venerdì 30 aprile 2010

Il corpo delle donne di Lorella Zanardo


"Lei è una missionaria, crede che il mondo si possa cambiare". La frase, arrogante quanto rivelatrice, viene pronunciata nel corso della trasmissione L'Infedele: l'autore che la urla è Cesare Lanza, la presunta missionaria è Lorella Zanardo, fino a quel momento manager e da allora nota come l'ideatrice di Il corpo delle donne, uno dei documentari più visti, dibattuti e importanti della Rete. Il video (realizzato con Cesare Cantù e Marco Malfi Chindemi) parte da un progetto in apparenza molto semplice: mettere in fila, tutte insieme, le immagini del corpo femminile così come vengono proposte dalla televisione italiana, con ogni pretesto e in tutte le fasce orarie, incluse quelle in cui sono presenti i bambini. Il documentario è diventato un culto: milioni di donne, via Internet, si sono indignate davanti al sedere marchiato della ragazza issata fra i prosciutti col pretesto di un provino, e alla risata sguaiata di Pino Insegno che appare, a commento, nell'angolo in basso.
"E' quello che la gente vuole", si giustificano autori, produttori, dirigenti davanti alle donne spogliate, zittite e umiliate in decine di programmi di intrattenimento. Per spiegare che non è così, Lorella Zanardo ha scritto un libro che esce con Feltrinelli e ha lo stesso titolo del video, Il corpo delle donne, e che si rivela coraggioso e, per paradosso, intimo esattamente come il documentario. Perché a fianco della denuncia ci sono le reazioni dell'autrice, e le emozioni stupite e sofferte che hanno accompagnato la realizzazione del progetto. I fatti, insomma, accanto alle "impressioni": che però rendono i primi ancora più incisivi.
Anche il video nasce da una sensazione. E' l'ottobre 2007, e Lorella Zanardo decide di visitare, con il figlio undicenne, una mostra sugli anni Settanta. Ma alla Triennale di Milano si inaugura anche una seconda mostra, destinata a celebrare i vent'anni di Striscia la notizia. Madre e figlio si imbattono dunque in una fila sterminata di giovani e adulti, quasi tutti molto "televisivi" (pettorali in vista o tacchi alti). Appare il Gabibbo e la folla impazzisce. Appare "Melissa" e le urla salgono al cielo. Zanardo decide di tentare di decostruire i modelli che quasi nessuno mette in discussione. Gli autori optano dunque per un approccio alla Michael Moore. Gli strumenti teorici, si dicono, esistono. Ci sono i testi di Baudrillard, Debord, Popper. Occorre qualcosa che renda gli spettatori consapevoli non solo dei propri diritti, ma "della possibilità che abbiamo tutti di incidere sulla società in cui viviamo, di contribuire alla costruzione di un mondo nuovo".
Il lavoro preliminare consiste nella visione di decine di programmi per centinaia di ore. Davanti agli occhi degli autori sfilano le riprese porno-soft di Buona domenica, la telecamera di Mezzogiorno in famiglia che fruga fra le gambe di Stefania Orlando mentre si dondola sull'altalena cercando di afferrare con la bocca una fragola appesa a una canna da pesca. C'è Carmen di Pietro ipnotizzata da Teo Mammucari per costringerla a togliersi i vestiti: la scena viene mostrata anche ai suoi figli (che hanno assistito in precedenza ad una sua esibizione in un incontro di wrestling ai limiti del porno-soft). E c'è molto altro. La conduttrice di Domenica in Salute che presenta una ragazza con il seno piccolo sottolineando che il medesimo le ha comunque consentito "di avere un fidanzato". Il chirurgo plastico che in Celebrity bisturi visita Brigitte Nielsen rilevando che così "grassa" si trova in una "situazione di emergenza", e la apostrofa: "con un aspetto cosi non avrai mai successo". Le tre ospiti de I fatti vostri, vincitrici del concorso Miss Chirurgia Estetica, che esibiscono i risultati. Alla donna che si è operata al seno per consolarsi dopo la separazione, il conduttore dice: "Eh, se faceva prima l'intervento magari suo marito non se ne andava". L'inquadratura ginecologica, alle 19.40, del sedere di Belen Rodriguez che sale le scale, mentre il pubblico spalanca la bocca per lo stupore, o perché così richiede il copione.
Gli esempi sono infiniti. Ma quello che gli autori non si aspettavano era che il corpo femminile, già ridotto a puro abbellimento, venisse anche schernito, deriso, sopraffatto. Chi sono gli autori? si chiede Zanardo. E prosegue: "Perché non è possibile, semplicemente, avere delle trasmissioni, come in qualsiasi altro stato dell'Unione europea, dove l'intrattenimento non significa l'umiliazione delle donne?". Forse le risposte non verranno. Nel libro, però, sono indicati i possibili rimedi: parlare, mostrare, destrutturare le immagini invitando chi guarda - specie i più giovani - a capire. Funziona, come testimoniano i numerosi commenti giunti sul blog della Zanardo e qui riportati: riflessioni di donne e di uomini che dalla televisione si estendono a ragionare sul femminismo, sugli schematismi vecchi e nuovi, su tutto quel che è possibile mettere in atto per modificare un sistema simbolico e sociale insostenibile. Perché la condivisione è il modo - forse l'unico - per superare la gabbia che ci costruiamo da soli e imparare a guardare oltre. A corollario di Il corpo delle donne, si possono leggere le storie raccontate da due giornalisti del New York Times, Nicholas D. Kristof e Sheryl WuDunn, che per anni hanno girato il mondo occupandosi della questione femminile. Il volume in cui sono state raccolte si chiama Metà del cielo e lo pubblica Corbaccio. Leggendolo insieme a Il corpo delle donne si può almeno intuire come spezzare l'umiliazione del femminile potrebbe davvero cambiare il mondo." (da Loredana Lipperini, La lente grottesca sul corpo delle donne, "La Repubblica", 26/04/'10)

lunedì 26 aprile 2010

Il romanzo al tempo del marketing


"Romanziere dalla vena generosa, di quelli intrappolanti e seduttivi, Carlos Ruiz Zafón è un formidabile gigante occhialuto che vive a lavora in equilibrio tra Barcellona, dov'è nato nel '64 e in cui ha immerso i suoi cupi e tumultuosi best-seller, e Los Angeles, dove ha lavorato come sceneggiatore («ma non lo faccio più da dieci anni») e oggi abita «felicemente sposato». Dopo l'esito planetario de L'ombra del vento (2001), oltre dieci milioni di copie vendute (di cui un milione e mezzo in Italia dov'è uscito nel 2004) e del successivo Il gioco dell' angelo, questo re del mercato letterario torna alla ribalta con Il Palazzo della Mezzanotte (Mondadori), da domani nelle nostre librerie: nato nel 1994 in Spagna come libro per ragazzi, è un gioco di scacchi molto alla Zafón, diabolico e incalzante, scandito da enigmi da sbrogliare e reincarnazioni di spiriti infernali. Al centro due gemelli perduti e ritrovati, un club segreto di ragazzi orfani e l' incubo ritornante di una locomotiva infuocata dentro un tunnel. Adolescenze impavide e unitissime per un'apologia dell'amicizia. E anche romanzo d'iniziazione (per il protagonista Ben) e metafora del mistero e dei problemi che incombono sul rapporto padre-figlio. «All'epoca avevo già avuto un certo successo con El principe de la niebla, mio primo libro», spiega lo scrittore, «e volli scrivere un'altra storia per giovani ma più complessa e dark. Fu un passo avanti rispetto all' esordio, così come c'è un progressione da Il Palazzo della Mezzanotte a Las luces de septiembre, mio terzo titolo. Solo dopo aver scritto quei tre libri, e pur avendo trame indipendenti, ho capito che erano connessi per spirito e forma; perciò ho suggerito al mio editore di proporli come trilogia».
Ambientato nella Calcutta d'inizio Novecento, Il Palazzo della Mezzanotte è lontano dalla vivida Barcellona dei suoi libri più noti. Perché tanta distanza dai luoghi familiari? «Il mondo accoglie un'immensità di posti notevoli e di contesti per avventure coinvolgenti anche al di là di casa propria. Le città mi affascinano: tendo a pensarle come creature organiche e grandi metafore della condizione umana. Ho letto molto, in passato, sulla ricchissima storia di Calcutta: Venezia delle tenebre, impressionante orfanotrofio a cielo aperto ... Ho abbandonato l' immaginazione a una rovente vicenda di spettri serpeggianti nelle viscere cittadine».
Non vede rischi nel proporre in Italia solo ora, dopo l'enorme successo di L'ombra del vento, un libro del 1994? «Quei miei romanzi per ragazzi andarono subito bene in Spagna, dove non sono andati mai fuori stampa. Ma per una disputa legale i diritti per la traduzione sono stati bloccati per anni, e quando sono tornato a disporne li ho tenuti in sospeso perché stavo scrivendo Il gioco dell'angelo e non volevo che nel mondo gli editori si affrettassero a pubblicarli per sfruttare la fortuna di L'ombra del vento. Ho voluto che trascorresse almeno un anno dall'uscita di Il gioco dell'angelo prima di tradurre quei lavori anni Novanta, a cui sono affezionato e nei quali continuo a riconoscermi. Mi piace credere che trascendano ogni limite di età».
La prima parte, con la congrega dei ragazzi dell'orfanotrofio St. Patrick's, evoca climi dickensiani, e il libro possiede la felicità narrativa del "vecchio" romanzone alla Dumas, con plot dinamico e fitto di sorprese. Quanto ha contato per Zafón la lettura dei classici? «Molto. Per me, come per ogni scrittore, i classici sono un modello e un'essenza. Geni come Dumas e Dickens danno alla narrazione tocchi magici insuperati. Niente d'interessante nasce se non si è consapevoli di quanto creato prima: la letteratura è un flusso di idee che si sviluppa verso il futuro e nella coscienza del passato. Io cerco un posto nel flusso scrivendo qualcosa di nuovo che al contempo reinventi ciò che mi ha preceduto. Da ragazzo leggevo di tutto: classici, gialli, fiction nera, ogni cosa, dai vittoriani quali Wilkie Collins e Sheridan LeFanu fino a Raymond Chandler. Me ne infischiavo delle divisioni in generi e delle etichette: mi premevano la buona scrittura e i bei racconti».
Lei è anche compositore. Qual è il suo rapporto con la musica? «È la cosa che più amo al mondo. Mi piacciono soprattutto la "La buona letteratura alta o bassa che sia sa sempre trovare la strada per arrivare alla gente" classica e il jazz, ma anche il blues, il soul, l'elettronica, il rock e pop anni Settanta ... Tutta la musica con un cervello e un'anima. Una delle cose che più mi divertono è comporre brani musicali per le mie storie. Lo faccio da autodidatta, ma con passione straordinaria. Forse è la musica che plasma la mia prosa: scrivendo pensoa concetti quali orchestrazione, timbro, dinamica, armonia, densità e ritmo».
Perché è tanto attratto da mistery e gotico? E a cosa attribuisce il successo odierno del soprannaturale e dell' horror? «Sono tinte nella tavolozza del romanziere. Il gotico consente l'uso di elementi atavici e simbolici nella fiction e di esplorare sottotesti psicologici profondi. Quanto all'horror, per me è solo un aspetto del territorio narrativo, non buono o cattivo di per sé. La qualità dipende dalla realizzazione, proprio dalla fattura, non dalle intenzioni o dall' appartenenza a un genere».
Lei si dice entusiasta di certe serie tivù, sostenendo che alcuni autori televisivi di oggi sono i moderni Dickens e Balzac. «In effetti ci sono serie che hanno assunto il ruolo che nell'Ottocento, per la maggioranza del pubblico, avevano i grandi romanzi. Nell'ultima decina d'anni molti scrittori di talento hanno lavorato in ambito televisivo creando prodotti eccellenti come i serial della HBO. Nutro per loro il massimo rispetto: fanno un lavoro di alta qualità conquistando il successo che meritano. Il che non significa che drammi e commedie tivù possano sostituire la letteratura. Ma sono convinto che molti autori classici, se fossero vivi, si farebbero coinvolgere in sceneggiature per la televisione, che nel bene e nel male è il grande palcoscenico del nostro tempo».
Cosa pensa del divario tra letteratura "alta" e "bassa"? Perché i libri più premiati e ben recensiti sono spesso quelli che vendono meno? «La buona scrittura sa sempre trovare una strada per comunicare con la gente. Quanto all'alto, al basso o al medio, sono etichette usate per condizionare le opinioni e servire interessi estranei alla letteratura. Premi, medaglie, critiche, onori, vanità: non sono che forme di marketing. Conta quel che dura nel tempo, e sono i lettori a deciderlo»." (da Leonetta Bentivoglio, Il romanzo al tempo del marketing, "La Repubblica", 26/04/'10)

Lettere dei condannati a morte della Resistenza


"Le Lettere dei condannati a morte della Resistenza non sono state scritte per venire in mano a noi che le leggiamo. Sono state concepite in un momento della vita che solo a pochi è dato di vivere.
Quel momento terribile e solenne della contemplazione attuale della propria morte, quando in lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, spogliati di tutto ciò che non è essenziale. Esse sono indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui nascono e si alimentano le energie vitali che ci conducono ad agire nel mondo. Questi testi sconvolgenti parlano della morte freddamente disposta da esseri umani nei confronti di altri esseri umani e questi ultimi colgono negli ultimi istanti della loro vita, nell´attesa consapevole della fine. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all´estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così, dicono coloro i quali, per un motivo inaspettato, sono scampati alla morte e hanno potuto rendere testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, soprattutto quelle svuotate dall´uso quotidiano – amore, affetto, perdono, casa, papà e mamma –, dalla retorica politica – patria, onore, umanità, pace, fedeltà al giuramento – o dall´estraneità alla nostra diretta esperienza – torturare, fucilare, impiccare, tradire – tornano d´un colpo a riempirsi di forza e significato essenziali. Sono parole ultime, destinate a restare chiuse entro cerchie affettive limitate. Ma chiunque sia disposto a liberarsi per un momento dall´abitudine della mediocrità che tutto livella, smussa e ottunde, può meditarle in sé, senza intermediari.
Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a qualcosa simile a una profanazione, in colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza. Soprattutto, leggiamo col pudore di chi sa guardarsi dalla presunzione del voler giudicare. Queste lettere chiedono di comprendere, non di giudicare. Nessuno di noi – intendo: nessuno di coloro che non appartengono alla generazione di allora – può pretendere l´autorità del giudice. Se è vero che ci si conosce soltanto nel momento decisivo della scelta esistenziale e che solo lì ciò che di profondo è latente in noi viene a galla, noi non ci conosciamo. Non siamo stati messi alla prova. È facile, ma futile, proferire giudizi e perfino esprimere adesione ideale, ammirazione per gli uni e sdegno o condanne per gli altri. Dovremmo sempre chiederci chi siamo noi, per voler giudicare. Dovremmo temere che qualcuno ci dica: ti fai bello di ciò che è di altri; tu forse saresti stato dalla parte dei carnefici o saresti stato a guardare. E non sapremmo come rispondere.
Conosciamo le condizioni del nostro Paese all´8 settembre del 1943 e immaginiamo quali poterono essere le molte ragioni, ideali e personali, influenti sulle scelte che allora a molti si imposero. Nessuno di noi può avere la certezza che, in quelle condizioni ed esposti alle stesse pressioni, saremmo stati dalla parte giusta e non saremmo stati portati dalle circostanze dalla parte dei criminali. Questo non significa affatto parificare le posizioni o giustificare i crimini. Significa cercare di capire, dicendo con franchezza a noi stessi: rendiamo grazie alla provvidenza o alla sorte perché ci è stato risparmiato di vivere in quel tempo.
La generazione che ha vissuto i fatti di cui parliamo non esiste più. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere o rievocare vicende in cui vi sia stato un coinvolgimento anche soltanto indiretto, attraverso il ricordo di chi le visse. Inevitabilmente questi testi sono letti oggi con un´attutita percezione dell´originario significato politico e impatto emotivo, nel momento della lotta per la liberazione dall´incubo totalitario, dal nazismo e dal fascismo, nel momento in cui si coltivava l´aspirazione a un´Italia nuova, giusta, civile, pacificata. «Sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l´ideale della Patria più libera e più bella», scrive un anonimo. Gli orientamenti politici erano diversi, ma comune era l´idea, anzi la certezza di un riscatto morale imminente, che avrebbe trasformato nel profondo, e in meglio, la società italiana. Le Lettere sono un´elevatissima testimonianza di questa tensione. In tutte si legge la consapevolezza di vivere un momento di svolta nella storia d´Italia. Il dopo non avrebbe dovuto, né potuto assomigliare al prima. Ai figli piccoli, che non possono ancora comprendere, si dà l´appuntamento a quando, cresciuti, sarebbero stati in grado di capire per quale altra Italia i padri e le madri avevano combattuto ed erano morti. In momenti critici come quelli degli anni ´43-´45, non si poteva restare a guardare. Tutti dovevano contribuire. In molte lettere è testimoniata l´irresistibilità dell´appello a prendere posizione. «Nel mio cuore si è fatta l´idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo», scrive una donna ai fratelli, per giustificare, anzi scusare la sua scelta. Molti sentono così di dover spiegare il perché del loro "aver preposto" l´Idea, la Patria o il dovere ai legami familiari e domandano perdono di questo.
Naturalmente, non tutti stavano dalla stessa parte. Nei confronti di chi stava dall´altra, la disposizione spirituale è molto varia. Alcuni chiedono vendetta. Ma altri parlano del nemico col rispetto dovuto a chi una scelta, sbagliata ma non necessariamente in malafede, ha pur fatto: «Negli uomini che mi hanno catturato ho trovato dei nemici leali in combattimento e degli uomini buoni durante la prigionia». Altri, ancora, si rimettono a una giustizia superiore, invitando chi resta a fare altrettanto: coloro che mi uccidono sono uomini e «tutti gli uomini sono soggetti a fallire e non hanno perciò diritto di giudicare poiché solo un Ente Superiore può giudicare tutti noi che non siamo altro che vermi di passaggio su questa terra». Altri ancora invitano al perdono: «Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l´uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia». Il disprezzo, se mai, è verso gli inescusabili, coloro che non prendono posizione, coloro "che non furon ribelli né pur fedeli" (Inferno, III, 38-39), cioè gli ignavi, gli "attendisti". Su questo punto dobbiamo constatare una grande distanza tra noi e chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul fronte opposto. Si estende ogni giorno di più un giudizio che non solo assolve, ma addirittura valorizza l´atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi eventualmente godere dei frutti di libertà ottenuti col sacrificio di altri. Nelle Lettere, leggiamo invece parole come queste: «Quando penso che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, mi raccomando e son più che certo che tutti in quell´ora scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui che non l´adopera sarà un vile e un codardo». Non risulta che l´accanimento revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente ed esplicitamente alle Lettere, per sminuirne, relativizzarne, se non negarne l´alto valore civile. Può essere che si arrivi anche a questo. Il pericolo è rappresentato piuttosto da un oblio che si vorrebbe giustificato da un´interpretazione pacificatrice da stendere su quegli avvenimenti. Essi sarebbero il frutto di un´esasperazione incompatibile con l´autentico nostro carattere nazionale, un carattere rappresentato da quella parte maggioritaria del popolo italiano che ha assistito da estranea o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario, nell´attesa dell´esito degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e antifascista, avrebbero rappresentato entrambi una deviazione estranea alla nostra tradizione: una tradizione moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e a ogni compromesso, garantita da una presenza moderatrice e stabilizzatrice come quella della Chiesa cattolica.
Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e come fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente messi ai margini della pubblica ricordanza. All´antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni repubblicane, verrebbe così a sostituirsi qualcosa come un "non fascismo - non antifascismo", conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune, alimentata da una storiografia e da una memorialistica sorprendentemente sicura di sé nelle definizioni del carattere nazionale e nella qualificazione dell´attendismo come virtù di saggezza pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è più ideologia che scienza.
Chi ha sacrificato la vita, non importa da che parte, trarrebbe motivo di sconforto e offesa da questo giudizio liquidatorio. Sarebbe forse portato a riportarsi a quanto stabilito da Solone, tra le cui leggi – riferisce Plutarco (Vita di Solone, 20,1) – ve n´era una, del tutto particolare e sorprendente, che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una stasis (un conflitto tra i cittadini), non si fossero schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i propri averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma voleva che ognuno, unendosi a coloro che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori.
Una simile legge sembra dettata da indignazione morale e non da prudenza politica. L´idea di una guerra civile obbligatoria certo spaventa. Ma giustificare l´ignavia e l´opportunismo, farne anzi una virtù pubblica, è cosa diversa e incomprensibile, a meno che si abbia in mente un popolo prono e incapace perfino di avvertire d´esserlo. Ma, forse, Solone mirava a qualcosa di più profondo: non alla guerra civile obbligatoria per legge, ma alla prevenzione della guerra civile. Tutti devono sapere che, nel momento della crisi che precipita, nessuno sarà giustificato se avrà fatto solo da spettatore dei drammi e delle tragedie dei suoi concittadini, da estraneo. Tutti allora operino per evitare che quel momento arrivi; operino dunque preventivamente per la concordia, per la pace, per isolare fanatici, violenti e demagoghi.
Le Lettere contengono la voce d´un altro popolo, di uomini e donne, d´ogni età e classe sociale, consapevoli del dovere della libertà e del prezzo ch´essa, in momenti estremi, comporta. Chi le legge oggi vi trova un´Italia diversa dalla sua, cioè dalla nostra, dove non si esitava a correre pericoli estremi per parole che oggi non si pronunciano più o, se le si pronunciano, lo si fa con il ritegno di chi teme d´appartenere a una generazione di sopravvissuti. Sono quasi una sfida, un invito a misurarci rispetto a quel tempo, il tempo della libertà e della democrazia riconquistate; un invito a domandarci quale strada abbiamo percorso da allora." (da Gustavo Zagrebelsky, Resistenza, le parole che non diciamo più, "La Repubblica", 25/04/'10. Il testo è parte dell´intervento che sarà letto stasera alle 21 all'Auditorium di Roma in occasione del 25 aprile)

Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana (da INSMLI)

martedì 20 aprile 2010

Sotto falso nome. Scienziate italiane ebree (1938-1945)


"C’è ancora molta strada da fare, per le donne. Il dibattito è più che mai aperto proprio in questi giorni, grazie a diverse uscite in libreria (da Ma le donne no pubblicato da Caterina Soffici per Feltrinelli, a Metà del cielo di Nicholas Kristof e Sheryl Wudunn per Corbaccio) e ad accorati richiami come quello recentissimo di Susanna Tamaro. Qualcosa non ha funzionato nella rivoluzione femminista e il nuovo che avanza mostra pericolose somiglianze con un passato insidioso che alle donne ha tolto parola e dignità.
C’è a questo proposito un libro in uscita presso l’editore Pendragon che aiuta a capire, ma soprattutto a riflettere. Certo non consola. Si tratta di Sotto falso nome. Scienziate italiane ebree (1938-1945), scritto da Raffaella Simili, docente di Storia della Scienza all’Università di Bologna.
La storia di queste donne è una dolente congiura del silenzio. Con il 1938 e ancora prima, con l’imposizione del giuramento di fedeltà al regime e la progressiva emarginazione dei dissidenti, l’Italia perse via via tanta della sua eccellenza. Di questa storia s’è parlato molto, ma molto poco del ruolo che le donne di scienza ebbero in quelle circostanze. E soprattutto di quel che subirono. «Specialmente le “professoresse” erano state cancellate, come se non fossero mai esistite ufficialmente, in forza di quel legale tratto di penna che le aveva sottratte al lavoro e alla vita». Nella Levi Mortera, moglie del giurista Edoardo a sua volta figlio del matematico Vito Volterra, Nora Lombroso, Gina Castelnuovo, Enrica Calabresi e tante altre, tra cui una tal Rita Lupani che altri non era se non Rita Levi Montalcini, costretta a una falsa identità prima di emigrare negli Stati Uniti. Biologhe e matematiche, fisiche ed entomologhe le cui esistenze private e professionali furono travolte dalle leggi razziali e da tutto ciò che venne dopo. Costrette al buio, all’esilio, a rinunciare a tutto.
Dentro una storia terribile come quella che tutti conosciamo, c’è in queste vicende al femminile il tratto comune dell’onda lunga di un silenzio omertoso, di una specie di congiura che relega le donne in un angolo della storia. E forse è come se fossimo ancora un po’ lì, segregate in quella nicchia muta." (da Elena Lowenthal, Sebben che erano scienziate, "La Stampa", 20/04/'10)

venerdì 16 aprile 2010

La rivoluzione di Wikipedia


"E' nata solo nel 2001 e in meno di dieci anni è arrivata a contenere dieci milioni di voci, o articoli, in 250 lingue. Ha undici milioni di utenti registrati, che occasionalmente vi collaborano, e centinaia di milioni di fruitori 'passivi': ormai non c'è ricerca scolastica o tesi universitaria che non vi attinga a piene mani. Giornalisti e scrittori, docenti o sceneggiatori di tv e cinema, messi di fronte all'imperativo di verificare delle informazioni con rapidità, sono diventati suoi utenti regolari. E' Wikipedia, l'enciclopedia online 'fatta dal basso', uno dei più influenti fenomeni culturali del nostro tempo. Ambisce nientemeno che a offrire lo scibile umano. Nella versione inglese (la più consultata) i suoi due milioni di voci spaziano da Aa! (il nome di un gruppo rock giapponese) a Zzyzx, frazione della contea di San Bernardino, California. Stupefacente fenomeno di cooperazione collettiva, continua a crescere alla velocità di trentamila parole al mese. Consultata al ritmo di 60 milioni di letture al giorno, è uno degli otto siti Internet più visitati nel mondo. Dai primi di aprile ha anche aggiornato la sua grafica. Eppure solo una minoranza del pubblico sa che Wikipedia nasce da un esercito di volontari: lavorano gratise quasi sempre nell' anonimato. È l'unico fra i grandi siti Internet che non ha dietro di sé un'azienda a scopo di lucro; la Wikimedia Foundation è una no profit. Ora grazie a Andrew Lih, un insider che ha condiviso un bel pezzo di storia di questa impresa, è possibile ricostruire dall'interno questa enciclopedia e la sua vera natura: un fenomeno sociale prima ancora che tecnologico e culturale. Lih è uno degli "amministratori" dell'edizione inglese di Wikipedia, appartiene cioè al gruppo dirigente che deve organizzaree disciplinare una costruzione in continuo cambiamento. È cinese e a Pechino è impegnato contro la censura su Internet. Ha lavorato come esperto di software ai Bell Labs, ha insegnato giornalismo alla Columbia University ed è tuttora docente alla University of Southern California. Il suo libro La rivoluzione Wikipedia (Codice edizioni) è il primo a descrivere dall'interno i protagonisti del progetto, i dibattiti sulle regole, il funzionamento concreto di quest'opera colossale che ha eclissato ogni altra enciclopedia. Come si conviene al metodo Wikipedia, il finale del libro è "aperto", scritto dai lettori stessi. Attraverso una galleria di personaggi, Lih ricostruisce il percorso di Wikipedia, i dibattiti anche aspri tra i suoi fondatori, le battaglie interne, com'è giunta ad essere quello che è oggi. All'origine questa enciclopedia collettiva è segnata dall' impronta della cultura anti-autoritaria, libertaria e anticapitalista, tipica dei pionieri di Internet. A differenza dell'Encyclopédie illuminista di Diderot e D' Alembert, non ha la pretesa di scalzare un vecchio sapere sclerotizzato e reazionario per sostituirlo con una scienza più avanzata. Ha invece la convinzione che siano superati i confini tradizionali tra cultura alta e cultura popolare, tra gli specialismi e le conoscenze diffuse. Tra i suoi due fondatori più autorevoli, Larry Sanger e Jimmy Wales, il primo ha una formazione in filosofia epistemologica (la ricerca sulla conoscenza), il secondo in economia e finanza. Ambedue sono arrivati a conclusioni analoghe sulla natura profondamente sociale e cooperativa del genere umano. Tra i loro numi tutelari ci sono personaggi molto diversi: da Ayn Rand, la profetessa dell'iperliberismo reaganiano, a Piotr Kropotkin, l'anarchico-umanista russo che vedeva nella mutua solidarietà un motore di progresso ben più potente della competizione. Le tre regole d'oro che Sanger e Wales concordarono all' origine di Wikipedia sono la neutralità, la verificabilità, e il rifiuto delle ricerche originali (le voci non debbono contenere notizie inedite). Rispettarle è una battaglia permanente, che ha portato l'enciclopedia a cambiare notevolmente rispetto alle sue origini. Raccontando "come" funziona Wikipedia, Lih finisce per rispondere alla domanda ancora più importante: "perché" funziona. Questa enciclopedia infatti ha dovuto resistere ad attacchi formidabili. Errori grossolani hanno fatto scandalo: soprattutto quando qualche Vip della politica, della cultura o dello spettacolo ha scoperto strafalcioni nella propria biografia e li ha denunciati urbi et orbi. Il mondo accademico ha storto il naso di fronte a questo "sapere diffuso". E alcune delle obiezioni dotte sono diventate senso comune, dibattute anche sulle colonne di questo giornale. È possibile applicare le regole della democrazia alla scienza? È credibile un' enciclopedia fatta perlopiù da non addetti ai lavori? Non è profondamente ingenuo illudersi che l'accumularsi di correzioni collettive punti verso la verità? Chi di noi accetterebbe di sottoporsi a un' operazione chirurgica guidata da un "voto a maggioranza" a cui partecipano anche i non medici? Per i detrattori più severi Wikipedia è diventata un'arma di distruzione di massa, spappola la credibilità scientifica e impone alla nostra èra la dittatura della pop-culture. Questo libro di Lih è prezioso perché sfata alcuni di questi miti e restituisce la dimensione ben più complessa di Wikipedia. In realtà, da molto tempo il nucleo fondatore ha preso le distanze da una versione acriticamente democratica dell'enciclopedia. Fu chiaro ben presto il rischio che si correva, se la compilazione e correzione delle voci fosse stata affidata alla regola che "la maggioranza ha ragione". È facile immaginare come il regime di Pechino potrebbe mobilitare masse di giovani nazionalisti e fanatici per manipolare le voci dell' enciclopedia su temi sensibili (come la storia del Tibet). In realtà Wikipedia oggi combina una partecipazione volontaria di massa, con un sistema di filtri e di "correzioni esperte". Sicché gli errori non sono più frequenti di quelli dell' Enciclopedia Britannica. Il vero limite è un altro. I "wikipediani" (il 70 per cento dei quali ha meno di 30 anni) sono sproporzionatamente dipendenti dalle informazioni disponibili online. Perciò la mole di dati e notizie che confluiscono a formare una voce di Wikipedia, è molto più ricca se riguarda fatti e personaggi recenti, dagli anni Novanta ai nostri giorni. Per i periodi precedenti, ancora oggi il grosso dell' informazione è off-line, affidato a depositi di carte. Se un giorno andrà in porto il progetto di Google di digitalizzare tutto lo scibile umano, incluse le biblioteche più antiche, anche questo limite diventerà superabile." (da Federico Rampini, Wikipedia, ecco come funziona il sapere fatto dal basso, "La Repubblica", 15/04/'10)

mercoledì 14 aprile 2010

Postmodern impegno


"Ecco un titolo che fa discutere: Postmodern Impegno (sottotitolo: Ethics and Committment in Contemporary Italian Culture, a cura di Pierpaolo Antonello e Florian Mussgnug, ed. Peter Lang). La formula «impegno postmoderno» per molti lettori equivale a una contraddizione in termini. Lettori italiani, è il caso di precisare; non è un caso che questo libro provenga da studiosi che lavorano in paesi anglosassoni.
Soprattutto da noi l’etichetta «postmoderno» ha equivalso - per critici come Carla Benedetti, Alfonso Berardinelli e Romano Luperini, per esempio, ciascuno con accenti diversi - a «disimpegno»: compiaciuta impoliticità, relativismo morale, irresponsabilità individualistica. Ancora di recente, autori certo non ingenui hanno potuto rivendicare il «non cedere alla fatuità della politica» (Alessandro Piperno sul Corriere della Sera) o il privilegio dell’«idiozia» (Emanuele Trevi sul Manifesto). Ancorché presentate come esercizi di resistenza, da tempo queste posizioni sono in realtà senso comune.
Altrove, invece, autori postmoderni hanno potuto scrivere capolavori «politici» come I versi satanici (Salman Rushdie, 1989), Vineland (Thomas Pynchon, 1990) o La freccia del tempo (Martin Amis, 1991); e un archetipo del postmodernismo cinematografico, Arancia meccanica di Stanley Kubrick (1971), è un esempio di apologo squisitamente politico realizzato in modi radicalmente diversi da quelli cui ci ha abituato la modernità. Ma sono del resto opere «politiche» anche quelle dei nostri maggiori narratori formatisi nella postmodernità: Antonio Tabucchi, Franco Cordelli e Walter Siti.
Non c’è dubbio che siano da tempo radicalmente mutate condizioni e caratteristiche dell’impegno: di contro alla progettualità totalizzante del modernismo, lo scrittore postmoderno può ancora «dire la sua» ma in termini contingenti, congiunturali, «locali» (penso a un notevole libro recente come Questo è il paese che non amo di Antonio Pascale). Col postmodernismo molto più che in passato, poi, il lettore è chiamato a partecipare in prima persona. Le opere più notevoli si presentano ambigue, contraddittorie, sfaccettate: esigendo, da chi le fa sue, una collaborazione tendenziosa. Esemplare un libro del 2006 come L’oca al passo di Tabucchi (ne parla, in Postmodern Impegno, Monica Jansen): che raccoglie gli articoli politicamente più urticanti dell’autore in una struttura ludico-combinatoria aperta alla «cooperazione» del lettore.
Sarebbero molti gli spunti interessanti, ma la maggior parte dei saggi convergono su una nuova e paradossale centralità dell’autore: il suo corpo è sede per eccellenza contingente, congiunturale e locale del discorso. Tre figure emergono come esemplari: Nanni Moretti (un formidabile fotogramma da Palombella rossa figura in copertina) per il cinema, Marco Paolini per il teatro, Roberto Saviano per la letteratura: autori che «ci mettono la faccia», sono personalmente coinvolti nelle vicende che raccontano. È molto più vero oggi che al suo tempo, insomma, lo slogan per cui «il personale è politico».
Alla fine del 2008 Rolling Stone eleggeva Saviano a «rockstar dell’anno»: la copertina documenta la consapevolezza con la quale l’autore di Gomorra deve costruire la propria immagine (come salvaguardia della sua persona fisica e insieme della sua credibilità); ma è anche, scrive Raffaello Palumbo Mosca, un monito sul pericolo che «la stessa persona-autore diventi parte del meccanismo derealizzante innescato dallo show-business». Nel 2002, invece, Dino Risi fece su Moretti una battuta che estasiò i filistei: «Spostati, fatti in là che devo vedere il film». Non capendo che la presenza fisica del non-attore Moretti è parte integrante del senso dei suoi film: un’idiosincrasia spinta sino all’isteria che porta all’estremo (e insieme ironicamente demistifica) la «politicità» del suo soggettivismo (e infatti convincono meno film, come Il caimano, dove essa perde centralità o spessore).
Una matrice comune, per tutti questi autori-tendenza, è il corpo per eccellenza dell’arte italiana al trapasso tra modernità e post, l’Ultra-Corpo di Pier Paolo Pasolini. Un altro luogo comune della critica vuole che il postmodernismo italiano discenda da Calvino, ma è stato Pasolini a sperimentare per primo questa nuova centralità «politica» del corpo autoriale: e lui infatti viene parafrasato tanto da Saviano quanto da Tabucchi, omaggiato da Paolini, liturgicamente celebrato da Moretti (col pellegrinaggio in Vespa di Caro diario). È stata di nuovo richiesta in questi giorni la riapertura del «caso» giudiziario, per la tragica notte di Ostia, da parte di Carla Benedetti: la quale non si rende conto di adottare la stessa retorica «giudiziaria» dei noiristi che ha in uggia. Come ha scritto su queste pagine Marco Belpoliti, sarebbe ora di superare il «complesso Pasolini», cioè l’esigenza politicamente paralizzante di trattarlo come se fosse vivo e presente, anziché morto da 35 anni. Si facciano, nelle sedi deputate, tutti gli accertamenti necessari; ma è davvero giunta l’ora che la nostra cultura elabori il suo lutto. Sarebbe il primo passo per raccogliere davvero - in modo finalmente non feticistico - un’eredità che sempre più ci appare decisiva." (da Andrea Cortellessa, Postmoderni d'Italia, quelli che ci mettono la faccia, "La Stampa", 14/04/'10)

lunedì 12 aprile 2010

La voce delle immagini


"«Giuri di dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità. Alzi la mano destra e dica "lo giuro"». Siamo davvero in tanti ad aver sentito questa formula pronunciata dal giudice prima dell'interrogatorio. Ma chi di noi si è chiesto perché il giudice ci inviti ad alzare la mano destra prima di dire "lo giuro"? Che cosa significa quel gesto?
La risposta la troviamo nelle chiese, nei musei o nei libri miniati, quelli che la storica dell'arte Chiara Frugoni è andata minuziosamente a scandagliare proprio per ricercare l'origine e i significati di gesti sopravvissuti fino a oggi ma dei quali abbiano perso il senso. Perché gli sposi si danno la mano destra al momento delle nozze? Perché nello sconforto allarghiamo le braccia? Perché, quando sappiamo una cosa bene, diciamo di saperla a «mena dito»? E ancora: perché chi ci benedice fa proprio il gesto di alzare il pollice, l'indice e il medio e di tenere abbassate le altre dita?
La Frugoni ha scritto per Einaudi il saggio La voce delle immagini che rappresenta un'autentica miniera di informazioni, notizie e risposte al riguardo ed è redatto in uno stile di godibilissima lettura. La studiosa è partita da un'osservazione generale molto importante: nell'arte del Medioevo, grossomodo fino al XII secolo, non erano i volti e i visi a esprimere sentimenti o moti interiori dell'anima, bensì il linguaggio dei gesti, del corpo e delle mani. Le ragioni ce le fornisce Sant'Ambrogio: ostentare il dolore è peculiarità dei pagani – affermava il vescovo di Milano – mentre i cristiani, che credono nella Resurrezione, davanti alla morte devono mantenere un contegno sobrio e fermo, come fece la Vergine Maria che, assistendo al martirio del Figlio sulla croce, rimase «eretta e senza piangere». Queste affermazioni ebbero un peso enorme nell'iconografia alto medievale. Nei gruppi lignei del XII secolo illustranti la Crocefissione, per esempio, la Vergine assiste impassibile al calvario affidando il suo dolore a un gesto trattenuto: quello della mano destra che stringe il polso sinistro. Di contro, volti sguaiatamente deformati e gesti incontrollati diventano la spregevole caratteristica dei dannati nelle raffigurazioni dei Giudizi Universali.
Volti impassibili e gesti eloquenti attraversano tutta l'arte medievale fino ad approdare alla commedia dell'arte, con la figura emblematica dell'Arlecchino goldoniano che indossa una maschera nera per celare le espressioni del volto ma che affida ai gesti più bizzarri la trasmissione di messaggi, emozioni e intenzioni.
Siamo partiti col domandarci perché il giudice, all'atto del giuramento, chieda al testimone di alzare la mano destra. Il libro ci dà la risposta. Questo gesto ha un significato preciso: sottolinea che quanto è stato detto (o ordinato) da una autorità è stato accettato o verrà prontamente eseguito. Un Cristo che parla trova subito riscontro nel gesto degli Apostoli che alzano la mano destra in segno di ricezione, di obbedienza, di condivisione del messaggio. Abbiamo detto un Cristo che parla: ma come fa Cristo a parlare nei mosaici e negli affreschi? Con un gesto oltremodo eloquente, rimasto ancor'oggi in auge: quello della benedizione che le tre dita alzate. Oggi "benedire" significa attirare sulla persona benedetta i favori celesti. Nel Medioevo significava letteralmente bene dicere cioè «dire la cosa giusta». Il Cristo benedicente della tradizione iconografica cristiana è in realtà un Cristo parlante, così come lo sono gli apostoli, i santi, gli imperatori e i re se raffigurati nell'atto di benedire. Si trovano immagini curiose al riguardo, per esempio, quelle che si riferiscono al colloquio tra Erode e i Re Magi: qui si vedono i personaggi che si stanno benedicendo a vicenda per sottolineare il fatto che stanno animatamente conversando. Peraltro il gesto del "bene dire", ovvero del parlare con somma autorità, non lo inventarono i cristiani ma viene dal mondo antico, come attesta la stele funeraria di un medico romano del I secolo d.C. (conservata al Pergamon di Berlino) nella quale il medico parla ex cathedra agli astanti con il gesto della benedizione.
La mano benedicente divenne a un certo punto anche il simbolo della giustizia e come tale finì incastonata sulla cima degli scettri reali. Persino quel mangiapreti di Napoleone Bonaparte, in occasione della sua incoronazione a imperatore, brandì lo scettro d'oro e d'avorio con al suo vertice la mano (benedicente) della giustizia.
Oggi, se vogliamo attaccare bottone con qualcuno, evitiamo accuratamente di benedirlo. Tuttavia, senza saperlo, continuiamo a ripetere altri gesti di origine medievale (o ancor più antichi) come quello, per esempio, di allargare le braccia nei momenti di sconforto o quello di mettersi le mani nei capelli negli istanti dell'autentica disperazione. Ebbene, se un vescovo dell'alto Medioevo ci avesse visto ci avrebbe duramente redarguito: i cristiani non si disperano! Ma i cristiani sono preda del dolore come tutti gli esseri viventi, e la pittura cominciò a recepire questa verità in Italia, tra Duecento e Trecento, attraverso le opere di Giotto e Simone Martini. Gremiti ancora di gestualità alto medievale, i loro dipinti rivelano un progresso formale importantissimo: i volti e i visi cominciano vistosamente ad esprimere con forza di potenti sentimenti sin ad allora affidati al solo linguaggio dei gesti. L'ultima avvertenza va a chi crede che tutti questi argomenti siano solo del simpatico vecchiume. Nient'affatto. Il modernissimo gesto dell'Ok, fatto congiungendo a cerchio pollice e indice, e alzando le altre tre dita, non l'hanno inventato gli americani ma i retori del Medioevo: serviva a sottolineare la sottigliezza delle proprie argomentazioni. Guardare (i quadri) per credere." (da Marco Carminati, La voce delle immagini, "Il Sole 24 Ore", 09/04/'10)

Chi fabbrica la cultura di massa


"La cultura mainstream, quella che piace a tutti, è oggi soprattutto figlia delle immagini: cinema, televisione, internet, senza dimenticare la musica che è sempre più strettamente legata al mondo dell'immagine. Sono ambiti di produzione artistica largamente dominati dai modelli americani, sebbene, negli ultimi tempi, anche l'Asia o l'America Latina abbiano proposto prodotti artistici originali. In India, in Cina, in Brasile o in Giappone esiste una creatività molto interessante, con marcate coloriture locali, che riesce a far presa anche sul nostro immaginario, entrando in concorrenza con i modelli provenienti d'oltre Atlantico.
Come sostiene Frédéric Martel nel suo volume Mainstream (Flammarion), l'Europa, invece, sembra sempre meno capace di elaborare prodotti culturali in grado d'imporsi al mondo intero. Certo, la cultura europea è ancora molto presente nelle altre culture, ma si tratta quasi sempre di una presenza d'ordine storico. È più che altro l'eco di stagioni passate. Sul piano della cultura contemporanea siamo in grande ritardo. Ciò dipende dal fatto che troppo spesso la cultura europea si colloca nell'ottica della semplice imitazione dei modelli provenienti dagli Stati Uniti. Nelle capitali europee, molti film, spettacoli e fiction televisive riproducono pedissequamente le ricette dell'industria culturale americana, senza però lo stesso coraggio. Ad esempio, noi francesi abbiamo atteso anni prima di fare entrare la guerra d'Algeria nelle nostre fiction televisive, mentre gli americani non hanno avuto paura di parlare subito della guerra in Iraq. Di conseguenza, le produzioni originali americane - che, senza essere quasi mai caricaturali o gratuite, riescono sempre a proporsi come un riflesso interessante della realtà - sono per il pubblico più interessanti delle piatte imitazioni europee. C'è chi sostiene che l'Europa non sarebbe capace di produrre cultura mainstream per via di una concezione della cultura troppo elitaria e sofisticata. Io sono propenso a pensare il contrario, nel senso che proprio la crisi della nostra cultura cosiddetta alta - ad esempio, sul piano della letteratura - ostacola l'elaborazione di prodotti culturali di larga diffusione che siano vincenti. Tra cultura alta e cultura di massa c'è sempre uno scambio sotterraneo, e molto spesso la seconda si nutre della ricchezza della prima. Si pensi al successo dei gialli di Simenon o a quello del cinema italiano del dopoguerra, che ha saputo essere al contempo coltoe popolare. Un discorso che vale in parte anche per i film della nouvelle vague. In passato però la separazione tra i due ambiti non era così netta. Al funerale di Victor Hugo parteciparono centinaia di migliaia di persone. Oggi ciò sarebbe impensabile. Ancora all'inizio degli anni cinquanta un autore come Sartre aveva un grande successo popolare. Nel corso del dopoguerra, però, la divaricazione tra cultura alta e cultura bassa è andata aumentando, anche per via del crescente peso della civiltà dell'immagine e della televisione. Oggi la cultura mainstream è strettamente legata alla globalizzazione e alla rapidità degli scambi consentita dalle nuove tecnologie. L'Europa, che ha sempre inseguito l'universalismo, di fronte alla globalizzazione - che è somma di dati più che sintesi di valori - reagisce con esitazione, favorendo ripiegamenti localistici e identitari, che certo non favoriscono l'emergere di prodotti culturali capaci di diffondersi nel mondo. Prigioniera delle sue diversità nazionali, l'Europa non riesce ad esprimere una cultura comune. E' un'entità ancora incerta. Ma senza un'Europa forte, non è possibile avere una produzione culturale di rilievo. Naturalmente, non bisogna isolare la cultura dalla ricerca scientifica e dall'insegnamento, dato che tali ambiti sono sempre interconnessi. Un paese senza ricerca scientifica e con una scuola in crisi farà fatica a dare vita a una produzione artistica capace di raggiungere fruitori di tutto il mondo. Il dinamismo di una cultura è sempre globale, partendo però da ciò che essa ha di più specifico. Per diventare universali, occorre innanzitutto essere espressione del proprio luogo. Quindi, per essere originale, invece d'imitare i modelli altrui, la cultura europea dovrebbe ripartire dalle sue specificità. In fondo, gli scrittori scandinavi, che oggi sono letti in tutto il mondo, fanno proprio così." (da Marc Augé, La vecchia Europa resta indietro, ma non è colpa della cultura alta, "La Repubblica", 10/04/'10; testo raccolto da Fabio Gambaro)

La voce delle immagini


"Chiara frugoni ha pubblicato per Giulio Einaudi un nuovo capolavoro che si intitola La voce delle immagini, con un sottotitolo improntato a modestia: Pillole iconografiche dal Medioevo. Nel suo lavoro di solito alterna ricerche dedicate a un unico monumento ad altre focalizzate su un argomento specifico, ad altre ancora che si diffondono su ciò che assomigliaa una sorta di passeggiata tra le opere d'arte, un "vagabondaggio" attraverso un museo virtuale di immagini di opere d'arte reali. Le immagini parlano, ma il loro linguaggio è spesso in codice, è cifrato, e per comprenderle è dunque necessario ricorrere a un decodificatore. Questo è quanto ritroviamo in questo volume: con un immenso bagaglio di erudizione, intelligenza e complicità con le opere d'arte, durante la visita al suo museo immaginario l'autrice offre al lettore dettagli e indizi fondamentali per penetrare nel significato di un quadro, quelli appunto che ella denomina "pillole" nel sottotitolo. Pillole, in realtà, di grande spessore. Al centro del viaggio di Chiara Frugoni c'è il Medioevo e le immagini del volume sono per lo più medievali. Si tratta di miniature, affreschi o dettagli di affresco, sculture, avori. Ma oltre a ciò in questa sua opera l' autrice si avventura ben oltre: alcune immagini mostrano infatti opere d' arte dell' antichità, di epoca grecao romana, il cui significato in codice sarà ripreso per l'appunto nel Medioevo. Quanto alle rare escursioni verso il mondo moderno e contemporaneo, l'autrice quasi si diverte a riconoscere il codice medievale dell'autorità in un quadro di soggetto sacro di Napoleone I, e il codice della sofferenza in una fotografia di Aldo Moro. L'opera affronta sei categorie: nelle prime quattro decifra il codice espressivo di quattro situazioni-tipo, e nelle ultime due mette in luce la definizione dei rapporti tra Cristo, la Vergine Maria e i cori degli angeli tramite le immagini stesse. I primi gesti artistici individuati, illustrati e spiegati sono la dominazione e la soggezione, dominare e subire. In questo particolare codice di espressività medievale le braccia rivestono naturalmente un ruolo essenziale, ma le loro posizioni sono alquanto diverse, il loro significato differente e spesso addirittura complesso da interpretare. Volendo semplificare un po' le cose, potremmo dire che in generale il braccio alzato o le braccia incrociate stanno a significare potere, mentre il braccio abbassato al contrario significa inferiorità o rinuncia. Un' analisi più approfondita dimostra inoltre che in qualche caso è essenziale distinguere la mano dal braccio: nel caso della mano la studiosa ne sottolinea il carattere eccezionale nel bassorilievo del Giudizio universale ad Autun, le due grandi mani che afferrano e soffocano la testa dell'arrogante dannato. L'autrice sottolinea che la mano è alquanto significativa perché nel caso di Dio spesso compare sola in cielo, in quanto essa è di gran lunga più importante e significativa di qualsiasi altra parte del corpo, e più del volto stesso allude alla potenza divina. Tra le immagini che illustrano il potere e la debolezza, Chiara Frugoni accorda una grande importanza all'esemplarità di Dio nell'ordine divino, al re David nell'ordine umano, in quanto nel codice iconografico ella ritrova il peso essenziale delle autorità cristiane. È per questa stessa ragione che in apertura alla sua opera l'autrice riporta l'elenco di tutti i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento. Da storica sensibile alla continuità ma anche all'evoluzione, ovvero alla rottura, con riferimento al gesto dominatore di Dio, Dio Padre o Gesù Cristo, fa notare ciò che svilupperà in seguito in relazione ai gesti del dolore, cioè che il gesto autoritario del braccio di Cristo dei primi secoli del Medioevo a partire dal Tredicesimo secolo tende a trasformarsi in gesto di benedizione. Il gesto delle braccia incrociate, invece, segno di potere e di rifiuto, può essere altresì espressione di una negazione della verità e quindi rappresentare malvagità. Chiara Frugoni lo evidenzia in particolare in una miniatura di Reims risalente alla fine del Tredicesimo secolo, nella quale si raffigura il processo a un eretico che tiene per l'appunto le braccia incrociate. Ma uno dei capitoli che più mi affascina in quest'opera resta quello dedicato al linguaggio del dolore: in aperta rottura con l' antichità, la Chiesa dei primi secoli aveva raccomandato vivamente agli artisti cristiani di evitare raffigurazioni troppo forti della disperazione, frequenti nell' arte pagana antica. Tuttavia, con il passaggio in primo piano della crocifissione di Cristo e il crescente interesse per l'infanzia, che porta in primo piano la scena biblica della strage degli innocenti, il dolore cristiano seppur misurato nella voce si libera nel gesto. La storica prende in prestito da Giotto numerose splendide immagini di questa disperazione post-francescana. I gesti della parola avevano un' importanza considerevole nelle opere antiche, epoca di grandi oratori, e la conservano anche a Bisanzio: all'autrice di questo libro va anche il merito di aver instaurato spesso paragoni significativi tra l'arte cristiano-latina e l'arte bizantina. In un'epoca in cui l'omaggio feudale ricorreva al gesto della mano e alla voce per il giuramento, gesto della mano e gesto della parola si ricollegano, e tra essi anche quel gesto del silenzio che si manifesta con un dito poggiato sulle labbra, come nella celebre tavola di Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, Pietro Pettinaio nel gesto del silenzio, esposta alla Pinacoteca di Siena. Il terzo argomento ci porta a scoprire le convenzioni simboliche che svelano il significato di alcune opposizioni nelle raffigurazioni dei personaggi e degli eventi rappresentati. Poiché la sensibilità medievale era portata nella maggior parte dei casi a esprimere la contrapposizione - per esempio quella tra Bene e Male, tra Dio e Satana, tra Cielo e Terra - la studiosa ci svela il modo, inatteso, tramite il quale le immagini esprimono queste contrapposizioni. Spesso, prima ancora della prospettiva e anzi con un sistema inconsueto rispetto a essa, ciò che è davanti si contrappone a ciò che è dietro, come ciò cheè sopra si contrapponea ciò cheè sotto: davanti-dietro, sopra-sotto. Passa quindi a farci notare come tre artisti - di epoche lontane tra loro, come possono essere un miniaturista tedesco dell'XI secolo, il Maestro della tavola Bardi del XIII secolo e un pittore anonimo veneziano del XV secolo - abbiano trovato metodi codificati di evidenziare nelle loro immagini ciò che l'osservatore non riuscirebbe a cogliere nella realtà. Nel primo caso di tratta di scribi al lavoro chiusi nel loro scriptorium; nel secondo di San Francesco che predica agli uccelli; nel terzo del martirio di Sant'Orsola e delle undicimila vergini. L'autrice, con l'esempio del battistero ottagonale di Parma, "copia" del Santo Sepolcro di Gerusalemme, ci chiarisce anche in che modo nel Medioevo la riproduzione di un'opera celebre o simbolica potesse essere a uno stesso tempo il segno tangibile della forza di un ricordo e creazione originale. Infine, numerose immagini documentano le diverse forme e i diversi significati che possono assumere i nimbi e le aureole dei santi. Durante la passeggiata nella quale ci accompagna, Chiara Frugoni ci indica i segni che - benché sembrino destinati alla rappresentazione dell'Altro, del diverso, inteso come nemico o pericolo - di fatto esprimono anche solo una differenza accertata e accettata. Lo mostra in particolare attraverso varie immagini di ebrei e di persone di colore, e rivela così in che modo il Medioevo in ambito artistico sia stato tollerante nei confronti degli "altri", indubbiamente più di frequente che nella realtà. Altro importante aspetto messo in evidenza a questo riguardo è come Cristo non sia venuto tra gli uomini a salvare soltanto i cristiani, ma a portare la misericordia agli uomini di ogni epoca, ogni religione, ogni razza. In particolare, per questo ultimo aspetto l'autrice analizza il grande mosaico dell'abside di Santa Pudenzianaa Roma, risalente al V secolo, e il mosaico di Santa Sabina a Roma. Lascio ai lettori la felice sorpresa di scoprire tutto ciò che l'autrice dimostra sui rapporti tra Cristo, la Vergine Maria e il ruolo dei cori degli angeli nella pittura medievale. Questa passeggiata ci fa scoprire nelle immagini della Passione un bestiario, una sorta di zoo pieno di animali diversi; ci fa alzare lo sguardo verso il cielo, nella speranza di intravedere in quel grande museo senza tetto gli angeli che secondo le convenzioni dell'arte medievale hanno popolato tante opere di quell'epoca, da quando nel VI secolo, facendosi passare per Dionigi l'Aeropagita, uno scrittore moltiplicò le categorie degli angeli e degli arcangeli che Chiara Frugoni ci dà come accompagnatori alla fine di questa passeggiata, nel corso della quale le piccole pillole apportano al lettore grande ricchezza, piacere e cultura." (da Jacques Le Goff, Codice Medioevo. Catturando i gesti degli angeli, "La Repubblica", 11/04/'10; trad. di Anna Bissanti)

sabato 10 aprile 2010

Diario di lettura: Alfonso Berardinelli


"Ultime fatiche, professore?. «Professore? Da tempo non più».
Già ... rara avis, l'ex prof romano Alfonso Berardinelli, uno dei pochissimi cattedratici che hanno dato le dimissioni e hanno detto addio alla sine cura universitaria. E non per diventare un San Girolamo amanuense nel deserto (anche se confessa di essere, di recente, passato dal computer alla biro). Ma, al contrario, per coltivare - come spiega lui stesso - le idiosincrasie e le passioni che più lo legano al presente: «Mi ero innamorato dell’idea di andare via dall’università, cambiare contesto voleva dire anche cambiare il punto di vista sulla narrativa e sulla poesia ...». Insegnando la letteratura «non più astrattamente» ma facendone «uno strumento di conoscenza anche politica ...». Ed è proprio questa l’attività che oggi l’ex docente - abbandonati i panni dello studioso - smussa angoli per la spada affilata del critico-combattente - persegue da tempo attraverso i suoi discussi libri, da Casi critici (Quodlibet) a L’eroe che pensa (Einaudi) a Che noia la poesia (Einaudi) scritto con Hans Magnus Enzensberger. «Adorno di Monteverde»: lo ha ribattezzato non senza un pizzico di malizia, il poeta Valentino Zeichen. Berardinelli è infatti oggi il ritrattista-polemista che più mette sotto torchio la diade intellettuali- potere, per lui sinonimo di intellettuali al potere: pronto a prendere in contropiede «le tendenze egemoni», gli scrittori che vanno per la maggiore, da Roberto Calasso e la sua casa editrice Adelphi, a Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa, Cesare Segre, Umberto Eco. Interprete che non si risparmia nessun accanimento, è stato determinato nello smantellare persino il suo stesso habitat, l’humus in cui lui pure ha attecchito: poeta, ha impugnato la penna per restituire un affresco non sempre lusinghiero del mondodella lirica contemporanea nel Pubblico della poesia (antologia a quattro mani con Franco Cordelli). Un altro paradosso lo ha poi concepito e realizzato con Diario, singolare rivista redatta da Berardinelli con il saggista Piergiorgio Bellocchio. E adesso, di questa pubblicazione - che rappresenta un unicum, un artigianato culturale di cui direttori-editori autori sono stati dal 1985 al 1993 solo i due factotum -, arriva la ristampa anastatica (Quodlibet). Così si potranno leggere i saggi dedicati a Baudelaire, Tolstoj, Herzen, Thoreau e le demolizioni indirizzate ad Heidegger, Derrida, Emanuele Severino, Elémire Zolla, Mario Tronti e altri.
Oggi, poi, sta lavorando, tanto per non smentirsi, a un pamphlet sull’Intelligenza degli intellettuali? dove la perfidia è già tutta in quel punto di domanda. Dove nasce la sua inclinazione di critico che vuole sempre sparigliare le carte, cambiare continuamente i giochi? «Forse sui banchi del liceo romano Ennio Quirino Visconti. A 17 anni ho letto di Albert Camus Lo straniero e L’uomo in rivolta. Ero un disadattato, venivo da una famiglia operaia un po’ comunista e un po’ anarchica. Sono stato un universitario appassionato e brillante ma un liceale svogliato. Non sopportavo di dover fare tutti i giorni la stessa cosa. Perfino scrivere lo stesso tema in simultanea con altre 35 persone, era una tortura. Invece di fare i compiti studiavo per conto mio da scrittore, leggevo Tolstoj, Fitzgerald, Eliot, Faulkner e García Lorca».
E così si è trovato in sintonia con i venti di ribellione e di protesta? «Nel ’68 ero un laureando e quegli anni sono stati angoscianti. Quando sono scoppiati i primi movimenti dopo un iniziale entusiasmo mi sono sentito a disagio. Troppa politica. Fin dalla prima occupazione non mi piacevano gli occupanti. Per andar controcorrente mi misi a leggere Operai e capitale di Mario Tronti che aveva poco a che fare con quegli studenti che parlavano di Nuova sinistra americana, di antipsichiatria inglese. Quegli anni alimentarono micidiali illusioni come l’idea dell’attualità di una rivoluzione tra anarchica e neobolscevica in occidente. Ipotesi irrealistica. Intendiamoci, anch’io (non so come) ci ho creduto. Ma anche gli altri ci credevano davvero?».
A suggerire convinzioni errate erano i «cattivi maestri»? «Lo furono gli intellettuali più anziani come Franco Fortini, ex socialista eretico. Gli sono debitore, scrissi una monografia su di lui, sperando nell’attenzione dei giovani del Movimento studentesco. Ma a sinistra chi esibisce le posizioni più estreme sembra sempre più coerente e finisce per averla vinta. Così si arrivò al terrorismo. Fortini ben conosceva tutto quello che negli Anni Trenta era stato detto sulle degenerazioni dello stalinismo. Aveva tradotto La condizione operaia e La prima radice di Simone Weil che aveva elaborato una delle più geniali critiche all’idea marxista di rivoluzione. Poi però dimenticò queste opere. Nutriva anche una spiccata antipatia per George Orwell che, nel corso della guerra di Spagna a cui aveva partecipato in prima persona, aveva capito che il comunismo aveva massacrato tutte le altre culture di sinistra, dai socialisti agli anarchici. Fra i tanti a essere dimenticati ci furono pure Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, un finissimo osservatore del costume e malcostume culturale e politico, capace di rappresentare, per dirla con un suo titolo, il “tarlo delle nostre coscienze”. Negli
Anni Sessanta furono entrambi considerati irrilevanti e sospetti per il loro anticomunismo».
La sua palestra di critico? I «Quaderni Piacentini», vessillo delle università in subbuglio? «Da tempo leggevo quella rivista. Proposi un articolo contro Vogliamo tutto di Nanni Balestrini che non fu mai pubblicato perché
ve n’era un altro sullo stesso argomento di Goffredo Fofi. Questo fu l’inizio della mia collaborazione. In quegli anni, almeno all’università di Roma, si discuteva soprattutto dell’operaismo di Asor Rosa e della filologia marxista di Lucio Colletti. Entrando in contatto con il gruppo dirigente, che andava da Michele Salvati a Cesare Cases, mi sentii in un clima più confacente. Bellocchio poi era il direttore e, in un’epoca in cui tutti volevano diventare leader politici, mostrava di non aver nessuna velleità di leadership. Cosa che mi fece capire che era una persona molto speciale».
Però in un primo momento lei voleva fare il poeta. «Da liceale avevo letto Che cos’è la letteratura? di Jean-Paul Sartre, che metteva al primo posto la definizione rispetto all’invenzione artistica, ed era così intrigante che mi ha portato sulla strada della saggistica. Sono diventato critico per ragioni sociali e politiche. Credo che un critico letterario sia sempre ispirato da un suo demone che non riguarda solo la letteratura ma i rapporti con la vita comune e con le regole sociali. Gli scrittori mi interessano come individui asociali, antisociali. Scrivere critica è diventato il mio modo di fare letteratura».
Da accanito polemista, però. «Se la cultura diventa meno selettiva e di massa è inevitabile pronunciare un maggior numero di giudizi negativi. Mi è poi capitato di essere così antipaticamente critico perché di fatto di critica ce n’è poca».
Una fortunata eccezione è Elsa Morante, sua amica, su cui non ha mai avuto alcuna riserva. «Fu lei che volle conoscermi dopo aver lettoun mio saggio. Io all’epoca
non ero ben documentato su tutta la sua opera. E sul suo romanzo La storia avevo qualche dubbio. Glielo dissi con un nodo alla gola ma lei accettò. Era straordinaria nell’amicizia».
A chi vorrebbe oggi dedicare dei ritratti non al fiele? «A tre recenti classici, chiamiamoli così, della contemporaneità. Raffaele La Capria che con A
cuore aperto
ha scritto uno dei suoi libri più belli, degno di entrare nel Pantheon; a Patrizia Cavalli, in cui vive del tutto naturalmente la tradizione del verso italiano, e ai saggi di Bellocchio, lo Chamfort dei nostri tempi, ovvero l’ultimo dei moralisti»." (da Mirella Serri, “Ma dove sono finiti
i tarli della coscienza?”, da "TuttoLibri", "La Stampa", 10/04/'10)

Storia dell'informazione letteraria in Italia dalla terza pagina a internet


"Il 17 giugno del 1993 Attilio Bertolucci lesse La camera da letto in una trasmissione mattutina del terzo canale Rai, raccogliendo un indice di ascolto pari a zero. Corrado Augias commentò l'accaduto su queste pagine e oggi Gian Carlo Ferretti e Stefano Guerriero ricordano l'episodio nella loro dettagliatissima Storia dell' informazione letteraria in Italia dalla terza pagina a Internet 1925-2009 che Feltrinelli manda ora in libreria. Dalla terza pagina a Internet, passando per la Tv, verrebbe da aggiungere. Ma la Tv è un mezzo idoneo alla diffusione dell' informazione letteraria? Dipende. Il non-ascolto di Bertolucci, al momento uno dei più amati e celebrati tra i poeti italiani, si deve alla trasmissione, per nulla promossa e per di più collocata in un'ora già di suo poco frequentata. Eppure - era accaduto con "Bontà loro" condotta da Maurizio Costanzo (1976-'77) e con la "Domenica in" di Pippo Baudo- era possibile portare in Tv uno scrittore e "lanciare" un libro, a volte con risultati strepitosi. Luciano De Crescenzo, per esempio, vendette in poco tempo seicentomila copie del suo Così parlò Bellavista. Mai casi, si sa, sono moltissimi e ancora oggi trasmissioni come "Che tempo che fa" di Fazio sono molto ambite da autori ed editori perché assicurano un buon successo in libreria. La Storia di Ferretti e Guerriero ripercorre quasi un secolo di vicende culturalie di quelle più specifiche dell' editoria e del giornalismo. Si cerca di mettere a fuoco cosa accade all' immagine dello scrittore presso il pubblico, veicolata prima dalle antiche terze pagine e poi da radio, tv, giornali e soprattutto, negli ultimi anni, dalla rete. I due autori, che in apertura del loro discorso rinunciano a una introduzione teorico-programmatica, si affidano soprattutto alla obiettività dell' indagine, condotta, per quanto possibile, su dati di fatto, testimonianze, statistiche, spoglio accurato di testate (non solo i grandi quotidiani ma anche le riviste, da sempre sale e tormento dei letterati). Un lavoro immane, uno strumento molto utile. Leit-motiv costante è l'aumento della produzione libraria: intorno agli anni Trenta si superano i dodicimila titoli pubblicati in pochi anni e i romanzi passano da 478 a 1469. Nel 2002 Repubblica e Corriere della Sera vendono 35 milioni di libri di narrativa, coprendo il 30 per cento del mercato editoriale librario e l'8 per cento in valore. Siamo ormai a una produzione smisurata, cui corrisponde un marketing particolarmente studiato e aggressivo che sposta sui libri il linguaggio usato per promuovere spettacoli o cantanti rock. L' editore deve creare il caso, trovare il personaggio-autore da imporre al pubblico, magari anche per poco. Per un certo periodo vanno molto i giovani autori, cannibali e no, e gli esordienti si sprecano: un inventario edito da Marcos y Marcos nel 1996 elenca 500 esordienti apparsi negli ultimi quindici anni e naturalmente in gran parte spariti. Ma i "casi" esistevano anche nel passato: nel 1935, quando uscì il Libro segreto (in realtà il titolo è molto più complesso) di D'Annunzio, Mondadori si vantò con l'autore per avergli procurato ben ventisette anticipazioni sui quotidiani. E quando tre anni dopo il Vate moriva, l'evento mediatico fu imponente, complice anche il Regime che sfruttava la salma del poeta soldato per i propri proclami guerreschi. Il poeta morto, recitavano le cronache, transitava «tra selve di bandiere abbrunate e di lauri sempre verdi», mentre gli faceva ala «il Popolo attonito», passando «dal letto di morte all'apoteosi della gloria». Anche i bestseller c'erano sempre statie naturalmente non sempre il valore di mercato coincideva con quello letterario. Un caso non ancora dimenticato è quello dell' esordio di Moravia, con Gli indifferenti nel '29. Il romanzo fu recensito nel bene e nel male (cosa non ovvia per un esordiente) e la discussione intorno al tema sollevato si protrasse per diversi anni, con l'inevitabile ingerenza del fascismo che cominciò a interrogarsi su quanto questo libro convenisse al regime e alla sua dottrina. Moravia stesso intervenne sul quotidiano fascista Il Tevere con una vera e propria abiura, mentre il suo secondo romanzo Le ambizioni sbagliate ebbe dei problemi con la censura quando Mondadori lo pubblicò nel '35. Ma i letterati italiani, come si sa, preferivano fare i pesci in barile rispetto al Regime, quando non correvano in suo soccorso come nel caso di Pirandello, dichiaratosi fascista fin dal '24, cioè quando i fascisti assassinarono Matteotti. Rintanati nelle terze pagine, fedeli alla prosa d' arte, che ha tuttavia una sua nobiltà indiscussa, gli scrittori ritrovavano il coraggio per sfidarsia duello quando un articolo non garbava. Così Ungaretti duellò con Bontempelli, Borgese con Angioletti e Telesio Interlandi contro tutti, visto che di duelli ne sostenne ben sette. Il clima non era dei migliori e il Minculpop mandava veline: recensire Papini. Nel '39 Papini aveva pubblicato Italia mia e, non pago del sostegno ufficiale, scriveva al direttore del Corriere Aldo Borelli perché gli evitasse una recensione di Pancrazi, critico autorevole della terza pagina del Corriere, che pagava, negli anni trenta, mille lire ad articolo. Gli anni scivolano via, le riviste si susseguono, da Solaria a Primato, arriva il dopoguerra e l'informazione letteraria cambia insieme ai mezzi di comunicazione. Prima, al di là della carta stampata, c'era solo la radio. Nel '38 lo stesso Arnoldo Mondadori, che era allora molto vicino al Regime, aveva una sua trasmissione quindicinale "I dieci minuti di Mondadori". Repubblica nasce nel '76 con il suo paginone culturale che in pratica ribalta i criteri con cui si faceva la vecchia terza pagina. Il Corriere, con la direzione di Paolo Mieli, l'abolirà l'8 novembre del '92. Nasce la Tv commerciale, per nulla incline alla divulgazione letteraria e nascono Internet, con il suo pubblico in crescita costante, i blog, i siti degli editori. I blogger, dice uno studioso, funzionano «come una redazione composta da milioni di persone». Dunque, aggiungo, praticamente ingestibile, ma certo fenomenale nel passaparola. La letteratura, ecco il punto, perde sacralità, dicono gli autori del saggio, e la critica scompare, uccisa dalla promozione industriale mentre il valore letterario, retaggio di un umanesimo secolare, non conta più. Ma è proprio così? I conduttori televisivi in realtà sacralizzano gli scrittori ospiti: solo che li sacralizzano tutti. Sono dei pubblicitari. Che fare? È cambiata la sacralità e, come insegna il caso Eco, basso e alto si sono mescolati. Siamo nel post-post moderno. E i critici? Vivono in clandestinità e producono blog. Ma la Rete non è tutto: secondo Cavazzoni, per esempio, un romanzo in rete è come un annegato nel mare." (da Paolo Mauri, La terza pagina: raccontare la cultura da Moravia ai blog, "La Repubblica", 08/04/'10)

venerdì 9 aprile 2010

Ipazia di Alessandria


"'Lo so, / per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi / Alessandria vibra ancora della sua febbre fina / e anche del suo un po´ frenetico deliquio ...'. Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra la fine del IV secolo e l´inizio del V, nell´incendio della più grande biblioteca dell´Antichità, l´ultimo 'sogno della ragione greca': simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell´astrolabio - secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico, non c´è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare la fama e l´ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di filosofia.
La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta dell´impero romano, resta 'una macchia indelebile' sul cristianesimo. Perché fu massacrata, pare, da una plebaglia fanatica ma eccitata alla vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco per la conquista della supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava, con l´epoca cristiana, l´orrore della violenza che invoca il nome di Dio invano - per la verità in tutti i luoghi e i tempi dove una religione diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore l´editto di Teodosio, con il quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione di stato.
Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario Luzi, che nello splendido piccolo dramma Il libro di Ipazia, pubblicato nel 1978, fa dell´antico discepolo della filosofa alessandrina il testimone pensoso di un´epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: 'Città davvero mutata, talvolta cerco di capire /se nel tuo ventre guasto e sfatto /si rimescola una nuova vita /o soltanto la dissipazione di tutto. /E non trovo risposta'. E´ questa voce di poeta che prendiamo a guida di una possibile riflessione sull´impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e di luce anche per l´azione, quando essa lascia il suo 'luogo alto, dove annidare la mente' e scende sulla piazza. Dove - come dice a Sinesio uno sconsolato amico - 'l´intimazione della verità è un´arte di oggi, /come la persuasione lo fu di ieri'. Agora, appunto, si intitola il film su Ipazia del regista spagnolo Alejandro Amenábar, finalmente in arrivo anche da noi. Si dice che sia 'un duro atto d´accusa contro tutti i fondamentalismi religiosi', tanto duro nei confronti del neonato potere temporale della chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla sua programmazione nel nostro Paese. Vedremo: in attesa, può ben essere la splendida figura di questo vescovo perplesso a guidarci nella riflessione. 'Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui'.
Sinesio, neoplatonico lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene: quando ancora era indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell´armonia fra la ragione che governa le cose terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo in cui, invece - proprio come nel nostro - 'la sorte della città è precaria / esige risoluzioni forti, parole chiare all´istante. / Occorrono idee brevi e decise - oppure cinismo'.
Ipazia poi è diventata simbolo di molte cose. Il contrasto fra gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad esempio - 'le due summae del pensiero matematico greco e della mitologia ebraico cristiana', come scrisse Odifreddi. Oppure la possibilità provata che anche le donne sappiano pensare, ed eccellere addirittura nelle scienze matematiche: e se guardate in rete troverete ancora parecchie, un po´ incongrue, difese del pensiero 'al femminile' condotte in suo nome (mentre parrebbe difficile dare un sesso alla geometria euclidea).
Ma noi ancora per un poco preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce di Sinesio, da quella del poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta stanza notturna di Ipazia, dove questa donna che 'vede lontano', lontano al punto che 'una luce d´aurora' promana da 'quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo' - conduce la sua ultima conversazione con Dio. 'Sono come sei tu. Perché io sono te. / Te e altro da te'. E´ colta di sorpresa, Ipazia: e oppone resistenza: "Perché ti manifesti ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta." Terribile la risposta: 'Non lo sei ancora. C´è tutta l´enorme distesa del diverso, / del brutale, del violento / contrario alla geometria del tuo pensiero / che devi veramente intendere'. Che devi veramente intendere: Ipazia così, nella perfetta fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca, Ipazia alla cui parola 'si addice la temperatura del fuoco' si avvia verso quello che già intravede come l´estremo sacrificio. 'Non c´è ritirata possibile, Sinesio. / Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti hanno creduto / nella forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione. / Dobbiamo deflettere a lasciarli al loro disinganno?'. E ancora, il poeta dà voce alla speranza che infine è quella di tutti noi, degli sconfitti: 'La nostra causa è perduta, e questo lo so bene. / Ma dopo? Che sappiamo del poi? / Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani'.
Ma non c´è scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e fatta a pezzi. 'Così finisce il sogno della ragione ellenica. / Così, sul pavimento di Cristo'.
Ecco: Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale profondità intellettuale e spirituale, e di un modo d´essere fatto di luminosa intransigenza (così diverso da quello di Luzi, benché altrettanto preso nel sentimento dell´assoluto), che fantastico a volte potesse trattarsi di una figura capace di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla dialettica indulgenza di "Sinesio". Cioè di Luzi.
Un ultimo sconsolato lume di intelligenza illumina una scena che si restringe paurosamente dopo questa tragedia. Alessandria è un ricordo lontano, e anche l´urto dei mondi, la trasvalutazione dei valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere proprio con quella tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: 'Spesso me lo ripeto: / senza un´idea di sé / da dare o da difendere / non si regna, si scivola a intrighi di taverna'." (da Roberta De Monticelli, Ipazia, la donna che sfidò la Chiesa, "La Repubblica", 09/04/'10)

martedì 6 aprile 2010

La biblioteca diventa multiuso


"Ci sono quelli che hanno organizzato i corsi per insegnare i dialetti, e quelle che ospitano ostetriche e notai per offrire consigli. Quelle che hanno il gruppo macramé e quelle con il laboratorio di musica vietato a chi ha più di 24 mesi. Sono le seimila biblioteche civiche italiane che stanno compiendo una rivoluzione silenziosa: oltre alla propria funzione classica, e a partecipare alle campagne nazionali come Nati per leggere, offrono servizi sociali specializzati, ovviamente gratuiti.
Così la Biblioteca di Cologno Monzese, da tempo impegnata nell'alfabetizzazione informatica con il progetto 'Nessuno escluso', è la prima civica in Italia che presta gli e-book. Tra gli scaffali sono nati gruppi di navigazione, sul modello dei gruppi di lettura. Nelle civiche torinesi ci sono la poesia-terapia e i corsi di ricamo e uncinetto o dialetto piemontese. C'è il percorso di cittadinanza per le donne magrebine, ma anche 'Il notaio è un libro aperto' con un professionista a disposizione dei grattacapi degli utenti e 'Il geometra risponde', sempre affollatissimo. 'L'associazionismo e qualche sponsor, come la Compagnia di san Paolo, garantiscono la vasta offerta, gratuita - racconta Cecilia Cognigni, bibliotecaria di Torino - la nostra forza è la capillarità delle sedi, compresi ospedali e carceri'.
La Regione Umbria ha da poco inserito le biblioteche civiche nel piano sociale regionale 'è il riconoscimento di un ruolo che svolgono sul territorio', spiega l'ex assessore alle politiche sociali Damiano Stufara, e la Toscana, già da alcuni anni, ha inaugurato i 'punti distaccati' di prestito addirittura nei saloni dei parrucchieri. 'Arriviamo buoni ultimi in Europa a sviluppare a tutto tondo della nostra missione che è promuovere cultura, favorire conoscenza e integrazione', dice Mauro Guerrini, presidente dell'Aib, che dedicherà alle 'biblioteche sociali' il convegno del prossimo 15 aprile a Genova. Dove otto anni fa, la Biblioteca internazionale per ragazzi De Amicis, ha aperto il primo sportello in Italia dedicato alla dislessia: nei primi mesi di quest'anno l'hanno affiancato allo sportello di pedagogia e a quello dedicato all'autismo e gli specialisti ricevono genitori, insegnanti e operatori. 'Il bibliotecario non deve sostituire i servizi sociali, ma può diffonderli - dice Marco Pellati, da Salaborsa di Bologna - quest'anno abbiamo ottenuto dal Comune due educatori distaccati in biblioteca, anche perché i ragazzi che non andavano a scuola venivano qui'. Così è nato il progetto Officinadolescenti, dedicato ai teenager, che sono arrivati in massa. Alla Magna Capitana di Foggia, hanno organizzato un corso di alfabetizzazione 'al contrario', rivolto agli italiani sul tema dell'immigrazione (molto seguito), affiancato da corsi di arabo e cinese (le lingue delle principali comunità di immigrati sul territorio) e sta nascendo un nuovo percorso tra biblioteca e pediatri. «L'impegno sociale è scritto nel nostro dna professionale - dice il direttore, Francesco Mercurio - ma anche nel manifesto Unesco delle biblioteche. Gli obiettivi: inclusione, sviluppo della libera scelta e della critica. La biblioteca deve rimanere lo specchio della parte migliore della società»" (da Michela Bompiani, Film, corsi di lingua e musica: la biblioteca diventa multiuso, "La Repubblica", 03/04/'10)

venerdì 2 aprile 2010

La civiltà dell'empatia


"Nel nuovo saggio di Jeremy Rifkin che esce ora in Italia, La civiltà dell´empatìa (Mondadori), c´è un primo messaggio che in apparenza è rassicurante. Sulla scorta di una robusta evidenza scientifica, l´autore spiega che noi siamo una specie animale "empatica", allenata a provare compassione, partecipazione, solidarietà. Il secondo messaggio è decisamente allarmante. La nostra empatìa per millenni si è esercitata entro cerchie ristrette, dalla famiglia alla comunità agricola fino allo Stato-nazione, non è commisurata all´estensione globale della nuova comunità umana. Riprogrammare la nostra coscienza, applicare l´empatìa su scala planetaria, è urgente se vogliamo evitare la distruzione della nostra specie (e di molte altre). Una terza componente interessante del libro è un piano ambizioso per risolvere l´equazione energetica. Si tratta di applicare all´energia il modello Internet, nel senso di una rivoluzione dal basso, un sistema di produzione e di consumo diffuso, capillare, decentrato e flessibile. Presidente della Foundation on Economic Trends di Bethesda, docente alla Wharton School, autore già popolarissimo nel mondo intero con saggi come La fine del lavoro (1995) o Economia all´idrogeno (2002), Rifkin in questa intervista discute le tesi della sua ultima opera, la più ambiziosa e impegnativa di tutte.
L´avvertimento che lei lancia non può essere preso alla leggera: siamo vicini a una sorta di implosione globale, lo stadio finale e autodistruttivo delle varie rivoluzioni industriali. «Non voglio suonare come l´ennesimo profeta dell´apocalisse, ma troppi segnali indicano che siamo davvero a un punto di svolta nella storia delle specie umana, il nostro destino può giocarsi in modo fatale entro pochi decenni. Due segnali recenti lo confermano. Uno è stato la grande crisi alimentare del 2008, che precedette (e in realtà provocò) il collasso della finanza globale: sotto la pressione della crescita cinese e indiana il petrolio toccò 147 dollari al barile, i rialzi delle derrate agroalimentari provocarono tumulti del riso e del pane in tante nazioni emergenti. Il secondo segnale è stato il fiasco del vertice di Copenhagen sull´ambiente: gli stessi leader che non avevano saputo prevedere il disastro del 2008, sono stati incapaci di affrontare il cambiamento climatico».
Lei mette sotto accusa la cultura attraverso cui noi, e le nostre classi dirigenti, interpretiamo il mondo. «Siamo ancora prigionieri della tradizione illuminista, del pensiero di Locke e Adam Smith: quello che ci rappresenta l´uomo come un essere razionale, materialista, individualista, utilitarista. Se continuiamo a usare questi strumenti intellettuali del XVIII secolo, siamo davvero condannati. Entro quella cornice culturale è impossibile per 6 miliardi di persone affrontare la scarsità delle risorse naturali. Copenhagen è fallito perché dei leader come Obama e Hu Jintao hanno continuato a pensare in termini geopolitici tradizionali, secondo gli interessi degli Stati-nazione anziché quelli della biosfera».
L´empatìa può avere effetti perversi, aumentando l´entropìa: questo è un concetto che lei ha già usato in passato, nel senso di un degrado che distrugge l´energia disponibile. Un esempio storico? «L´impero romano fu capace di espandere l´empatìa dei suoi cittadini creando una comunità molto vasta unita dallo stesso destino. Ma al tempo stesso spinse lo sfruttamento della sua base agricola fino all´estremo, fino a provocare un esaurimento che fu la vera causa del declino, prima delle invasioni barbariche. La storia si ripete. Oggi su scala ben più ampia. Più le civiltà diventano complesse, più si moltiplicano le connessioni fra gli esseri umani; ma al tempo stesso vengono richiesti maggiori flussi di energia e questi aumentano l´entropìa. La Terza Rivoluzione industriale che io disegno, nascerà dalla necessità di mitigare l´impatto entropico delle prime due. Come le altre rivoluzioni industriali, sarà trainata da una convergenza tra le nuove tecnologie della comunicazione e dell´energia. Le prime civiltà idraulico-industriali si fondarono sull´invenzione dell´alfabeto; la seconda rivoluzione industriale dall´Ottocento al Novecento fu l´incontro fra corrente elettrica, telegrafo, radio, tv».
Per questo oggi lei vede in Internet una benefica opportunità, e ha fiducia nei giovani che sono cresciuti dentro questo nuovo universo della comunicazione? «La generazione che si è affacciata alla conoscenza nel terzo millennio dà per scontato che il mondo è fatto di condivisione e cooperazione. Le vecchie generazioni hanno ancora un´idea del cambiamento dettato dall´alto verso il basso, i giovani vivono in una dimensione decentrata, sono interconnessi orizzontalmente, senza gerarchie. La mia generazione ammirò le foto della terra prese dall´Apollo nella spedizione sulla luna, fu la nostra prima esperienza di empatìa verso l´intero pianeta visto da fuori. I nostri figli ogni giorno attraverso GoogleMap si percepiscono come cittadini del pianeta terra. Disastri come i terremoti ad Haiti e in Cile, con Twitter si trasformano nell´occasione di un´immediata solidarietà umana su scala globale. Questi ragazzi abituati a usare Skype per parlarsi col compagno di Tokyo intuiscono che siamo un´unica famiglia planetaria, per loro è più facile comprendere che ogni gesto quotidiano in ogni angolo del mondo ha un impatto in tempo reale sulla biosfera e colpisce la specie umana ovunque essa si trovi. Lì si è già avviata la transizione verso una nuova forma di coscienza».
In questa Terza Rivoluzione industriale che è alle porte, il modello Internet può salvarci anche dalla crisi energetica? In che modo? «Le nuove tecnologie della comunicazione convergono con le energie rinnovabili. È quello che io chiamo l´energia distribuita, o diffusa. Perché le fonti rinnovabili – sole, vento, energia biotermica, biomasse da rifiuti – si trovano in mezzo a noi, equamente ripartite su ogni metro quadro della superficie terrestre. A differenza delle energie fossili come il petrolio e il carbone, la cui concentrazione territoriale è stata fonte di enormi problemi geopolitici».
In pratica che cosa significa abbracciare il modello dell´energia diffusa? «Significa convertire ogni singola casa, ogni palazzo, in una piccola centrale energetica che usa il sole, il vento, i rifiuti, li immagazzina e li redistribuisce. Significa che l´energia non consumata per i propri bisogni va ripartita secondo una logica di cooperazione e di solidarietà. Non è socialismo bensì un´economia di mercato ibrida. Proprio come Internet, con fenomeni come i software 'open source', ha prefigurato un superamento del capitalismo puro ibridandolo con elementi di socialismo. Tutto questo sta già cominciando ad accadere, ed è più vicino a voi di quanto crediate»." (da Federico Rampini, Intervista a Jeremy Rifkin. Ci salverà la terza rivoluzione industriale, "La Repubblica", 05/03/'10)