza. La giovane donna però era sposata, con una figlia. I due dovettero attendere diciassette anni per ritrovarsi in Francia, dove divennero immediatamente amanti. Cominciò così l'appassionante storia d'amore rievocata nelle pagine del libro, nella cui seconda parte, adottando la forma del diario, l'autore del Metodo ripercorre invece il calvario della malattia. [...] Citando il poeta Khalil Gibran, Morin ricorda che spesso si riconosce la grandezza di un idillio nel momento in cui lo si perde: 'Sarebbe meglio rendersene conto prima, misurando la profondità e l'importanza di una relazione mentre la viviamo. Purtroppo molto spesso non è così. L'immensità del vuoto lasciato diventa allora la misura dell'amore appena perso'. [...]" (da Fabio Gambaro, Edgar Morin: è morto il mio amore, adesso sono orfano, "Il Venerdì di Repubblica", 23/07/'10)

Must You Go?: my Life with Harold Pinter

giovedì 22 luglio 2010

Il sorpasso dell'e-book

"Lunedì è stato un giorno memorabile nella storia dei libri, se mai esisteranno ancora in futuro. Amazon - il principale negozio americano di libri on line - ha annunciato infatti che negli ultimi tre mesi le vendite di libri per Kindle hanno superato la vendita dei libri di carta rilegati. In questo trimestre Amazon ha detto di aver venduto 143 libri Kindle ogni 100 libri rilegati, compresi i libri per i quali non esiste la versione supportata dal lettore elettronico. Secondo le dichiarazioni di Amazon, anche il ritmo accelerato di questa trasformazione è notevole: soltanto nelle ultime quattro settimane le vendite solo salite facendo registrare un rapporto di 180 libri digitali venduti ogni 100 copie cartacee. Amazon ormai ha in vendita 630.000 libri leggibili su Kindle, una piccola percentuale, però, rispetto ai milioni di libri che vende sul proprio sito. I bibliofili che deplorano il calo delle vendite di libri rilegati dovrebbero fare i conti con la realtà e diventare pragmatici: lo afferma Mike Shatzkin, fondatore e direttore esecutivo di Idea Logical Co., che offre consulenze agli editori in tema di trasformazioni digitali. «Questo giorno doveva pur arrivare» ha detto Shatzkin, il quale prevede che entro dieci anni al massimo, meno del 25% di tutti i libri saranno venduti in edizione cartacea. Il cambiamento secondo Amazon è «sbalorditivo, se si considera che vendiamo libri da 15 anni e i Kindle soltanto da 33 mesi» ha dichiarato il direttore esecutivo Jeffrey P. Bezos. Tuttavia i libri cartacei sono tutt'altro che scomparsi. Le vendite di settore hanno fatto registrare un aumento del 22 per cento quest'anno, secondo l'Associazione degli editori americani. In questa cifra non rientrano naturalmente i libri Kindle, 1,8 milioni dei quali pubblicati prima del 1923 (e che avendo il copyright scaduto sono di pubblico dominio). Amazon non ha precisato in ogni caso il rapporto tra le vendite di libri in edizione economica e gli ebook, ma si ritiene che i primi superino ancora i secondi. A detta di Shatzkin, la grande sorpresa è dovuta al fatto che il sorpasso è avvenuto proprio nel periodo in cui Kindle ha dovuto affrontare una seria minaccia dal punto di vista della concorrenza: l'Apple iPad - messo in commercio ad aprile - è venduto come un dispositivo di lettura, i cui libri sono acquistabili dal suo stesso ebook store. Nondimeno le vendite di Kindle sono cresciute di mese in mese per tutto il trimestre, conferma Amazon. Il successo di Kindle è riconducibile al fatto che si registra una vera esplosione di vendite in tutto il settore degli e-book. Secondo l'Associazione degli editori americani, le vendite fino a tutto maggio degli e-book quest'anno sarebbero quadruplicate. Uno dei motivi per i quali le vendite di libri Kindle hanno retto è che i proprietari di iPad e di altri dispositivi portatili di lettura comperano libri Kindle, che possono leggere sui loro computer, iPhone, iPad, BlackBerry e telefoni Android. Invece, eccetto i libri gratuiti privi di diritti d'autore, i proprietari di Kindle devono comperare o scaricare i contenuti desiderati soltanto tramite Amazon. «Ogni volta che vendono un Kindle agganciano il consumatore» ha chiosato Shatzkin. Il tasso di crescita delle vendite di Kindle è triplicato da quando Amazon ha diminuito il prezzo del lettore facendolo passare da 259 dollari a 189, poco dopo che Barnes & Nobles aveva per primo ridotto il prezzo del suo lettore Nook da 259 dollari a 199. Più o meno nel medesimo periodo, Apple ha venduto tre milioni di iPad. Secondo gli analisti, l'annuncio di Amazon potrebbe mitigare le preoccupazioni degli investitori, legate al fatto che iPad minaccia le vendite di Kindle. Il prezzo delle azioni di Amazon è sceso negli ultimi tre mesi del 16 per cento, in parte proprio per questi timori. Aaron Kessler, direttore di Internet and digital media equity research per ThinkEquity, ha detto: «Le preoccupazioni per le vendite di iPad e legate al fatto che Amazon avrebbe potuto perdere quote di mercato nel settore libri, si sono riflesse negativamente sulle azioni»." (da Claire Cain Miller, Il sorpasso dell'e-book. Carta e copertina addio: il libro vinrtuale vende di più, "La Repubblica", 21/07/'10)

Lo scrittore: alla fine ci abitueremo guadagneremo lettori salvando le foreste

Gli editori: l'e-book non può attendere

La guerra dell'e-book

Leggere digitale


"Provate a digitare la parola "google" su Google ricerche in www.google.fr e sullo schermo del vostro computer apparirà che il termine cercato è presente in "circa 2.090.000.000" documenti. Se l'irriverenza non vi preoccupa, ripetete l'operazione cercando sempre su Google ricerche la parola "Dio" e otterrete 33.000.000 di documenti (su www.google.it il risultato dà rispettivamente 2.150.000.000 e 72.200.000, NdT). Questo semplice raffronto è sufficiente a comprendere perché, negli ultimi mesi, tutti i dibattiti concernenti la costituzione di raccolte digitali siano stati seguiti da presso da continue iniziative dell'azienda californiana. Quanto meno finoa oggi, nel mondo dell'elettronica è una stessa superficie luminosa del monitor del computera consentire di leggerei testi, a prescindere dal loro genere o dalla loro funzione. Si è così spezzata la relazione che, in tutte le culture scritte anteriori, metteva strettamente in comunicazione tra loro oggetti, generi e usi. È questa relazione che organizza le differenze immediatamente percepite tra i diversi tipi di pubblicazioni stampate e le attese dei lettori, accompagnati nell'ordine o nel disordine dei ragionamenti dalla tipologia stessa del supporto che li ospita. È questa stessa relazione a rendere visibile la coerenza delle opere, imponendo la percezione dell'entità testuale, perfino a colui che vuole leggerne soltanto alcune pagine. Nel mondo della testualità digitale, i discorsi non sono più inscritti negli oggetti, che permettono di classificarli e riconoscerli nella loro identità. Si tratta invece di un mondo di frammenti decontestualizzati, contrapposti, ricomponibili all'infinito, senza che sia necessaria o auspicata la comprensione della relazione che li iscrive nell' opera dalla quale sono stati estratti. Ed è sicuro che i nuovi modi di leggere, discontinui e frammentari, mettono a repentaglio le categorie sulle quali si basa il rapporto con i testi e le opere, concepiti e adeguati nella loro singolarità e coerenza. Sono queste proprietà della testualità digitale e della lettura di fronte a uno schermo che il progetto commerciale di Google intende sfruttare. Il suo mercato è quello dell'informazione. I libri costituiscono un immenso filone al quale Google può attingere. Da qui la percezione ingenua che ogni libro possa essere una banca dati che fornisce "informazioni" a coloro che le cercano. Soddisfare questa domanda e ricavarne profitto: questo è lo scopo primario dell'azienda californiana. Questa geniale scoperta di un nuovo mercato e i progressi tecnici che conferisconoa Google un monopolio pressoché assoluto nella digitalizzazione hanno garantito all' azienda vantaggi redditizi in questa logica commerciale. Essa presuppone la conversione in formato elettronico di milioni di libri. Esige, di conseguenza, intese già intercorse o da firmare con le grandi biblioteche del mondo ma anche una digitalizzazione di vasta portata, poco preoccupata nei confronti del rispetto del copyright, e la costituzione di una gigantesca banca dati, in grado di assorbirne sempre più e di archiviare le informazioni personali sugli utenti che adoperano i servizi proposti da Google. Tutte le controversie in corso derivano da questo progetto. Da qui hanno avuto origine i processi intentati da alcuni editori per la diffusione illegale di opere sotto regime di diritto d'autore, oppure l'intesa siglata tra Google, l' Associazione degli Editori e la Società degli Autori americani, che prevede una condivisione dei diritti richiesti per accedere a libri protetti da copyright (37 per cento per Googlee 63 per cento per gli aventi diritto). Questa "intesa" però preoccupa il Dipartimento della Giustizia perché potrebbe rappresentare una violazione della legge antitrust. I rappresentanti dell' azienda americana girano il mondo per rendere note le loro buone intenzioni: democratizzare l'informazione, rendere accessibili i libri non disponibili, retribuire cor rettamente autori ed editori, favorire una legislazione sui libri cosiddetti "orfani". E, naturalmente, garantire che manterranno "per sempre" le opere a rischio o che corrono pericoli nelle biblioteche nazionali. Questa enfasi sulla democratizzazione universale non è sufficiente ad allontanare le preoccupazioni. Niente garantisce che in futuro l'azienda, in situazione di monopolio, non imporrà diritti di consultazione o spese di abbonamento considerevoli a dispetto dell'ideologia del bene pubblico tanto strombazzata al momento. Già adesso esiste un legame preciso tra gli annunci pubblicitari, che garantiscono a Google profitti non indifferenti, e la "gerarchizzazione" delle informazioni che emergono da ogni ricerca su Google Ricerche.È in questo contesto che occorre collocare i dibattiti nati dalla decisione di talune biblioteche di affidare la digitalizzazione di tutte le loro raccolteo di una partea Google.È necessario proseguire lungo questa strada? La tentazione è forte nella misura in cui i budget normalmente non consentono di digitalizzare molto materiale e in tempi rapidi. Da qui nascono le trattative tra la Biblioteca Nazionale di Francia (Bnf) e Google, come pure, del resto, i disaccordi sull'opportunità di un tale iter. Da notare, la differenza radicale che distingue le motivazioni, le modalità e le utilizzazioni della digitalizzazione degli stessi libri: quando è esercitata dalle biblioteche pubbliche e dall'azienda californiana, tale circospezione è più che giustificata e potrebbe o dovrebbe portare a non cedere alla tentazione. L'appropriazione privata di un patrimonio pubblico, messo a disposizione di un'azienda commerciale, può sembrare sconcertante. Oltretutto, in innumerevoli casi, l'uso da parte delle biblioteche delle loro stesse raccolte digitalizzate da Google (anche se si tratta di opere di pubblico dominio) è sottoposto a condizioni inaccettabili, come la proibizione di sfruttare gli archivi digitali per più decenni. Altrettanto inaccettabile è un altro segreto: quello che riguarda le clausole dei contratti firmati con ogni biblioteca. Le giuste reticenze nei confronti di una partnership così azzardata hanno molteplici conseguenze. Prima di tutto, esigere che i finanziamenti pubblici dei programmi di digitalizzazione siano all' altezza degli impegni e delle aspettative e che gli Stati non rifilino agli operatori privati investimenti culturali di loro competenza. In seguito, decidere le priorità, senza credere che qualsiasi "documento" si presti a diventare digitale; poi, a differenza della miniera di informazioni di Google, mettere insieme raccolte digitali coerenti. Urgente oggiè decidere comee da chi debba essere eseguita la digitalizzazione del patrimonio scritto, sapendo che "la repubblica digitale del sapere" non deve essere confusa con il grande mercato dell'informazione al quale Google e tanti altri propongono i loro prodotti." (da Roger Chartier, Leggere digitale, "La Repubblica", 22/07/'10)

I libri di Chartier su IBS

martedì 13 luglio 2010

Che fine faranno i libri?


"Nella biblioteca del Dipartimento di fisica della Stanford University stanno allestendo, da alcuni mesi, la prima biblioteca senza libri: i libri di carta verranno trasferiti in un magazzino a 38 miglia di distanza e nell'edificio rimarranno soltanto pochissimi volumi cartacei e molti tavoli con computer e Kindle2 che garantiranno l'accesso a 28 database online e a oltre dodicimila riviste scientifiche. Non si tratta di un solerte adeguamento a una moda, ma della semplice soluzione a un problema ormai ingestibile: nella biblioteca, come ha affermato la responsabile Stella Ota, entrano ormai centomila libri all'anno (273 al giorno). Se tutte le biblioteche universitarie degli Stati Uniti adotteranno, come pare stia accadendo, questa soluzione, la produzione cartacea dei libri scientifci e in generale di studio, sparirà in una decina di anni. E i libri di saggistica che continueranno a uscire in forma cartacea saranno sempre più costosi (e nelle biblioteche, e sui propri computer o lettori digitali, si potrà consultare, gratis o quasi gratis, la loro versione digitale).
Se questo è quello che accade nelle biblioteche, osserviamo cosa sta succedendo nelle librerie americane: la vendita dei libri elettronici si aggira tra il 3% e il 5% del mercato dei libri. Ma si prevede (fonte: Mike Shatzkin, di Idea Logical Co.) che, già nel 2012, la percentuale sarà tra il 20% e il 25% dei libri venduti, ai quali andrà aggiunto un 25% di vendita online. Se le cose andranno così, fra tre anni la metà dei libri venduti negli stati Uniti sarà in formato digitale. Sembrano crederlo gli acquirenti di lettori digitali: alla fine del 2010 la Apple avrà venduto 5,5 milioni di iPad, Amazon 3 milioni di Kindle e la più grande catena libraria statunitense, la Barnes & Noble (che ha già 1,2 milioni di titoli nel suo eBookstore), un milione di Nook.
Questa situazione si ripeterà, prima o poi, anche da noi e la domanda è: quanto ci metterà la gente a preferire i libri digitali ai libri di carta, così come è accaduto per la musica (dove l'industria dei dischi e dei cd è stata sconfitta dalla vendita della musica online)?
Il passaggio dall'editoria analogica a quella digitale metterà in luce, con ancora maggior evidenza, i problemi dell'industria libraria. In Italia, val bene ricordarlo, ci sono 2900 case editrici che pubblicano 61000 titoli l'anno. Di questi, 6 titoli su 10 non vendono praticamente una copia. Come ho scritto in Che fine faranno i libri (Nottetempo), c'è anzitutto una crisi di sovrapproduzione: come nella maggior parte dei grandi Paesi, si producono annualmente troppi libri e la maggior parte di essi non riesce a trovare nemmeno un canale distributivo. Anche perché le librerie, anche quelle più grandi, non potrebbero mai esporre tutta quella quantità di volumi (e questo favorirà certamente lo sviluppo delle librerie online). L'editoria digitale, rendendo immateriali i libri, potrà proporre, a costi ridotti, tutti i libri che si vuole, senza limitazioni di spazio e numero. Attraverso i vari motori di ricerca sarà possibile recuperare sul proprio computer o lettore digitale tutti i libri che ci interessano e scoprirne (come quando si scorrono le paginate di Google) di nuovi e insospettati. Tutto sarà disponibile, contemporaneamente. Non esisteranno più i libri esauriti e irrintracciabili. Chiunque potrà scrivere quel che vuole e metterlo a disposizione della comunità dei potenziali lettori.
Questa nuova realtà arricchirà il sapere e le possibilità di accedervi, oltretutto a basso costo. Anche nel campo dei libri, la Rete si dimostrerà essere una grande rivoluzione democratica: tutto a disposizione di tutti, e a basso costo, quasi senza limitazioni (che non siano le barriere linguistiche o le complessità dei saperi). Ma a parte l'utilità dei motori di ricerca, nessuno sarà in grado di selezionare e possedere la sterminata offerta che la Rete gli proporrà. Se chiunque, ad esempio, potrà scrivere un romanzo e metterlo a disposizione degli altri in rete, verremo, ancor più di quanto avviene oggi, subissati dalle storie: come scegliere?, come individuare nuovi autori interessanti?, come curare a colpo sicuro il genere di libro che fa per noi?
Fino a oggi la selezione è stata fatta (con criteri non sempre indiscutibili, ma tutto sommato efficaci) dagli editori: la loro funzione di ricerca,s elezione, correzione e promozione è stata fondamentale. Qualcuno è rimasto fuori, ha dovuto sudare sette camicie per farsi notare e apprezzare, o è stato scoperto postumo, ma è indubitabile che la cultura è andata avanti proprio grazie agli editori che hanno saputo separare il grano dal loglio (zizzania). Anche se spesso mossi da autentica passione e gusto per le belle storie, non lo hanno fatto, disinteressatamente. Il possibile successo, e il conseguente ricavo e conomico, sono stati le loro molle. Ma in futuro chi opererà questa selezione? E che convenienza avrà a farlo?
Dinnanzi al maremagnum della produzione digitale, nasceranno, nuove figure professionali. Come gli 'aggregatori' per i giornali (che selezionano dalla rete notizie su vari argomenti e le mettono insieme, proponendole in un blog personale o in un vero e proprio 'giornale dei giornali' online), ci dovranno essere dei 'selezionatori' per i libri: persone che leggono tutto e scelgono il meglio. Faranno dei rapporti periodici a pagamento indicando cosa val la pena leggere e perché. Sarà tutto sommato più facile che nell'editoria tradizionale odierna, smascherare coloro che sceglieranno per altri interessi che non siano la qualità. Si creeranno, come già oggi avviene con i blog, dei rapporti di fiducia che permetteranno di scegliere con una certa sicurezza. Come ci sono coloro che acqusitano, ad esempio, un libro di una certa casa editrice, anche senza conoscerne autore e contenuto, perché essa ha saputo conquistarsi la fiducia con la bontà delle proposte e con la cura della realizzazione editoriale, così ci si indirizzerà verso certi 'selezionatori' che hanno dimostrato a noi (o a qualcuno che ce li consiglierà) di saper scegliere i buoni libri, magari motivando, in modo esaustivo e convincente le proprie scelte (cosa che purtroppo i recensori sulle pagine culturali dei giornali non fanno quasi più). Tornerà in questo modo il ruolo essenziale della critica.
La grande sfida che l'editoria elettronica propone è quindi quella della 'qualità'. Anche nel caso dei libri digitali la cura editoriale, la bontà dell'eventuale traduzione, la ricchezza e l'affidabilità degli apparati, saranno decisivi per la qualità di un libro. I puri testi sono infatti solo una parte dei libri. Il grande lavoro di trasformazione che c'è dietro, e che giustifica quasi sempre il loro prezzo, non sparirà e i veri lettori saranno smepre disposti a pagare per questo. I redattori e i correttori di bozze avranno un grande ruolo anche in un auspicabile futuro dove si premierà sempre più, dal momento che la possibilità di scelta è quasi infinita, la cura dei libri (seppur immateriali).
Nel periodo intermedio, che durerà ancora degli anni, in cui coesisteranno libri cartacei e libri elettronici, i librai (che insieme agli stampatori sono la categoria editoriale più a rischio) dovranno diventare sempre più dei fornitori di servizi e, soprattutto, operare scelte qualitative forti, selezionando per la prorpia clientela il meglio della produzione. Le librerie si salveranno se diventeranno dei punti di piacevole aggregazione, dove si possa anche bere e mangiare cose buone come buoni sono i libri che vengono offerti. Ma le librerie dovranno essere dei forum per gli autori. Infatti, dal momento che il copyright con i libri elettronici diverrà sempre più incerto e debole, gli autori torneranno a guadagnare con letture pubbliche (come guadagnavano Omero e Arisoto, che non hanno mai visto un soldo di diritti d'autore?), spettacoli, conferenze e lezioni pubbliche. Le librerie saranno showroom per lettori che cercano qualcosa di nuovo." (da Francesco M. Cataluccio, All'e-book chiederemo qualità, "Il Sole 24 Ore Domenica", 11/07/'10))

Barnes & Noble è in vendita. La sfida del libro digitale impone nuove strategie (Il Sole 24 Ore)

La libraia di Orvieto


"«Guardatela quella rupe giallastra. Un piedistallo di tufo dalle pareti scoscese, circondato da boschi e vigneti. Regge una città antica e bellissima, ma non più a dorso di mulo ci si arriva»: così ha inizio l'esordio narrativo di Valentina Pattavina La libraia di Orvieto (Fanucci), con uno sguardo amorevole che quasi si traduce in versi di poesia. Oggetto di questo sguardo una città unica, un palcoscenico naturale dove mettere in scena una storia dalle sfumature giallo-nere.
Da un po’ a Orvieto non si arriva più a dorso di mulo, come facevano i pellegrini di una volta, ma a permettere la salita è la funicolare: la stessa che da tre anni porta alla Scuola librai i «pellegrini del libro». E libraia è Matilde, protagonista quarantenne, donna inquieta e sola, in fuga prima da Milano, poi da Brunico, poi da Urbino, fino a giungere a Orvieto, dove si rianima realizzando finalmente il sogno di una vita di lavorare in libreria. In un borsone le poche cose a cui tiene: un paio di cambi di vestiario e due libri da cui è inseparabile, La storia di Elsa Morante e Il libro di Giobbe.
Da questa cittadina di provincia apparentemente tranquilla riparte la vita di Matilde, che scopre il fascino e il mistero della «meravigliosa» provincia italiana. Attorno al proprietario della libreria, il professor Paolini, ruotano personaggi bizzarri e imprevedibili, che riportano alla superficie segreti e fatti di cronaca che sembravano dimenticati. In un groviglio che mette assieme episodi del passato che riaffiorano alla memoria della protagonista e segreti nascosti nelle case e nei boschi di Orvieto, cresce un intreccio a tratti confuso, come la protagonista. Ogni tanto la narrazione si perde per i vicoli e i boschi e per riafferrarla bisogna prendere la funicolare e tornare nel centro della cittadina, da cui la storia è partita.
ll romanzo della Pattavina è come una bella libreria in cui si entra e si resta affascinati, ma non si capisce bene quale sia l’ordine dei libri e con quale criterio siano disposti; eppure, nonostante il disordine, ci si orienta senza sforzo e si riesce a trovare subito un buon libro." (da Rocco Pinto, La libraia di Orvieto, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/07/'10)

Scrittori giocatori


"Denso, colto, articolato, organico: così si presenta il libro Scrittori giocatori (Einaudi) del grande enigmista Stefano Bartezzaghi.
Denso, perché l'incrocio tra la competenza interpretativa dei testi letterari di Bartezzaghi e la precisione millimetrica della sua misura analitica compone, anzi scompone e ricompone, le figure di un gruppo di autori come se fossero varianti di un medesimo Autore sotterraneo (o celeste?). Un tale Autore, che di volta in volta indossa le poetiche e le peculiarità di Dante o di Proust o di Arbasino o di Nabokov, risulta altissimamente complesso, sebbene individuato secondo l'eletta prospettiva del suo rapporto con il gioco.
Appare del tutto plausibile che questo Autore percepisca contemporaneamente attrazione e pudica resistenza nei confronti del gioco (quando indossa i panni di Levi, per esempio), profonda conoscenza dei suoi meccanismi (Dante), promessa di libertà (Cage), ispirazione narrativa (Calvino) e così via. Il gioco infatti in questo libro è soprattutto il gioco che si può fare con il linguaggio, sia come nostro strumento sia come nostro complice, tanto nei panni del complice quanto in quelli dell’avversario.
Qui Bartezzaghi generosamente mette a sua volta in gioco le proprie conoscenze enciclopediche per avvicinarsi e cogliere un punto delicatissimo, per ciò che riguarda il linguaggio, e cioè il plesso in cui si toccano la possibilità di generare un senso, quella di generare sovrasensi non referenziali e persino quella di non generare alcun senso, di cancellarlo addirittura.
Alcune di queste possibilità pertengono al linguaggio poetico, come la rima, altre all’enigmistica (per dirla grossolanamente), come l’acrostico. Ma tutte segnano nel profondo l’anima di questo ultra-Autore.
In ciò il libro oltre a essere molto colto risulta assai articolato, tanto che declinazioni apparentemente opposte nell’atteggiamento relativo del gioco, come nella modalità Levi e in quella Cage, risultano comporsi in una linea di polarità e non di contraddizione.
Il punto è che lo spettro che va dall’assenza di senso alla compresenza di molteplici sensi, e che attraversa non solo le poetiche degli autori ma anche le fasi diverse della vita di noi individui (dall’infanzia alla saggezza, potremmo dire), è il vero argomento di questo saggio. Che risulta perciò molto organico, nel comporre insieme saggi di distinta origine.
Con Bartezzaghi questo capita sempre, come se in lui fosse chiarissimo un punto preciso e indiviso da raggiungere con le parole, proprie e altrui, anche se la marcia di avvicinamento impone di attraversare una pluralità di oggetti impressionante.
Il libro non è riassumibile, e nemmeno etichettabile come saggio letterario piuttosto che banco di prova della cultura enigmistico-linguistica. Tra le due figure del detto e del non-detto, che animano l’atteggiamento dell’ermeneuta, ancora una volta Bartezzaghi riesce a insinuare una terza figura, potremmo chiamarla del «come dirlo e come non dirlo», dentro cui le energie del gioco sembrano essere all’apice della potenza. Incredibile, poi, come l’autore riesca, dopo averli frullati nell’ultra-Autore, a restituirci i singoli autori come rivitalizzati.
Questo risultato è prezioso perché ci riconcilia con il mondo delle cose e dei fatti, al quale gli autori e le loro pagine pur sempre e per sempre appartengono. Infatti le incursioni nel codice genetico del linguaggio spesso provocano nel lettore uno stato di smarrimento, di patimento dovuto alla progressiva rarefazione dell’aria, salendo di sovrasenso in sovrasenso, di armonico in armonico, dove ci si allontana dalle cose, da suono di base, dal significato bruto.
Un panico di sovraffaticamento cerebrale e di perdita del corpo può ingenerarsi. Invece questo timore a poco a poco rientra e un senso della realtà riemerge dietro i giochi di e con le parole. Si prenda come esempio di questo tratto generale dei libri di Bartezzaghi il capitolo qui dedicato a Primo Levi.
In Levi la presenza etica del testimone è identica a quella del manutentore del proprio strumento di lavoro (il linguaggio).
La stessa identica. Con Levi posto ad esempio, possiamo andare alla ricerca della stessa sintesi anche negli altri. Siano essi Calvino, Dossena, Capote, Foster Wallace. Che sia, questo, il principio di individuazione di ciò che chiamiamo «autore»?" (da Dario Voltolini, Il gioco del mondo fra Dante e Calvino, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/07/'10)

Impiegati da romanzo


"Nel giro di pochi mesi, una serie di saggi, romanzi, racconti, reportage hanno condotto l'attenzione su una figura della società contemporanea tanto potentemente centrale quanto ostinatamente opaca: l'impiegato. Come se non bastasse, decine di blog insistono sullo stesso tema. Basta ricordare Vita d'Azienda, Vita d'Ufficio, Vita da Impiegati, Hobby da Impiegati o Impiegati si nasce, tutti siti che trovano il loro coronamento ideale nel libro fotografico (prolungamento iconico di una celebre mostra di qualche anno fa) di Jan Banning, Burocrati. Uno sguardo negli uffici di tutto il mondo. Non sempre i risultati della sua inchiesta colpiscono nel segno, sebbene alcuni scatti sull'amministrazione statale del Mozambico restino memorabili. Ma parlavamo dell'editoria. Ebbene l'anno scorso, in rapida successione, sono usciti due classici dell'argomento: il romanzo di Hans Fallada E adesso, pover'uomo? (Sellerio), e il racconto di Herman Melville Bartleby (Portaparole). Nel primo testo, datato 1932, lo scrittore tedesco descrive il fenomeno della proletarizzazione dei ceti medi, mentre nel secondo, apparso nel 1853, il narratore americano eleva l'immagine dello scrivano a emblema di una resistenza e di una renitenza metafisica nei confronti del mondo. E' soprattutto quest'ultimo capolavoroa rappresentare un punto di riferimento inevitabile per chiunque voglia entrare nella materia. Lo dimostra il recente romanzo di Philippe Delerme La parte migliore del giorno (Frassinelli), che ricorda sia il testo di Melville, sia l'elegante omaggio dedicatogli dallo spagnolo Enrique Vila-Matas con Bartleby e compagnia (Feltrinelli lo pubblicò nel 2002). Piccolo impiegato dalla vita tranquilla e metodica, l'eroe di Delerme conoscerà un'improvvisa celebrità proprio con l'apertura di un suo blog intitolato, neanche a dirlo, "www.antiazione.com". Assai più brillante di questa esile trama, risulta comunque il divertimento di Georges Perec edito da Einaudi: L'arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento. Addirittura squisito, è poi un piccolo classico dimenticato, Le domeniche di Jean Dézert (Excelsior 1881), che l'autore francese Jean de la Ville pubblicò nel 1914, poche settimane prima di essere ucciso al fronte. Impiegato presso la Direzione Logistica del Ministero per l'Incoraggiamento del Bene, il suo personaggio riempie il vuoto dei giorni festivi seguendo i consigli dei dépliant ricevuti per strada. Insomma, siamo di fronte all'ennesimo campione di una casta che oggi si vede ormai sempre più minacciata dall'incombente flessibilità (si pensi a Mi spezzo ma non m'impiego, il viaggio-inchiesta di Andrea Bajani nell'universo dei nuovi lavoratori precari uscito da Einaudi nel 2006). A questo punto, però, il panorama comincia a diventare un po' troppo affollato. Per orientarsi in una simile congerie di opere, niente di meglio che l'agile volumetto di Luciano Vandelli, apparso nel 2000 e ora riproposto da Clueb: Il pubblico impiegato nella rappresentazione letteraria. Il libro ricostruisce dettagliatamente la grande famiglia degli scrittori impiegati. Che ne sarebbe stato di Maupassant, se non avesse esercitato le funzioni di soprannumerario presso il ministero della Marina mercantile? O di Gogol', senza l'esperienza di impiegato nel dipartimento dell'Economia statale e in quello dei Beni patrimoniali? Di Kafka, funzionario dell'Istituto delle assicurazioni? O di Heinrich Böll, impiegato dell'Ufficio statistico comunale? Di Melville, ispettore delle dogane, oppure di Nathaniel Hawthorne, che lo aveva preceduto nel medesimo incarico? Un caso a sé è costituito dalle note di qualifica. Le peggiori vanno senz'altro a Charles Bukowski, mentre su Maupassant è rimasto famoso il giudizio del suo direttore: «Coscienzioso, ma non sa scrivere». Davanti agli occhi del lettore si spalanca un vero e proprio continente di reperti, dominato, è davvero il caso di dirlo, dai dioscuri della banalità, ovvero gli omonimi protagonisti del romanzo di Flaubert Bouvard e Pécuchet. Prima e dopo di loro, il paesaggio metropolitano pullula di figure analoghe, e forse non è un caso che sia Balzac, sia Maupassant scegliessero per due loro testi un identico titolo: Gli impiegati - lo stesso, sia detto per inciso, di un saggio che Sigfried Kracauer pubblicò nel 1930 coniando il termine, poi divenuto celebre, di "colletti bianchi". Sempre a Kracauer, peraltro, si deve l'idea che gli impiegati siano dei "senza tetto", incapaci di riconoscersi tanto in quella coscienza di classe che rende coesi e solidali gli operai, quanto nei sentimenti e nello stile della borghesia. Tale condizione lascerebbe un grande vuoto nella loro anima, nonché un senso di profonda impotenza verso una realtà avvertita come indecifrabile. Che non si celi proprio qui l'enigma, l'inquietudine e il fascino di questa professione? Ma il saggio di Vandelli, riserva altre sorprese. Volgendoci alla fantascienza, fra le tante antiutopie scopriamo che l'Asimov di Prima fondazione immaginò addirittura un pianeta interamente coperto da un'unica città, popolata da 40 miliardi di abitanti. Tutti burocrati. Difficile immaginare uno scenario più estremo. Altro che precariato: per Asimov l'impiegato ha finito per divorare l'intera società, fino a creare un mondo a sua immagine e somiglianza." (da Valerio Magrelli, Impiegati da romanzo, "La Repubblica", 13/07/'10)

lunedì 12 luglio 2010

Senza scrittori ma con i blogger


"Era già accaduto nella settimana tra Natale e Capodanno, con un post sul blog della giornalista di Repubblica Loredana Lipperini, Lipperatura dedicato al tema del fantasy. Una discussione durata una settimana, con co-protagonista il critico letterario Andrea Cortellessa, solo contro tutti (con fior di conoscitori del fantasy ...).
Si è ripetuta questa settimana, dopo il post dedicato al dvd, realizzato sempre da Cortellessa, intitolato Senza scrittori (ne riparleremo), sulla situazione della letteratura italiana e i meccanismi del mercato editoriale. E' seguito un diluvio di commenti, punti di vista e al solito, insulti e improperi: oltre 800 e si continua ancora. Tanto che, a un certo punto, per rendere più leggibile l'intera discussione si è deciso di trasporla - sotto gli auspici di Wu Ming - in formato .pdf (l'effetto carta facilita la lettura, meglio del rotolone schermaceo, come è stato definito lo scorrere sul video dei commenti): scatenando, manco a dirlo, altre polemiche. Stavolta non letterarie ma tra chi non voleva finire in un 'simil-libro', chi non voleva che fosse manipolato o ereditato alcunchè, chi riteneva arbitraria l'operazione. La controversia si è spostata così da 'letteratura & mercato' a una metadiscussione su come (e cosa vuol dire) fare critica sul web.
Forse le due cose non sono così distanti. E occorre rifletterci, per verificare verso quali direzioni si muova la critica letteraria (o meglio, la discussione pubblica sulla letteratura) e per capire come, per l'ennesima volta, questa disputa sui blog mostri insieme i limiti e le potenzialità della critica online.
Un passo indietro. Del film di Cortellessa si è parlato (quasi tutti) solo per sentito dire: pochissimi l'avevano visto. Il dibattito si è subito spostato su scenari più ampi. Una deviazione tipica - e piuttosto fastidiosa - del modo di parlare online: più che dell'oggetto in sé si commentano i commenti degli intervenuti e si agisce come se ogni volta si dovesse ricapitolare un'intera visione del mondo. Tant'è. Il fatto però che, da subito, nel confronto si sia infilato lo stesso Cortellessa è uno dei tipici punti di forza del web sulla carta (è presente l'autore, che ha ribadito i suoi convincimenti da una posizione, fino a un certo punto, oggettivamente di forza).
Gli interlocutori del critico erano moltissimi, ma pochi di qualità: sicuramente Wu Ming, il collettivo che da anni gestisce un altro dei blog letterari italiani più interessanti, molti altri - spesso celati da insulsi nickname (sì, lo sappiamo, è una regola della Rete, ma resta il fatto che l'anonimato quando si prende la parola o, peggio, si insulta qualcuno, è vigliacco) - non certo all'altezza. 'Sì, il dibattito sì - dice Cortellessa -. Internet dà la possibilità di discutere, anche costruttivamente, e riempie un vuoto che su altri mezzi non si riesce più ad avere'. Ma non ha, spesso, la stessa autorevolezza.
Cortellessa è uno dei pochi critici abituati alla Rete, pur avendo solida formazione 'tradizionale' ed essendo accademico. Il pregevole volume di Giulia Iannuzzi, L'informazione letteraria nel web (Biblion edizioni) aveva fotografato i siti migliori (e concordiamo) sull'argomento: Nazione indiana, Carmillaonline, Wu Ming Foundation, Il primo amore (collettivi e tutti contraddistinti da una forte spinta all'impegno civile), il citato Lipperatura e Vibrisse dello scrittore Giulio Mozzi.
La loro esistenza ha di fatto tolto forza alle riviste letterarie cartacee (e si veda l'ottimo spunto di Nazione indiana sulla condizione di scrittore oggi in Italia): tanto che la neonata "alfabeta2" non avrebbe potuto fare a meno del sito (e se dovessimo scommettere sulla sopravvivenza di una delle due forme ...) e la stessa "Riga", benemerita rivista-libro, con regia di Marco Belpoliti, sta pensando a un allargamento online.
Gestire le discussioni sui blog è delicato. La stragrande maggioranza di chi interviene scambia il blog con il bancone del bar e, infatti, la legittimità all'intervento (Internet è sommamente democratica), anche nell'ultima discussione su Lipperatura, è stata messa in dubbio da qualcuno. E' vero: molti commentatori sono dilettanti e si vede lontano un miglio che non sanno di cosa parlano (specie quando si avventurano in analisi dell'editoria): nel complesso rendono più debole l'insieme della discussione anche se, ovviamente, hanno tutto il diritto di intervenire. Forse è per questo, mancanza di trasparenza nei nomi, impossibilità di editing degli interventi, che i blog non hanno ancora trovato su questo terreno della critica letteraria l'autorevolezza di un giornale cartaceo. Peccato. Ma magari ci sbagliamo.
Eppure, convinti come siamo che sempre più su Internet vincerà la qualità dell'informazione, prima ci si libera del ronzio di fondo, meglio sarà. A meno che non si voglia ammettere che il discorso critico non sia solo una questione di 'mi piace-non mi piace'. Indietro non si torna, è evidente. Sarebbe bello, perciò, andare avanti. I critici, i giornalisti e i lettori più svegli ci stanno provando. Anche se la sensazione di perdere tempo ogni tanto si farà strada ..." (da Stefano Salis, Senza scrittori ma con i blogger, "Il Sole 24 Ore Domenica", 11/07/'10)