sabato 28 novembre 2009

Diario di lettura: Antonella Agnoli


"Quando nel 1999 l'ex manager dei Sex Pistols Malcolm McLaren si candidò per scherzo ma non troppo a sindaco di Londra, dichiarò che se mai fosse stato eletto avrebbe aperto bordelli per deputati e nuove biblioteche provviste di bar: «E' bello poter bere una Guinness mentre stai leggendo Dickens». Antonella Agnoli, storica bibliotecaria di Pesaro da poco passata alla libera professione, si occupa della seconda parte del programma elettorale del vecchio provocatore punk. E ha da poco pubblicato un libro assai interessante, Le piazze del sapere (Laterza), in cui propone di ripensare gli spazi urbani proprio a partire dalle nuove biblioteche, viste come luoghi della possibile rinascita di un Paese sempre più ignorante, alle prese ormai da anni con l'analfabetismo di ritorno, e in cui le università organizzano corsi di sostegno di italiano non per gli studenti stranieri ma per i nostri diciottenni, «incapaci di scrivere due paragrafi senza strafalcioni».
Signora Agnoli, in Italia come è noto si legge poco: quanto a lettori, siamo agli ultimi posti in Europa. E ci si rincuora se per caso il numero di chi compra almeno un libro all'anno cresce anche solo dello 0,1%. Eppure dal suo Le piazze del sapere traspare non solo un progetto, ma addirittura una speranza. Non le sembra di esagerare? «Il libro nasce da riflessioni che sto facendo da tempo: in biblioteca ho lavorato 33 anni. Di recente mi sono dedicata alla progettazione di luoghi e servizi con l'idea di ripensare la biblioteca. E volevo scrivere un libro che facesse capire che cosa è una biblioteca per una città anche da un punto di vista politico. In quella di Pesaro c'è questo mix di scelte architettoniche / orari / accoglienza. E' un luogo facile. E funziona. Direi che è un libro che i bibliotecari possono usare per dialogare con gli amministratori, che in genere non capiscono perché mai dovrebbero investire in una biblioteca.
Io non metto in discussione le biblioteche storiche, di conservazione. Oltre al fatto che in Italia si legge poco, dobbiamo tener presente che oggi la gente vuole tutto e subito: perché andare in biblioteca al tempo di Internet? Inoltre ci sono i tascabili, e almeno al Centro-Nord da noi le librerie non mancano. Tuttavia in un Paese come la Danimarca si è riscontrato un calo nel numero di prestiti ma un aumento di presenze: la biblioteca vissuta come piazza, alternativa al modello commerciale. Ecco perché la biblioteca può inserirsi in un progetto urbanistico. Il libro diventa un oggetto economico a causa dell’intrecciarsi di cose come la tecnologia, l’ignoranza e l’invivibilità delle nostre città. Io sono convinta che agganciare i giovani e invertire la tendenza sia possibile. Occorre dare loro luoghi e oggetti che abbiano attinenza con la loro vita, e dunque anche musica, cinema, fumetti. In realtà questo Paese ha deciso di non investire nell’istruzione: ma la biblioteca è un servizio trasversale a tutti i servizi della città. Fa da doposcuola al tempo dei tagli e da ritrovo per gli anziani sprovvisti di computer, e serve anche all'integrazione di chi arriva da fuori».
Dopo la sua esperienza a Pesaro è stata chiamata a Londra per collaborare al restyling degli Idea Store. Ci racconta qual è stato il suo percorso? «Ho iniziato a lavorare in biblioteca nel 1976, a Spinea, in provincia di Venezia. Non avevo studiato biblioteconomia e non avevo esperienze precedenti. La biblioteca era in una bella villa veneta con un grande parco. Mi sono detta che dovevo cominciare dai bambini. Ho scelto quelli della Emme, all’epoca all'avanguardia, e alcuni titoli di Munari. Sono stati i bambini a portarmi le mamme. Loro entravano ingobbite, timide. Ho capito che dovevamo tenere anche la narrativa rosa, compresi gli Harmony. In poco tempo un terzo della popolazione era iscritta alla biblioteca. Se avessi puntato sulla Treccani quelle mamme non le avrei più riviste. Dai bambini ho imparato tanto. Non puoi dirgli che non si possono prendere in prestito più di tre libri. La quantità è proporzionale al tempo che uno dedica alla lettura. Vale lo stesso per i film o per la musica».
Questo però è un Paese che i lettori bambini li perde per strada: se ne dolgono spesso anche i librai. «Io sono un'ottimista, o se vuole una militante. Bisogna
lottare, non arrendersi mai. Certo è faticoso perché abbiamo tutto contro: il tempo che manca, i tagli di ogni governo, la tivù, la mancanza di visione da parte della politica. Di recente hanno aperto una biblioteca a Bogotà, decidendo di investire in quella struttura per il recupero della città. Pare che funzioni, voglio andare a vederla. Per tornare ai bambini, spesso per quelli degli immigrati la cultura è ancora un valore. Per loro andare bene a scuola significa come per noi negli Anni Sessanta cercare un riscatto sociale».
Come è nato in lei l'amore per i libri? «Non so se amo i libri. Amo le persone, e certo mi piace che le persone leggano». Da ex commesso di libreria che se l'è sentita fare spesso, mi permetta una domanda ingenua: leggeva molto quando lavorava in biblioteca? «Non sono una grande lettrice. Oddio, non vorrei entrare nello stereotipo dei bibliotecari che non leggono. Ma vede, faccio tante cose, non posseggo una tivù e ascolto molta musica classica. Bach, Sciostakovic, i Quartetti di Beethoven, i Lieder».
Quali sono stati i suoi maestri? «Premesso che sono un'autodidatta, Luigi Crocetti è stato per me un grande bibliotecario. Lui non ci dava mai la soluzione di un problema, ci invitava a ragionare. A Venezia, quando lavoravo per la Biennale Cile, ho conosciuto tra gli altri Franco Basaglia e Luigi Nono. Si andava a cena fuori ed era facile conoscere persone così. Sono stati anni formativi. Prima, a Belluno, frequentavo le osterie e ascoltavo i racconti degli anziani».
E i suoi autori di riferimento? «Ogni periodo ha i suoi. Da ragazza, Mann, La montagna incantata. Ma ora? Le persone cambiano, si trasformano. Oggi leggo molti polar. Certi autori, penso per esempio a Jean-Claude Izzo, hanno saputo anticipare i fenomeni urbani, raccontandoci le periferie prima dei giornali».
Che cosa vuol fare da grande? «Vorrei mettere su un servizio, SOS Biblioteche, a cui ci si possa rivolgere per trasformare i luoghi: rendere accogliente e attraente una biblioteca costa meno che farne una nuova. La biblioteca si porta dietro un sacco di pregiudizi. Come scardinarli? Occorre pensarci»." (da Giuseppe Culicchia, In ogni città ci vuole una piazza del sapere, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/11/'09)

mercoledì 25 novembre 2009

I Tir dei libri lungo l'Italia per conquistare lettori


"Libri con le ruote. Per inseguire il lettore che fugge, le autostrade reali sono più utili di quelle informatiche. 'Da gennaio saremo la prima casa editrice on the road', annuncia Fiorenza Mursia tra gli scaffali della sua (ancora sedentaria) libreria milanese. Tutto il catalogo della cinquantenne e prestigiosa sigla dell'editoria italiana sarà caricato su quattro Tir: 3.800 titoli, 9 mila volumi per camion. Freccia a sinistra e via per lo Stivale, ventiquattro le 'piazze' già prenotate per la prima tournée, nomadi come un circo, a vender libri nei piccoli centri dove le librerie muoiono come le farfalle d'inverno.
Papà Ugo, che fondò il marchio, sarebbe contento: era un appassionato di Salgari e di Verne, cioè di viaggi e di avventure. E questa è un'avventura viaggiante che sa di moderno e di antico assieme. 'Cercavamo idee per uscire dalla morsa di un mercato editoriale sempre più rigido - spiega Fiorenza - ci aspettavamo proposte di negozi online e cose così'. Invece i guru del marketing hanno soppesato tutte le possibilità offerte dalla tecnologia e hanno concluso che il futuro sta nell'antico. In strada. Come i colporteur, venditori ambulanti di Bibbie e fogli volanti nella Francia dell'Ottocento: andare nelle piazze, con i libri veri, da far vedere e toccare.
Certo, Internet funziona, eccome. Le vendite di libri in rete sono aumentate quest'anno del 22%, più del prevedibile. Ma cosa compra il lettore in rete? Solo i titoli che già cerca. Non è lì che si farà sedurre da un libro sconosciuto. Ma ormai neanche nelle librerie di catena, dove spadroneggiano le novità (il tempo di permanenza in scaffale è sceso a tre mesi). E le librerie tradizionali, quelle col libraio che dà consigli? Perdono clienti (meno 7%). L'insieme è letale per editori che, come Mursia, vivono di un enorme catalogo di long-seller. Come proporlo al lettore-massa? Sbarcare negli ipermercati? Anche lì, a sorpresa, le vendite calano nonostante i supersconti (meno 2,5%). In queste condizioni, l'incontro tra i libri non-da-classifica e il lettore si fa difficile. Bisogna sparigliare. Inventare. Copiare da altri settori, per esempio la moda, che con i temporary shop approfitta dei negozi provvisoriamente sfitti. Anche Mursia aveva carezzato l'idea: ma l'ha scartata. "Siamo una casa editrice con una tradizione, non ci piace dare l'idea del mordi-e-fuggi". Più suggestivo il modello alimentare: sbarchi, apri, cucini e servi ben caldo. Non c'è solo la porchetta: raffinati ristoranti sushi su ruote spopolano negli Usa. Ed è questo che farà Passapartù, il progetto Mursia.
Per ora i camion sono due, ma la flotta dovrebbe raddoppiare entro il 2010. Ciascuno porta un container lungo nove metri, che una volta posato a terra si apre da solo come un carillon e in pochi minuti diventa uno stand di cento metri quadri, design firmato da due giovani architette milanesi, Valeria Manzini e Yuri Mastromattei, scaffali colmi di novemila volumi, saletta conferenze da 30 posti, computer, video e angolo cocktail. Tre settimane stanziali e una di viaggio ogni mese. Piazze scelte con cura per setacciare la provincia italiana. Sindaci entusiasti di ospitare un'animazione culturale a costo zero: 'Nessuna difficoltà a ottenere i permessi'.
Come ogni buona idea, ha precursori. Un altro grande editore italiano, Valentino Bompiani, ci pensò nel 1955. Il suo 'Librimobile', furgoncino-libreria-salotto con grandi finestre-vetrine, lo fece carrozzare da un designer prestigioso, Enzo Mari (che apparteneva, non a caso, al movimento dell'"arte cinetica"). Anche gli editori di opere a fascicoli, come Fratelli Fabbri, disponevano di un proprio parco-mezzi motorizzato. E sempre negli anni Cinquanta i servizi di pubblica lettura di alcune province raggiungevano con camioncini i paesi più sperduti per prestare e ritirare libri, tradizione rifiorita qua e là con i 'bibliobus'. Albe Steiner propose perfino scompartimenti-libreria sui treni. Ma allora non c'era Internet. La sfida era far arrivare il libro dove altrimenti non sarebbe arrivato. Oggi la gara è fra libreria reale e libreria virtuale? 'Non sono mercati in competizione' per Giovanni Peresson dell'ufficio studi dell'Associazione italiana editori. 'Il lettore di oggi - spiega - è multi-canale, compra in rete ma ama anche frugare sulle bancarelle'. Ma è proprio la stessa cosa? 'Internet è velocità - ammette Fiorenza Mursia - ma il libro è pensiero lento, cioè ascolto, maturazione, scambio: il lettore ha bisogno di tempo e spazio per innamorarsi, noi proviamo a regalarglieli'." (da Michele Smargiassi, I Tir dei libri lungo l'Italia per conquistare lettori, "La Repubblica", 24/11/'09)

Il boom italiano dei libri per ragazzi


"Per fortuna che i più giovani continuano a leggere. E che l'editoria italiana per bambini e ragazzi sta viaggiando a gonfie vele: in una situazione di generale contrazione del mercato del libro , questo è infatti l'unico settore in crescita regolare. I dati sono eloquenti: in Italia, nel 2008, il fatturato è aumentato del 9,1%, raggiungendo 150 milioni di euro, con un aproduzione di 31 milioni copie (vale a dire circa il 9% della produzione totale di varia). La crescita è costante, come dimostra anche l'aumento regolare delle novità destinate ai lettori più giovani: nel 1987 erano 951, un decennio dopo erano diventate 1740, mentre oggi sono ormai più di 2700. La vitalità del settore è confermata anche dal volume delle traduzioni dei nostri autori, il quale aumneta di anno in anno: oggi un titolo italiano su tre venduto a un editore straniero è un titolo per ragazzi. Il crescente interesse all'estero per la nostra editoria destinata a bambini e ragazzi verrà confermato a Montreuil, alle porte di Parigi, dove, da domani al 30 novembre si terrà la venticinquesima edizione del Salon du livre et de la presse jeunesse, un appuntamento molto importante, dove l'Italia sarà quest'anno l'ospite d'onore. La Francia è sempre stata molto attenta alla nostra produzione, ma se in passato era soprattutto la creatività degli illustratori italiani a suscitare l'ammirazione degli editori francesi, da qualche anno anche gli scrittori sono riusciti a conquistarsi l'attenzione dei lettori d'Oltralpe. Autori come Silvana De Mari o Licia Troisi, ma anche Silvana Gandolfi o Roberto Piumini, hanno ottenuto lusinghieri riconoscimenti di pubblico e critica. [...]" (da Fabio Gambaro, Il boom italiano dei libri per ragazzi, "La Repubblica", 24/11/'09)

lunedì 23 novembre 2009

Diario di lettura: Andrea Zanzotto


"Andrea Zanzotto è un poeta e un uomo coltissimo, che legge e ha letto di tutto, sempre. Un intellettuale che parlava di Jacques Lacan quando in Italia era ancora sconosciuto, un poeta che nei suoi versi, fin dagli esordi di Dietro il paesaggio (1951) poteva passare da Virgilio e Petrarca a Hölderlin con estrema disinvoltura. Ora è tornato a sorprenderci con un nuovo libro di poesia, Conglomerati, che per la sua straordinaria vivacità intellettuale non sembra certo opera di un autore di ottantotto anni che ha già al suo attivo testi chiave per la nostra poesia contemporanea. D'atra parte la grande reattività di fronte ai mutamenti d'epoca, la capacità di antivedere i percorsi del suo tempo, e non solo quelli della letteratura e della poesia, insieme a un'acutezza mentale finissima sono sempre stati caratteri forti della sua personalità. Ti immagino seduto a rileggere Petrarca, ma forse hai tra le mani il romanzo di un giovane scrittore veneto ... Magari Federica Manzon ... «Leggo quello che capita, leggo un po' a caso. Però seguo regolarmente, per esempio, e da decenni, un mensile come "Le Scienze", che è l'ideale per chi, senza essere o poter essere neanche lontanamente uno specialista, voglia capire di più, entrare per quanto possibile nella realtà di un'altra cultura. Oltre tutto gli scienziati, i fisici e gli astrofisici in particolare, hanno spesso straordinarie invenzioni linguistiche, sanno a loro modo muovere il linguaggio, creare linguaggio. Hanno in questo senso risorse di fantasia che spesso ignoriamo, o sottovalutiamo. Poi ci sono parole misteriose e affascinanti. Per esempio, nel mio nuovo libro ci sono questi due versi: "Se su quel ghiaccio scivoli entri in un passaggio / da un mondo a un antimondo dalle nere scinbell", con nota a pie' di pagina, a proposito di "scinbell": nome dato a una “particella” ignota».
D'accordo, ma restiamo nel mondo dei libri, dei libri o del libro che stai leggendo o hai appena letto: «Di solito evito libri troppo grossi, però questa volta ho fatto un'eccezione e ne sono rimasto contento. Parlo di Santità e potere di Giancarlo Zizola, edito da Sperling & Kupfer, un libro di oltre 500 pagine sulla vita vaticana, sulle varie correnti interne, per niente conformista, che ho apprezzato molto e dal quale c'è molto da imparare. L'ho anche presentato in pubblico».
Sono certo che ai tuoi lettori interessa capire se ti tieni al corrente di ciò che accade in poesia, se segui le novità, o almeno le nuove uscite dei suoi coetanei. «Dei giovani, sinceramente, non saprei cosa dire. Anche in questo caso, le mie, sono letture un po' occasionali, non sistematiche. Ci tengo molto, invece, a non perdere i contatti, non solo personali, con chi era amico mio già venti o trent'anni fa, o ancora di più. Mi sento più vicino a queste persone che ad altre. Vedo che tutti continuano con opere valide, persuasive, autentiche. Penso a Luciano Erba, per esempio. E ho trovato notevole l'ultima uscita di Nelo Risi, Né il giorno né l'ora. Un libro di grande fermezza e di energia intatta. E pensare che Nelo è del '20, ha addirittura un anno più me ... Di recente ci siamo anche visti. E' venuto qui con una troupe, lui che è un ottimo regista, e ha fatto un documentario divertente. Siamo andati in giro per questi posti, compatibilmente con le nostre residue forze ... O meglio: con le mie, visto che lui è più in gamba, è molto in gamba. Siamo andati a visitare i luoghi della prima guerra ... A un certo punto gli ho detto: fatico a camminare, vedi. Lui, che va spedito, è stato molto carino e mi ha detto di appoggiarmi tranquillamente a lui ... Fatto sta che a un certo punto siamo caduti tutti e due davanti alle telecamere ...».
Vedo nei tuoi interventi a favore dell'ambiente un coinvolgimento sempre maggiore nella realtà d'oggi. In fin dei conti è una conferma ulteriore di quanto il vero poeta sia ben presente nelle cose del mondo, al contrario di ciò che il luogo comune vorrebbe far credere. A proposito dei cambiamenti d'epoca, della nuova realtà, c'è qualcosa che stai leggendo? «Sì, sto leggendo La Chinafrique, di autori vari, uscito in Francia. E' un libro che mostra certe straordinarie, diaboliche sottigliezze. Per esempio dice che i cinesi stanno cercando di cinesizzare tutti gli ex territori coloniali soprattutto francesi. La loro tecnica colonizzatrice inedita è in una libera offerta di aiuto. Loro dicono, per esempio: “Sappiamo che avete bisogno di strade. Bene. Vi mandiamo i nostri tecnici”. Un'infiltrazione capillare che mi fa impressione».
Nel nuovo libro citi Pascal, ancora Hölderlin ... Credo che per te siano state letture importanti, formative. Poi citi Celan, un tuo quasi coetaneo scomparso presto e tragicamente ... «C'è uno strano incrociarsi, che mi sembra di vivere, tra passato remoto e futuro prossimo. Così, le grandi letture di ieri, formative, appunto, riaffiorano con naturalezza alla mia memoria. Anche senza bisogno di vere e proprio riletture. Hölderlin, sempre, tra i primi. Ma ormai non ho più l'energia per rincorrere il mio passato, e Celan è in una dimensione intermedia».
Quali sono i grandi, magari della narrativa, magari della narrativa del Novecento, che prediligi? Proust, Kafka, Musil, Joyce, Faulkner, Nabokov, altri ancora? «E' una materia cangiante, varia e altissima. Penso a un'immensa montagna che ha sulla cima, in posizioni diverse e sporgenti, varie figure enormi. E per quanto mi riguarda posso dire che non ho le idee sempre chiare. Anzi, per me il primato cambia da un giorno all'altro».
Ma, infine, quali sono i libri ai quali, in ogni caso, non vorresti rinunciare o che vorresti consigliare? «Innanzi tutto il primato a Giacomo Leopardi. E soprattutto allo Zibaldone, specie se riusciamo a guardare alle sue trasparenze misteriose. Non è un libro, naturalmente, da leggere come altri, dall'inizio alla fine come un romanzo. Ci si tuffa, e se ne esce sempre con una preda nuova, con impressioni e scoperte nuove. Ma non dimentichiamo Alessandro Manzoni. Un personaggio formidabile, una personalità complessa e nevrotica che era tutto il contrario di quel che lui voleva apparire. Quando insegnavo dicevo agli studenti: guardate che non racconta di promessi sposi, ma racconta di peste, di fame e di guerra».
Consigli solo letterari? «Ribadisco la necessità di un valido aggiornamento scientifico. Le Scienze può essere ottimo strumento. Trattando di scienze, invito alla rilettura di Darwin, magari anche del suo Viaggio di un naturalista intorno al mondo, collegato all'idea totale di avventura, che passa dall'avventura intellettuale dello scopritore all'avventura concreta di chi viaggia nel mondo, sulla terra e nei mari, ancora scoprendo»." (da Maurizio Cucchi, Da Leopardi alle scinbell, che vertigini, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/11/'09)

sabato 21 novembre 2009

I neuroni della lettura di Stanislas Dehaene


"Grazie perché state leggendo questo articolo. Il lavoro che affrontate è impegnativo. I vostri occhi esplorano il testo con rapidi movimenti a zig-zag in apparenza casuali. Quattro o cinque volte al secondo lo sguardo si ferma su una parola. A gran velocità la scompone in parti significative – eventuale prefisso, fonemi centrali, desinenza – poi il cervello la ricompone e interpreta.
Come e perché riusciamo a compiere con facilità operazioni così complesse è il tema che Stanislas Dehaene, psicologo cognitivo sperimentale al Collège de France, affronta nel saggio I neuroni della lettura (Raffaello Cortina), con l’autorevole viatico di Jean-Pierre Changeux.
Scrittura e lettura sono forse ciò che distingue più nettamente l’uomo dagli altri animali perché richiedono funzioni incredibilmente raffinate. Eppure la scrittura nasce soltanto 5400 anni fa, l’alfabeto fonetico ha 3800 anni. Tempi brevissimi rispetto a quelli dell’evoluzione biologica. Non è sorprendente che stiate scorrendo queste righe?
Il segreto sta nella plasticità cerebrale, spiega Dehaene, una proprietà studiata da pochi decenni. Il bambino che impara a leggere adatta i neuroni per riconoscere i volti e ogni altra forma, gli stessi degli altri animali, a cogliere significati astratti in quelle forme artificiali che sono le lettere dell’alfabeto. In pratica, è una riconversione di funzioni cerebrali preesistenti e molto più generali. Questo però è solo l’inizio della storia. Facciamo un esperimento. Pane, cielo, steca, voce, canto. Avete avvertito un lieve disagio leggendo la parola steca? Qualcosa come un inceppamento del pensiero? Il motivo è semplice. Steca non esiste, pur essendo una parola formata secondo un modello compatibile con la lingua italiana.
Dunque si può già distinguere la lettura in due fasi: nella prima l’occhio legge la parola, nella seconda il risultato della lettura viene confrontato con un vocabolario noto, nascosto da qualche parte del cervello. Se la parola non si trova nel deposito, parte un meccanismo di verifica: rilettura, tentativo di interpretazione attraverso il contesto, associazione con parole simili caso mai si trattasse di un errore di stampa.
Andando più in profondità, come avviene la lettura di una singola parola? Dehaene usa come esempio la parola «sbottonare». Occhio e cervello ne colgono subito inizio e fine: la «s» perché dà un senso privativo (togliere) e «are» perché rivela che si tratta di un verbo. Poi l’attenzione si concentra sulle sillabe centrali e afferra la parola sommersa «bottone». Infine tutto viene ricomposto: stiamo leggendo un termine che indica l’azione di togliere la chiusura data da bottoni. Il processo ha una struttura ad albero che parte dall’intero e si ramifica fino a separare le singole lettere.
Zone specifiche del cervello sono chiamate in causa, inclusi i nervi motori della fonazione: anche da adulti e lettori consumati, è come se interiormente pronunciassimo le parole che leggiamo. Ci si imbatte qui in un dualismo fndamentale: «tutti i sistemi di scrittura oscillano tra la scrittura del significato e quella dei suoni», così si può imboccare la «via fonologica che
decifra le lettere, ne deriva una pronuncia possibile e tenta di accedere al significato», oppure «una via diretta che prima recupera la parola e il significato, poi usa queste informazioni per recuperare la pronuncia».
Una grande sfida è scoprire a che cosa corrispondano questi processi nel cervello. Il primo lume si accese quando nell’ottobre 1887 il signor C., un commerciante di tessuti francese, si mise in poltrona per leggere il giornale e di colpo si accorse che per lui le lettere dell’alfabeto avevano perso ogni significato. Eppure riconosceva bene i visi e sapeva ancora scrivere, salvo poi non poter rileggere ciò che aveva scritto. Quando nel 1892 morì per un ictus peggiore di quello che aveva già subito, il neurologo Joseph-Jules Déjerine trovò nell’emisfero posteriore sinistro del suo cervello la lesione che gli impediva di leggere: fu la prima localizzazione di questa fondamentale funzione umana. La risonanza magnetica funzionale, un moderno sistema diagnostico che mostra quali parti del cervello «si accendono» durante la sua attività, ha aggiunto molte informazioni sui meccanismi della lettura e Dehaene ce li racconta: il processo si svolge in tre strati cerebrali di 8 millimetri, in prevalenza nell’emisfero sinistro.
Ma qui non possiamo entrare nei particolari, conviene saltare alle conclusioni. La prima è che la dislessia, pur avendo radice in 4 geni, è oggi più facilmente curabile grazie alle conoscenze acquisite sui neuroni della lettura. La seconda è che sta nascendo una pedagogia della lettura basata sulle neuroscienze dell’apprendimento. Il «metodo globale», che invita i bambini a guardare alla parola nel suo insieme come se fosse un disegno, molto di moda negli Anni '50-'60, è sconfessato perché il cervello non funziona «globalmente» ma analizza lo scritto suddividendolo in componenti fino alle singole lettere. Terza e ultima conclusione: più una lingua fa coincidere segni e suoni, più l’apprendimento è facile. E’ il caso dell’italiano e del tedesco. I nostri bambini dopo un anno di scuola leggono in modo sbagliato il 5 per cento delle parole, i francesi il 28 e gli inglesi il 67. Insomma: partiamo avvantaggiati. Peccato che poi molti da adulti smettano di leggere ..." (da Piero Bianucci, Che gran bella fatica è leggere, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/11/'09)

venerdì 20 novembre 2009

Le notti insonni degli amanuensi del web. 'Copiamo libri per renderli eterni'


"I nuovi amanuensi sono un popolo variegato: studenti, pensionati, professori universitari. Paolo, operaio stagionale, lavora sui tetti. Quando piove deve restare a casa, quindi può dedicarsi alla sua vera passione: digitalizza libri, passandoli in uno scanner. Ornella, studentessa di Lettere, ha un libro nel cassetto che sta limando da molti anni, forse troppi. In attesa di completare la sua opera, copia quelle degli altri. Mentre Riccardo, pensionato dalle lenti spesse, è lo specialista nella messa a fuoco delle copertine a colori.
Il frutto del loro lavoro e di qualche notte insonne finisce nella collezione delle biblioteche online che - legalmente - rendono poi i libri accessibili a tutti, gratis. Come "Liber Liber", tra i primissimi progetti italiani (dal 1993) di biblioteche digitali, voluto da Marco Calvo. Il fenomeno è arrivato adesso al suo apice nel mondo, grazie al forte impegno di colossi come Google e di istituzioni come l'Unione Europea nel creare biblioteche di libri sulla Rete. Crescono anche i lettori, mezzo milione al mese sui testi di Liber Liber.
Dietro, c'è il lavoro di un piccolo esercito di volontari, circa 2 mila in Italia, che si coordina via telefono o e-mail. Lavorano nel tempo libero, circa due ore al giorno, per dare una vita eterna, in forma digitale, ai libri che amano. "Liber Liber" ha una sede fisica a Roma e una piccola redazione che supervisiona il lavoro, con una collezione di 2mila testi, di cui sono scaduti i diritti d'autore. "Ci sono chicche come l'audiolibro del Pinocchio con un accompagnamento musicale donatoci dal musicologo francese Eric Montbel. La nostra edizione della Bibbia ha richiesto un lavoro di quattro anni di dieci persone. Abbiamo una delle edizioni migliori del Corano", dice Calvo. L'amore per i libri poi può portare a sorprese: "Volete sapere chi ci ha donato l'edizione digitale del Manifesto del Partito Comunista, rinunciando a far valere i diritti d'autore? La Silvio Berlusconi Editore", aggiunge. Duemila opere possono sembrare poca cosa, al confronto con il monumentale progetto di Google, che ha già messo online 10 milioni di libri (anche coperti da diritto d'autore, in accordo con biblioteche o editori). Ma tra questi non è facile trovare testi in italiano, su cui invece si concentra il lavoro di progetti come Liber Liber, dove i volontari peraltro impaginano con cura certosina e rispetto filologico il testo originale. A volte lo arricchiscono con musiche e interpretazioni di attori.
Altre biblioteche digitali italiane sono il progetto Manuzio (associazione no profit), con centinaia di testi; e la Biblioteca Italiana (BibIt), gestita presso l'Università della Sapienza (1.700 testi). Gli archivi di libri italiani cresceranno nei prossimi anni, grazie a progetti come Arrow (dell'Associazione italiana editori), che aprirà al pubblico a maggio; e Europeana (dell'Unione Europea), che mira a 10 milioni di opere entro il 2010 (libri, foto, film e altro). Ora ne ha 4,6 milioni, di cui però solo 100 mila italiane (quasi tutte immagini).
Intanto, mentre maturano i progetti internazionali, i volontari italiani continuano a lavorare. Con pazienza e precisione, perché "se ci vogliono 10 ore per digitalizzare un libro, poi la fase di verifica e di impaginazione per pubblicarlo online prende molto più tempo. Da 2 mesi a 2 anni in media per un libro", dice Calvo." (da Alessandro Longo, Le notti insonni degli amanuensi del web. 'Copiamo libri per renderli eterni', "La Repubblica", 20/11/'09)

Anna Frank. Quell'ultimo bacio e poi l'orrore della tragedia finale


"Circa sessant´anni fa, quando apparvero I Diari di Anne Frank (Einaudi 1954, con una bella prefazione di Natalia Ginzburg), risvegliarono un´emozione profondissima: sembrò che il massacro degli ebrei trovasse per la prima volta una voce - la lieve, spiritosa, spensierata voce di una ragazza olandese. Ci furono edizioni successive, nelle quali fu ripristinato il complesso testo originale: la monumentale edizione critica a cura di David Barnouw, Harry Pape e Gerrold van der Stroom, tradotta in Italia nel 2002, sempre da Einaudi (euro 67). Ed ora Frediano Sessi ne cura una forma ridotta (traduzione di Laura Pignatti, con una intelligente introduzione di Eraldo Affinati, Einaudi), che riporterà i Diari originali a contatto con un pubblico vastissimo. Di solito, una testimonianza biografica - diario, o lettere, o vita - patisce il peso degli anni: la polvere e l´alone della storia. Ma i Diari di Anne Frank hanno attraversato questi sessant´anni, senza che noi ce ne accorgessimo: conservano l´immediatezza, la naturalezza, la grazia del cuore, che ci colpì allora; come se proprio in questo momento una ragazza di 13 anni stia attraversando le strade di Amsterdam, colla stella gialla sul braccio, per raggiungere lietamente la scuola ebraica.
Anne Frank ricevette in dono il diario - ricoperto da una stoffa scozzese - il 12 giugno 1942, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Gli diede un nome, Kitty; e lo teneva nascosto, come se contenesse il tesoro della sua vita, insieme alla grande penna stilografica d´oro, che le aveva regalato la nonna. Kitty era un´amica, alla quale Anne voleva confidare tutti i suoi segreti, e le lettere non inviate alle sue amiche reali. Non era un semplice quaderno. Qualcosa di più: una vera e propria persona, un organismo vivente, con un corpo, un´anima, un cuore, nel quale si rispecchiava profondamente il suo cuore. Stava lì, di fronte a lei, e la consolava, la mitigava, dava consigli, alludeva, la educava. Possedeva una saggezza misteriosa che veniva da molto lontano; e a lei non spettava che ascoltare e obbedire a quelle parole. Sapeva che vi avrebbe scritto sempre - finché, forse, un giorno remoto, anche lei sarebbe diventata una scrittrice saggia come il suo diario.
Tutti conosciamo le sue fotografie. Lei le commentava vanitosamente: le piacevano le fossette sulle guance e quelle sul mento, mentre deplorava la bocca troppo grande - quella bocca ridente, che a noi pare l´incarnazione della sua inebriata felicità. Era civettuola: le piaceva che tutta la classe fosse innamorata di lei; ma avrebbe voluto ricevere anche dichiarazioni d´amore scritte nella più bella calligrafia. Apparteneva ad una famiglia ricca e privilegiata, e se ne rendeva conto. Disprezzava le ragazze povere che venivano dalle periferie. Era dura, crudele. Giudicava spietatamente i compagni: «J., vanitosa, spiona, odiosa, piena d´aria, falsa ed ipocrita»; R., «è un ragazzo falso, bugiardo, sventato e noioso». Nel diario parla delle sue gatte, del padre, che leggeva Dickens, della madre, di una pianta di rose, di una camicetta azzurra, del gioco di Monopoli, di un vasetto di crema, di una torta di fragole, di una moltitudine di regali che le giungevano da tutte le parti. Appena si guardava attorno, con i suoi occhi limpidi e lucidissimi, tutto si agitava, brillava, scintillava, entrava in quel movimento ininterrotto, che era il cuore della sua esistenza.
Nel luglio 1942, il padre di Anne, Otto Frank, decise di chiudersi insieme ad alcuni amici in un Alloggio segreto, a Prinsengracht 263. Vi rimasero più di due anni. In quel periodo l´ottica di Anne cambiò completamente. Non più le strade, la scuola, gli alberi, le amicizie, i giochi. Ma l´esperienza della più estrema concentrazione: ora Anne possedeva una specie di microscopio, con cui fissava i particolari più minuziosi della vita segregata, come un topo avrebbe scrutato un piccolo gruppo di topi in una soffitta o in una cantina. Tutto diventò minimo e romanzesco, come in una prigione del Seicento. Con questo crudele occhio d´adolescente, Anne guardava la vita dei genitori e degli amici; e tutto quello che una volta le sembrava normale, ora appariva meschino, miserabile, infimo: un orrore, che eccitava il suo disprezzo. Solo ogni quarto d´ora, il rintocco di una campana vicina dava un ritmo quieto al suo tempo interiore. Ma Anne era troppo vivace per lasciarsi opprimere. Mentre gli altri erano prigionieri e vittime del loro carcere, lei guardava, notava, si affacciava segretamente alla finestra, vedeva gli alberi, le nuvole, il cielo e si sentiva una creatura libera in una Natura liberissima e vasta. Nessuno avrebbe potuto rinchiuderla.
La persecuzione antiebraica le era sembrata, fino ad allora, una specie di gioco insensato e ridicolo. «Gli ebrei devono consegnare le biciclette; gli ebrei non devono prendere il tram: gli ebrei non devono salire su nessuna automobile, nemmeno privata; gli ebrei possono fare la spesa dalle tre alle cinque; gli ebrei possono andare solo da parrucchieri ebrei; gli ebrei non devono uscire per la strada dalle otto di sera alle sei di mattina; gli ebrei non possono trattenersi nei teatri, nei cinema e nei luoghi di svago; gli ebrei non possono andare in piscina, né nei campi di tennis, hockey o altri sport; gli ebrei non possono vogare; gli ebrei non possono praticare nessun genere di sport in pubblico?» Ma lassù, racchiusa nell´Alloggio segreto, la verità sui massacri cominciò lentamente a trapelare. Anne rimase sconvolta: «Non si salva nessuno, vecchi, bambini, neonati, donne incinte, malati, tutti, tutte camminano insieme verso la morte». Pensava che tutto sarebbe finito, che la loro isoletta protetta sarebbe stata trascinata via, che per loro non ci sarebbe stato nessun mondo normale, nessun futuro, nessuna salvezza. Presto cominciò a maturare in lei una limpida coscienza ebraica, e credette nella missione simbolica del suo popolo. «Chi ci ha costretti a servire così? È stato Dio a farci così e a risollevarci. Se sopporteremo questo dolore e alla fine resteremo ancora ebrei, allora gli ebrei da comandati che erano, saranno d´esempio». Sognava la redenzione; e, ciò che è più grandioso, la redenzione del mondo attraverso gli ebrei.
Mentre gli anni passavano, Anne cresceva, e sentiva che qualcosa si muoveva e si trasformava nel suo corpo: qualcosa che non capiva completamente. Entrava nell´adolescenza: ora gioiva della trasformazione che avvertiva in sé stessa, ora rimpiangeva dolorosamente l´ilare, frenetica infanzia, che la stava abbandonando. In apparenza, continuava la sua vita di sempre. Giocava con la gatta: cercava di conservare nel rifugio le abitudini della famiglia: ascoltava le notizie della radio inglese: rappresentava festosamente il teatro della vita segreta: leggeva i suoi libri di mitologia classica; attaccava al muro le fotografie delle sue dive; disegnava le tavole genealogiche delle famiglie reali. Ma qualcosa cambiò. Odiò, odiò violentemente, con un rancore che non si placava mai, le miserie, i litigi, le meschinità degli adulti, che vivevano, parlavano, mangiavano accanto a lei. Non perdonava niente. «Gli adulti sono soltanto invidiosi perché noi siamo giovani». «Quegli stupidi adulti, che comincino un po´ a imparare loro, prima di criticare tanto i figli». Il suo furore la portò a una specie di nichilismo.
Spesso odiava la madre. «Voglio molto più bene a papà». E l´odio per la madre cresceva: diventava meticoloso e feroce. Non ne sopportava il carattere né le prediche: diceva che aveva idee esattamente opposte alle sue; avrebbe voluto darle uno schiaffo, tanto era intensa la sua antipatia. La madre era fredda, gelida; Anne non tollerava il modo sarcastico con cui trattava i suoi affetti più cari. Poi, la riprendeva un´ondata di affetto infantile; e di nuovo questo calore scompariva, e accusava duramente la madre di non essere una vera madre, ma un´amica astiosa e irritata. Era gelosa della sorella maggiore, Margot, che trovava ingiustamente preferita e accarezzata. Per il padre, che chiamava affettuosamente Pim, aveva una tenerezza dolorosa e materna. Infine, spazzava dall´orizzonte tutta la famiglia. Nemmeno il padre la capiva, e usava con lei le parole che si usano con una bambina dall´infanzia capricciosa e difficile. Nessuno la comprendeva. Nella confusione e nel litigio dell´alloggio segreto, minacciata dalla deportazione e dalla morte, lei si sentiva «terribilmente sola, esclusa, trascurata». Le fossette delle guance si impietrivano, gli occhi si incupivano o balenavano luci fosche.
Sognava molto, e i sogni la consolavano e le aprivano il cuore gualcito e intirizzito. Nell´Alloggio segreto viveva un ragazzo, Peter, di due anni più grande di lei, per il quale non sentiva attrazione. Ma, una notte, Peter le apparve in sogno: lei guardava a lungo quei begli occhi marrone vellutato. Peter le diceva: «Se l´avessi saputo, sarei venuto molto prima», e accostava la propria guancia paffuta alla sua guancia magra. Aveva un sentimento di infinita dolcezza e freschezza. «Tutto era così bello, così bello». Quella notte, come in un racconto di Nerval, si innamorò in sogno. L´amore continuò, sempre più intenso, durante le ore del giorno. Malgrado il pudore, cominciò ad andare a trovare Peter al piano di sopra, dove il ragazzo dormiva. Parlavano di tutto, anche di cose intimissime. Peter era timido e un po´ goffo, e le sue parole erano incerte. Anne non capiva se avesse simpatia, o affetto o amore per lei. Ora Peter non la vedeva: il suo sguardo le passava sopra i capelli, e si perdeva sulle pareti della stanza. Ora, invece, le lanciava un´occhiata così calda e tenera, che anche lei si sentiva calda e tenera in cuore; ed era a lungo felice ripensando allo sguardo che aveva indugiato sui suoi occhi e sulle sue fossette.
A volte, era confusa. Non sapeva se era veramente innamorata di Peter, o se desiderava soltanto un´amicizia adolescente. Ma non poteva negare di essere innamorata: dalla mattina presto alla sera tardi non faceva che pensare a lui; si addormentava con la sua immagine davanti agli occhi, e si risvegliava mentre lui la stava ancora guardando. E, nel giorno, era difficile immaginare che non fossero veri i discorsi e i gesti del sogno. «Oh Peter, scriveva sul diario - di´ finalmente qualcosa, non lasciarmi più sospesa tra la speranza e la sconfitta. Dammi un bacio, o mandami via dalla stanza... Tutti pensano che io sia sfacciata, sicura di me e spiritosa, mentre non desidero altro che essere Anne per una sola persona. Per una persona sola vorrei essere sensibile». Un giorno, finalmente, lei gli diede il primo bacio: tra i capelli, sulla guancia sinistra, sull´orecchio. E il secondo. Anne gli buttò le braccia al collo: gli diede un bacio sulla guancia sinistra, e voleva spostarsi sulla destra, quando la sua bocca incontrò quella di Peter, ed entrambi premettero le labbra le une sulle altre.
Fu l´ultimo bacio. Proprio quando Anne sembrava avere aperto il suo cuore, si rinchiuse in sé stessa: si sentì superiore a Peter: lo disprezzava perché non aveva un obbiettivo davanti agli occhi, perché si sentiva insignificante, e non aveva mai conosciuto la sensazione di rendere felice qualcuno. «Non ha fede», scriveva. In quel momento, la sua anima si stravolse. Abbandonò tutto: il padre, la madre, Peter, gli abitanti dell´Alloggio segreto. Si sentì completamente sola, senza voce, senza parola, senza adolescenza e giovinezza. Capì che poteva fare a meno di tutto, perfino del padre, e concentrarsi nelle profondità conosciute e sconosciute del suo io. Guardò fuori dalla finestra, verso gli alberi primaverili, e sentì che il suo io sconosciuto era lì nel sole, sotto le nuvole, nel verde che rinasceva, nella Natura, o in una Natura-Dio, che riusciva a intravedere.
Notizie sempre più terribili giungevano dalla Germania: carri-bestiame, deportazioni, prigionie, mostruosi campi di concentramento, mitragliatrici, gas. Non c´era che Male e Male e Male, come non si era mai visto. «Vedo come il mondo pian piano viene trasformato sempre più in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina e ucciderà anche noi». Proprio lei - una ragazza quindicenne che aveva appena intravisto sé stessa - ebbe la forza di scrivere che la sua vita era «migliorata, molto migliorata». Dio non l´aveva lasciata sola. Esaltava il cielo, gli alberi, le nuvole, la Natura, e ribadiva che Dio si rispecchiava in tutte le cose. Cos´era la morte, la sua morte, la morte dei suoi fratelli, un popolo spazzato via? «Tutto era come doveva essere e Dio voleva vedere gli uomini felici nella Natura semplice ma bella». Tutto si sarebbe volto al bene; e nel mondo sarebbero tornati la calma e la pace. Sono parole sconvolgenti: parole, sembra, che possono dire soltanto i santi. Con le sue civetterie e i suoi scherzi irrispettosi, Anne Frank a tutto somigliava meno che a una santa. Eppure proprio lei, come una santa, esaltò il trionfo finale del bene.
Il 4 agosto 1944, la polizia nazista arrestò tutti gli abitanti dell´Alloggio segreto. I Diari di Anne Frank rimasero a terra, confusi tra un mucchio di vecchi libri e riviste. Nell´autunno, qualcuno la vide, con gli "occhi radiosi" insieme a Peter. Nel marzo 1945 morì di fame e di tifo - certo non più radiosa - nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Non sembra che, secondo la sua profezia, il Bene sia ritornato vittorioso sulla terra." (da Pietro Citati, Anna Frank. Quell'ultimo bacio e poi l'orrore della tragedia finale, "La Repubblica", 19/11/'09)

lunedì 16 novembre 2009

Cinquant'anni di Polifilo


"Prima di tutto munirsi e (ri)leggere un libro delizioso: La febbre dei libri di Alberto Vigevani (lo pubblica Sellerio, qualche libreria seria magari ancora lo tiene a scaffale). Lì troverete - con un garbo, un'eleganza e una solidità di mestiere tutte d'altri tempi - una sequenza di ricordi, divagazioni, episodi che danno un ritratto fedele di cosa volesse dire un tempo, e in una città come Milano, voler fare dell'amore per i libri una missione di vita. Ecco: le edizioni Il Polifilo, che festeggiano i cinquant'anni di vita (Alberto Vigevani le fondò con il fratello Enrico, poi affiancandosi il figlio Paolo che, oggi, ne continua con serietà e qualità l'opera - ne sia prova la riedizione di Carlo Linati, recensita qui a fianco) sono il prodotto di un'editoria concepita come servizio al libro, nel suo complesso. Il nome stesso della casa editrice, per dire, riprendeva quello della libreria antiquaria ed era omaggio al libro più bello ed enigmatico del rinascimento italiano. Non solo, dunque, la qualità dei testi - spesso veri 'ritrovamenti' da bibliofilo - e delle curatele (scorrendo il catalogo storico, ripubblicato per l'occasione, si incontrano nomi di curatori di collane come quelli di Dionisotti, Benevolo, De Seta, De Robertis, Portoghesi), ha contraddistinto le edizioni Il Polifilo. Ma una costante attenzione agli aspetti materiali del libro: carta, qualità della stampa con autori come Maestri e Mardersteig, caratteri: insomma 'armonia' (è parola di Vigevani) dell'edizione. C'è uno scritto illuminante di Vigevani, ora ripubblicato anche nel sito della casa editrice, dal titolo Qualità nelle edizioni limitate e non nel quale è spiegata con amore e sapienza la sua concezione. Un'edizione non industriale, certo, ma nemmeno per snob o feticisti del libro. Lo sforzo del Polifilo è sempre stato di fare libri di qualità superiore dedicati a un pubblico di amatori, ma non solo. Tra le varie collane spicca una, oggi ferma, sulle Arti del libro. Se questa è il vertice di quei titoli pensati per innamorati dei libri in quanto oggetti, altre, come la più recente Biblioteca perduta, portata avanti da Paolo (anche ottimo fotografo e amante dell'immagine) con i consigli del fratello Marco, apprezzato agente letterario, continua nella tradizione di proposta di testi di qualità per un pubblico più vasto. Provate a cercarli: c'è sempre molto da scoprire a varcare le soglie di una libreria. E a far scelte magari non banali." (da Stefano Salis, 50 anni di Polifilo, "Il Sole 24 Ore Domenica", 15/11/'09)

sabato 14 novembre 2009

Politica pop di G. Mazzoleni e A. Sfardini


"Fra luglio e ottobre di quest'anno, un video scandalo su di un presidente di regione girava fra redazioni di testate e uomini politici accompagnato da un interrogativo: come lo si può usare politicamente? Potere delle immagini attraverso cui si conduce ormai la lotta politica. Nei Paesi anglosassoni è entrata in uso l'espressione «politica pop» per indicare fenomeni di volgarizzazione dell'informazione e della comunicazione politica, a cui soprattutto la televisione presta il fianco con impareggiabile efficacia. La «popolarizzazione della politica» - come la chiamano gli addetti ai lavori - offre una rappresentazione del sistema politico, e dei sui protagonisti, schiacciata sulle logiche delle produzioni televisive - spettacolarizzazione, sensazionalismo, personalizzazione, etc. ... - di cui «i media sono i motorimadi cui i politici sono entusiasti attori» come si legge nell’ottimo libro Politica pop (Il mulino)di Mazzoleni e Sfardini. E' paradossale: da sempre si sa che il «media più forte» impone i suoi format a tutto il sistema; e naturalmente è ancora la televisione a trovarsi in questa posizione. Di fatto sta accadendo però che la televisione colonizzi la comunicazione politica proprio nel momento in cui la sua egemonia comincia ad entrare in discussione (per fare solo un esempio, non è un mistero che dietro alla vittoria di Obama ci sia stato anche uno straordinario utilizzo di internet durante la campagna elettorale). Concretamente l'industria dell'intrattenimento risucchia la politica, definendo format specifici.
Gli studiosi parlano soprattutto di tre generi televisivi: infotainment, soft news, politainment. Il primo caso si ha quando l'informazione vuole anche intrattenere ed essere piacevole oppure, specularmente, quando i programmi di intrattenimento si interessano di fatti e personaggi della politica. Naturalmente questo format risponde a un criterio di «notiziabilità» classico: sensazionalismo a piene mani, perché bad news is good news! Il soft news tratta il lato umano, dando molto spazio a gossip e retroscena (mentre nell'hard news tradizionale sono i fatti a fornire la notizia). E' quasi inutile aggiungere che le soft news sono uno dei cibi preferirti dell'infotainment. Infine il politainment unisce - come nel neologismo che lo indica - politica e intrattenimento, nel contempo, volendo rendere la politica divertente e, attraverso di essa, qualificare l'intrattenimento.
Qualche esempio? Il Costanzo show è l'archetipo del talk show della nostra televisione, a cui sono seguiti i vari Annozero, Ballarò, etc. ... con la differenza sostanziale che quest'ultimi ospitano solo politici e sono politicamente orientati. Il talk show politico è il fratello maggiore dell'infotainment. La Domenica in degli ultimi anni ha spesso proposto dei «siparietti» con dei politici ospiti, a cui veniva chiesto di dialogare con il conduttore secondo le logiche semplificate dello show televisivo: è un esempio di politainment. E lo è in termini ancora più caratteristici Rockpolitik di Celentano. Lo stile informativo di ReteQuattro, di Studio aperto, di ItaliaUno e del TG di RaiDue rappresentano certamente degli esempi di infotainment legati alla cronaca. Il fenomeno televisivo degli ultimi anni, Porta a porta, è un meticcio di info e politainment, con profilo flessibile a seconda dei temi oggetto della puntata.
E il pubblico? Anzi, dovremmo dire i «cittadini» visto che parliamo di politica; gli intellettuali sono unanimi nel diffidare della «politica pop», sottolineando come non alimenti il tessuto civile, ma semplicemente dia la politica in pasto alla televisione, che la rumina secondo le proprie logiche. Come dare loro torto?" (da Davide Gianluca Bianchi, Il talk show fa piccola la politica, "Tuttolibri", "La Stampa", 14/11/'09)

venerdì 13 novembre 2009

I fantasmi delle biblioteche di Jacques Bonnet


"Camilleri ha due scaffali solo per quelli di Simenon. Falco ci lascia dentro matite, gomme, biglietti di tram. Lucarelli ha elevato una torre. Maraini combatte un fantasma che li fa sparire. Montanari compila una scheda per ognuno. pincio se li ritrova dappertutto (tranne in frigo, almeno per ora). E Rizzante impartisce un ordine da capitano di ventura: eliminate la zavorra, così si annega. I libri e gli scrittori. Prendete sette autori italiani e metteteli intorno all'ultima inchiesta in fatto di bibliomania, I fantasmi delle biblioteche (Sellerio), del francese Jacques Bonnet, editore, traduttore, scrittore. Per dirvi il personaggio, uno che, quando conobbe a Parigi Giuseppe Pontiggia, contrasse un accordo con lui per dare vita a una associazione di bibliofili. La condizione per parteciparvi? Possedere almeno ventimila volumi. Perché ventimila? Tanti, spiega, ne aveva il professor Ermanno Finzi-Contini, protagonista del romanzo di Giorgio Bassani. Un uomo, questo Bonnet, che quasi svenne quando, a Palermo, invitato a casa Sciascia, notò nella libreria dello scrittore siciliano il Journal dei fratelli Goncourt, un pezzo raro che lui (francese) non aveva mai visto. I libri oggi, spiega Bonnet, costano troppo, rivenderli non rende, occupano spazi menormi, hanno troppi nemici (polvere, topi, chi li chiede in prestito). Dividono drasticamente gli amatori in due categorie: collezionisti (gli amanti delle prime edizioni) e lettori insaziabili (che ne conservano pochi). I bibliofili avrebbero persino un santo protettore, il compositore Charles Valentin Alkan, schiacciato il 20 marzo del 1888 dal crollo della sua libreria. Le librerie, si sa, sono precarie, a furia (come disse Borges) di contenere mondi e specchiare universi. Da quella di Andrea Camilleri, per esempio, i thriller rischiano di tracimare. Gialli, polizieschi, noir: per il padre del commissario Montalbano sono un'ossessione. Ne possiede centinaia. 'Amo Hammett più di Chandler, P. D. James più della Christie, Van Dine più di Edgar Wallace. Fu Poe a dimostrare che non esistono barriere fra giallo, grande narrativa e poesia', spiega. E grazie a Gadda e Sciascia, aggiunge Camilleri, anche il giallo italiano (capostipite il suo amato Augusto De Angelis) è uscito dalle secche, legandosi ai luoghi geografici. Camilleri cita Fois per la Sardegna, Carlotto per il Nord, Lucarelli per Bologna. Anzi, esattamente Mordano. Qui Carlo lucarelli, vate dell'italian noir, ha ricoperto di libri i due piani di una piccola torre (un estro simile alla libreria a forma di libro di A rebours di Huysmans?). I volumi sono sistemati per argomenti, a loro volta suddivisi per nazione, ordine alfabetico, area tematica. 'Per mafia, terrorismo e servizi segreti ho inventato la sezione criminalia' dice. Sorride, interrogato, Giorgio Falco, autore einaudiano (L'ubicazione del bene la sua ultima fatica): 'La mia libreria invece è disordinata. Alterna un'archiviazione per autori affini a improvvise sequenze di ordine alfabetico e infine ordine casuale. Beh, non proprio casuale, ma che deriva dall'aver letto quasi contemporaneamente libri inconciliabili, tuttavia pertinenti a quel che voglio scrivere. Questo comporta incertezza, soste ansiogene davanti la libreria, con lo sguardo in aria, alla ricerca di ciò che non trovo'. Non parlate neppure di libri che non si trovano a Dacia Maraini (Il treno dell'ultima notte, Rizzoli). Rivela la scrittrice: 'Ne posseggo diecimila, divisi per categorie. Ma spariscono. Mi dimentico di metterli a posto, li presto, li perdo. E così li ricompro. Perché io vado sempre in giro con un libro, in valigia, in borsa, in tasca, nel taschino. Ne ho di piccolissimi. Sono sempre con me' (una borsa da passeggio zeppa di libri era il vizietto del sinologo Peter Kien, in Auto da fé di Elias Canetti). Organizzatissimo è al contrario Raul Montanari, scrittore e traduttore italiano di Cormac McCarty (Strane cose, domani, Baldini Castoldi). 'La narrativa è tutta in ordine alfabetico. Dei libri che leggo scrivo una scheda. Impiego anche un'ora, per farla bene. E nella mia scuola di scrittura creativa da dieci anni impongo di farlo anche ai miei allievi. Aiuta ad avere una vera forma di intimità con il libro che si è letto'. Vai a parlare di libri con gli scrittori. Finisce che ti schiudono la porta della loro officina. Come nel caso di Montanari e le sue schede. E allora gettiamo un occhio, dentro questa bottega di alchimisti delle parole. Il segreto? 'Un destino perfido' spiega Tommaso Pincio, esperto di letteratura nordamericana (Cinacittà, Einaudi). 'Volevo fare l'attore' racconta ' e ho frequentato l'Accademia di belle arti. La mia maestra in casa aveva libri ovunque. Quando una volta ho aperto il forno e li ho visti anche lì mi sono angosciato. Ho giurato a me stesso: non diventerò mai così. E invece lo sono diventato. Abito in una casa minuscola, tutta occupata dalle librerie che mi sono costruito da solo'. Massimo Rizzante ha una bella faccia da attore scespiriano. Insegna letteratura all'Università di Torino. Ha fatto rumore con il saggio letterario Non siamo gli ultimi (Effigie). Cresciuto a Parigi ('dove le case sono piccole') consiglia di far dimagrire la propria libreria. 'Alla mia età, 45 anni, si comincia a rileggere. E poi per me la critica è scegliere, non emettere giudizi. Avere il coraggio di fare delel scelte è un antidoto al mercato. Lo spirito del tempo è l'enciclopedia. L'intellettuale deve essere contro il suo tempo, andare controcorrente. Non si può vedere il lettore come un consumatore dell'oggi, cui vendere un prodotto effimero. Un libro deve restare e far crescere i cittadini del futuro'. Cittadini? Futuro? Ma dietro l'angolo non c'è l'apocalisse? Non saremo tutti, presto o tardi, volenterosi carnefici di internet? Lucarelli nega: 'Il coltello e la forchetta, ottimi modi per mangiare, non sono mai stati soppiantati. Anche il libro resta la tecnologia più comoda. Cammino davanti alla mia libreria, guardo i volumi, mi viene voglia di leggere qualcosa, mi porto il libro in bagno, lo poso sulla lavatrice'. Maraini è d'accordo: 'Un libro è materia organica, simile al corpo delle persone, non sarà mai sostituito dal metallo'. Montanari teorizza nuove forme di lettura. 'Pontiggia criticava il mito della compiutezza. Compra un libro, diceva, anche se non lo leggerai dall'inizio alla fine. Non trattarlo in mdoo sacrale. Il libro sid eve strapazzare, coem quando si fa l'amore'. Falco invita a ripensare anche le immagini. Lui adora i libri di fotografia. Sembra che le istantanee, dice, escano dai volumi per occupare i muri. 'Sono i pezzi di mondo che preferisco: la vita, quando assomiglia alla fotografia'. Per Pincio i libri sono già condannati. Ma le previsioni possono sbagliare: 'Quando l'uomo rinunciò all'avventura nello spazio, le aziende cercarono nuovi mercati. Nacquero internet e il pc. Eppure l'Ibm disse che non vedeva prospettive nell'uso domestico del pc'. E Pincio ricorda ancora un black out. 'Quando ho letto per ore a lume di candela ...'." (da Piero Melati, Biblioteche. Guida d'autore su come trovare, catalogare (e perdere) libri, "Il Venerdì di Repubblica", 13/11/'09)

Des bibliothèques pleines de fantômes (Denoel)

L'Inferno è avere oltre ventimila titoli

Saviano: "I libri pericolosi per mafie e tiranni"


"'Pagine più forti della nitroglicerina'. Libri pericolosi, autori perseguitati, volumi capaci di far tremare i governi e crollare i regimi. Di smascherare le mafie e i poteri criminali.
Da I versetti satanici di Salman Rushdie alle inchieste di Anna Politkovskaja. Dalle poesie di Federico Garcìa Lorca ai racconti del gulag di Varlam T. Salamov. Dall'inferno che sembra prevalere in certi momenti, alla bellezza della parola scritta, che dà la possibilità di esistere e di lottare. Di questo ha parlato ieri sera con Fabio Fazio a Che tempo che fa, in uno speciale emozionante, dedicato a lui, Roberto Saviano, lo scrittore italiano costretto a vivere blindato, sotto scorta, per le minacce ricevute dalla camorra.
Seduto a un tavolino rotondo, ricoperto di libri e poi in piedi, davanti alle immagini che scorrevano alle sue spalle, Saviano ha raccontato alcuni casi emblematici nei quali "la parola è diventata pericolosa e straordinariamente bella". Ha parlato di "autori delegittimati". E ha spiegato come "l'unico modo per difendersi dalla delegittimazione per chi la subisce è sperare che le sue parole vengano credute": "Salman Rushdie quando ha scritto I versetti satanici non credeva affatto di imbattersi nella fatwa, nella possibilità che l'intero mondo islamico intorno a Khomeini potesse sentirsi offeso. Ma c'è un momento preciso in cui la parola, per una specie di alchimia, diventa pericolosa. Magari se un libro fosse uscito un anno piuttosto che un altro avrebbe avuto un destino completamente diverso". Libri bomba. Saviano cita il poeta turco Nazim Hikmet, che ha avuto il coraggio di ricordare il massacro degli armeni e ha subito 28 anni di carcere. "Perché le sue poesie erano lette dai soldati turchi. Erano lette dalla società civile. E il governo non sopportava tutto questo. Non poteva permettere che le parole di quello che consideravano un sovversivo potessero arrivare alle persone. Ma la maggior parte delle sue poesie non sono poesie politiche". E poi lo scrittore cubano Reinaldo Arenas, autore di Prima che sia notte. "Il regime comunista castrista costringe Arenas al carcere per due ragioni: è omosessuale ed è uno scrittore. Questo libro riuscirà a pubblicarlo perché lo scrive sulla carta igienica. E transessuale incarcerato userà questo libro come supposta e lo porterà fuori dal carcere". Cita i Racconti siciliani di Danilo Dolci. "I suoi scritti cambiano il corso delle cose. Porta avanti al Sud un progetto di sciopero davvero unico: disoccupati che si mettevano a lavorare". E poi Federico Garcia Lorca, "fucilato e scelto tra tanti intellettuali perché aveva firmato un documento di sostegno alla Repubblica spagnola, che aveva vinto attraverso le elezioni. Vengono punite le sue parole che si identificano con la sua vita". E ancora I racconti della kolyma di Varlam T. Salamov che dai gulag siberiani è riuscito a far arrivare i suoi scritti non svendendo l'anima né la dignità. Il bisogno di libertà di Vita e destino di Vasilij Grossman. Fino ai libri di Anna Politkovskaja, uccisa per i suoi racconti sulla Cecenia. Perché non c'era altro modo di fermare la sua implacabile testimonianza sulle crudeltà commesse dal governo." (da Carlo Brambilla, I libri pericolosi per mafie e tiranni, "La Republica", 12/11/'09)

mercoledì 11 novembre 2009

Poesie e incantesimi


"'Dolce corrida di uccelli / nello spazio di una sera azzurra / dolce mordere di canzoni /attorno al campanile della chiesa / dolce reato mio / che guardo in alto e spero / in una gioventù perduta fors ein mezzo aglòi uccelli / che squittiscono fieri di una notturna allegria' dice Alda Merini, morta una settimana fa, nella raccolta Testamento che Crocetti ha stampato nell'88 con introduzione di Giovanni Raboni, il quale osserva: 'Sì, la poesia della Merini è tanta, oltre che vera; e anche di questo, quel giorno, bisognerà tenere conto'. Pochi poeti del nostro tempo, e mi riferisco a tutto il Novecento, hanno sentito con la sua intensità questa urgenza del dire, questa necessità di dare parola all'insieme delle emozioni e delle azioni, ai movimenti che un'anima umana sente vibrare in sé durante l'intera vita. Lei stessa scrive in un libro Padre mio, uscito quest'anno da Frassinelli: 'Non sono morta, e per quanto la morte mi affoghi e mi faccia sudare, io, padre, non sono mai stata così viva e presente, e pare che la follia mi conferisca una tale lucidità, un tale tormento, una tale avarizia e una tale prodigalità da fare di me un incantesimo di amore sacro e profano'. Dunque una poesia come 'sudore' della vita, come incessante manifestazione di un 'sentire' che ci accompagna in ogni istante e rivela a noi stessi il fiato interiore e quello cosmico in cui siamo coinvolti. 'Oh Eterno movimento, / tu trasformi la materia in sostanza ardente' scrive in un'altra poesia. Così era, in ogni circostanza, Alda Merini. Me la fece conoscere almeno vent'anni fa Nicola Crocetti in un caffè, mentre si attendeva di andare a leggere poesie nel castello di Melegnano. C'erano con noi altri poeti, e Crocetti, indicando uno di loro, disse a Alda: 'Perché non fai una poesia su di lui ...', lei ribatté ridendo: 'No la farò su quell'altro ... perché è più timido ...'. Penso che quella poesia, come tante altre inedite, sia conservata dall'editore, vero grande amico di Alda, e a lungo, insieme a Scheiwiller, sostenitore dei suoi bisogni economici. Da allora partecipammo insieme a tante letture pubbliche. Memorabile fu un viaggio in taxi con lei e il poeta Davoli da Milano a Civitanova Marche. A un certo punto mi chiese: 'Perché non scrivi una poesia per me? Io ne scrivo una per te e tu ne scrivi una per me ...' e s'interruppe: 'Che ridicola che sono! Le poesie per una donna non si fanno su richiesta ...'. [...]" (da Franco Loi, Poesie e incantesimi, "Il Sole 24 Ore Domenica", 08/11/'09)

martedì 10 novembre 2009

Intorno alla legge di Gustavo Zagrebelsky


"'Che cosa è la legge?' – chiede il giovane Alcibiade al saggio Pericle nei Memorabili di Senofonte, ricevendone una risposta tutt´altro che soddisfacente. Se essa è 'tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto', cosa la differenzia da una semplice imposizione? Qual è la sua fonte di legittimità e quali i suoi effetti sulla vita associata? In forza di cosa, in definitiva, essa è legge – di un comando divino o di una decisione umana, di una necessità naturale o di un principio di ragione?
E´ la stessa domanda che lega i saggi di Gustavo Zagrebelsky in un libro affascinante, appena edito da Einaudi, che coniuga la tensione della ricerca sul campo – sperimentata nella lunga attività di giudice costituzionale – alla misura, ormai classica, di una scrittura limpida e coinvolgente. Il suo titolo, Intorno alla legge, non allude solo all´argomento trattato, ma, in senso più letterale, al periplo argomentativo, ricco di riferimenti filosofici, antropologici, letterari, con cui l´autore si approssima ad esso per cerchi concentrici, fino a penetrarne il nucleo incandescente. Anziché definita in quanto tale, la legge è interrogata a partire dai suoi presupposti e dalla sua ulteriorità – lungo i margini sottili che la congiungono, ma insieme la distinguono da ciò che la precede e da ciò che la eccede, vale a dire da un lato dal diritto e dall´altro dalla giustizia.
Quanto al primo, la legge – intesa come la regola formale che determina i nostri comportamenti – è lungi dall´esaurire quel complesso di norme e consuetudini, di vincoli e pratiche che una lunga tradizione ha chiamato "diritto". Naturalmente il passaggio dall´antico diritto alla moderna legge – di cui l´Antigone di Sofocle rappresenta in modo insuperato la tragica problematicità – costituisce una svolta irreversibile nei confronti di una concezione non più in grado di organizzare razionalmente la relazione tra gli uomini. Ma non al punto di cancellare la memoria di un ordine non ancora chiuso nella rigidezza formale di comandi e divieti, ancora aderente al flusso magmatico della vita associata. Anche quando, nei primi secoli della modernità, l´equilibrio tra i due mondi si spezza a favore della legge, ormai saldamente insediata al centro della civiltà giuridica, resta l´esigenza di non perdere del tutto i contatti con quell´origine da cui essa trae la propria linfa ed il proprio significato.
Lo stesso nesso problematico che la lega al diritto rapporta la legge, in maniera sempre difettiva, all´esigenza universale della giustizia. Qui il contrasto tra principio e realtà è ancora più stridente. Se la giustizia assoluta è inattingibile dalla legge, se questa non obbliga perché giusta ma solo perché legge, da dove trae la propria legittimità sostanziale? Cosa la distingue da un comando arbitrario? D´altra parte tutte le volte che la legge ha sorpassato i propri limiti costitutivi, proclamandosi giusta per decreto divino o secondo natura, ha prodotto esiti negativi se non anche catastrofici. Volendo portare sulla terra il paradiso, l´ha consegnata all´inferno. L´unico rapporto possibile con la giustizia, da parte della legge, è individuato da Zagrebelsky non in un´idea astratta e artificiale della ragione, ma in un sentimento di rifiuto nei confronti dell´ingiustizia palese.
Qui l´autore torna a riproporre l´antitesi, già formulata in opere precedenti, tra logica dei valori e semantica dei principi. Pur ponendosi gli stessi obiettivi – dalla protezione della vita alla salvaguardia della natura, dalla difesa dei diritti alla diffusione della cultura – valori e principi divergono nella modalità con cui si presentano. Mentre i primi esprimono criteri morali assoluti e dunque sottratti al confronto, i secondi sono norme aperte, modelli di orientamento, destinati a favorire l´integrazione sociale. Perciò essi sono, o vanno posti, alla base delle moderne costituzioni. Arriviamo così al cuore stesso del libro, in cui il discorso di Zagrebelsky si articola in un quadro fitto di riferimenti alla storia del diritto costituzionale ma anche di rimandi a Platone e a Sofocle, a Shakespeare e a Dostoevkij, a Canetti e a Brecht – ad ulteriore riprova che i veri problemi del diritto non giacciono inerti nei codici o nelle decisioni dei giudici, ma nella falda profonda che essi interpretano in forma sempre precaria e provvisoria.
La costituzione, oltre che come garanzia della legittimità e dei limiti dei poteri all´interno dello Stato, va intesa, in senso culturale, come luogo di confluenza, e di rielaborazione, di quell´insieme di valori, aspirazioni, sensibilità collettive che costituiscono l´orizzonte razionale ed emozionale della convivenza. In questo senso, nella sua capacità di tenere insieme punti di vista diversi, essa travalica di gran lunga i confini formali del diritto positivo, per diventare la condizione basilare della democrazia pluralista. Non solo, ma anche un punto d´incrocio decisivo tra le dimensioni del tempo e dello spazio.
Da questo punto di vista la dottrina costituzionale cui Zagrebelsky si richiama non costituisce soltanto una variante rispetto ai tanti modelli precedenti, bensì un vero e proprio cambio di paradigma. Assumere la costituzione non più come norma sovrana, ma come norma fondamentale scaturita dall´intera dialettica sociale, vuol dire situarla in rapporto da un lato con la storia e dall´altro con la nuova configurazione globale del mondo contemporaneo. Anziché modello fisso e immutabile, o anche atto creativo volto ad istituire un ordine completamente nuovo, la costituzione è quella linea di continuità capace di collegare in un nodo complesso passato e futuro. Di attivare una dinamica storica non racchiusa nei confini di un singolo Stato, ma aperta alle richieste che arrivano da un mondo sempre più unito dalle stesse angosce e dalle stesse speranze." (da Roberto Esposito, Norma e diritto, da Platone a Brecht, "La Repubblica", 10/11/'09)

lunedì 9 novembre 2009

Diario di lettura: Ginevra Bompiani


"A distanza di decenni, Ginevra Bompiani ha conservato la stessa figura sottile, nervosa, come di adolescente in perenne movimento, tra elfo e folletto gioioso ma anche meditabondo che graviti in uno spazio a sua misura, conquistato e difeso con protervia. Dopo aver letto il suo bellissimo romanzo L'orso maggiore - racconto di una ferita infantile rivisitata sul filo dei sentimenti provocati dalla morte della madre - non si può non ritrovare in lei la bambina che costruendo la sua vita di donna ha dimostrato, con i suoi libri, che l'esperienza - come riteneva Proust - è veramente portata a compimento quando diventa materia di scrittura. Cresciuta tra i libri, all’ombra del padre Valentino fondatore di una delle più prestigiose case editrici italiane (oggi, a Milano, si presenta il numero speciale di Panta per gli ottant’anni della Bompiani), ha cominciato a scrivere prestissimo, per «battere» una coetanea inglese di otto anni, ma la sua Storia di un fiammifero si fermò alle prime due pagine: un grande incendio in cui la giovane protagonista perdeva con un sospiro casa e famiglia. Ha studiato e vissuto a Parigi. Ventenne ha esordito come brillante editor per poi dedicarsi alla letteratura inglese e diventare docente universitaria.
Autrice di racconti, saggi e romanzi, dove realtà e invenzione si amalgamano in una scrittura tersa e suggestiva, sette anni fa è tornata all'editoria fondando con altri nottetempo. Vive tra Parigi e Roma dove da trent’anni abita una casa affacciata sull’Orto botanico che - dice - «con i suoi semi volanti ha reso il mio terrazzo una foresta». Anche il suo studio è un po’ la sua foresta di carte e di libri.
Per costruirla, quanto l’ha influenzata la figura di un padre come Valentino Bompiani? «Il rapporto con mio padre si muoveva su due binari. In quanto bambina, con lui il rapporto era di semplice autorità, ma in quanto essere pensante, c'era un dialogo quasi alla pari. Avevo otto anni e mi leggeva il suo teatro che io commentavo. Mi leggeva anche ad alta voce Emily Dickinson, Leopardi, la Ortese.
Li sento ancora con la sua voce. Fino a dodici anni ho letto tutta la produzione per ragazzi della casa editrice, da Il piccolo principe a I ragazzi della via Paal, da Mary Poppins (di cui conobbi bene l'autrice Pamela Travers) a Emilio e i tre gemelli.
Ma leggevo i libri della Scala d'Oro di nascosto. Essendo riscritture per bambini di celebri capolavori, lui le considerava diseducative. Quello che più ho amato è stato I cavalieri della tavola rotonda. Certo, la regina si chiamava come me, e questo mi rendeva molto sensibile a Lancillotto e all’infedeltà».
Audacia, coraggio, sfida, competizione, sono gli stessi sentimenti che caratterizzano i comportamenti infantili dell’io narrante nell’autobiografico L’orso maggiore. «Da bambina non amavo i libri di avventure, ma il collegio svizzero che racconto nell’Orso maggiore mi ha buttato in alto mare e ha fatto di me, tranquillo passeggero, un piccolo capitano di nave in tempesta. Fra
l'altro, L’orso maggiore è solo in parte autobiografico. L'idea è che l'infanzia possa dar luogo a diverse vite, non ne determini una sola, quella che hai poi vissuto. E nel libro ce ne sono due, infatti: narratore e personaggio hanno la stessa infanzia ma due vite diverse».
Quali altri libri sono poi stati formativi? «A tredici anni ho attaccato Dumas, che mi ha svezzato dall’editoria infantile, con la serie de I tre moschettieri. Poi, i russi, soprattutto Cechov e Tolstoj. Cechov mi fece da balia, particolarmente nella scrittura, Tolstoj mi diede il senso dell’inevitabilità. Ricordo, più tardi, a vent’anni, in piedi in un caffè di Parigi, una discussione con Nanni Filippini, in cui sostenevo che non è possibile mancare il proprio destino. In me parlava la voce di Tolstoj, in lui un senso più acuto del possibile, e in qualche modo la vita gli diede ragione. Cechov mi ha insegnato che il narrare è curvo, disegna una parabola: all'apice della curva la linea comincia a scendere (questo succede a partire dall’Ottocento, mentre fino ad allora la narrativa si lanciava come una freccia verso il lieto fine). L'apice, in Cechov, è raggiunto nel momento in cui si profila l'idea che la vita potrebbe essere diversa, ma poi l'apertura si rivela un'illusione e la curva precipita nel non lieto fine. La lettura di Freud, per ragioni sanitarie, e insieme di Cervantes, sono seguite poco dopo».
In Le specie del sonno rivisita temi e figure mitologiche. Una fascinazione che, immagino, risale allo stesso periodo. «Sì, era cominciata al liceo, direi. Poi ho cominciato a leggere sia le fonti che i grandi libri sul mito, da Kerenyi a Walter Otto. Ho amato molto le Metamorfosi di Ovidio e i Caratteri di Teofrasto, di cui mi sono servita anni dopo in un periodo in cui riflettevo sul carattere. Le Specie del sonno sono nate da un primo testo sui Centauri. Lo sguardo sui miti era letterale, o meglio figurativo: mi piaceva immaginare come dormivano e com’era modificata la loro vita dalle posizioni e dalle limitazioni del loro corpo».
Molti suoi testi danno l'impressione di esemplificazioni filosofiche. Da Platone a Deleuze, citazioni esemplari compaiono in esergo a libri e racconti. «Non sono filosofa, ma c'è stato un lungo periodo della mia vita in cui ho frequentato la filosofia. Ho vissuto accanto a un filosofo per molti anni, e mi è capitato di incontrare grandi filosofi del nostro tempo: Heidegger, Derrida, e soprattutto Deleuze. Da quando ho sentito una sua lezione, a quando poi l'ho incontrato, a tutto quello che ho letto di lui, non c'è una sillaba che non mi riempia e non mi insegni. Ho avuto la fortuna di incontrare molti “grandi” nella mia vita, ma di incontrarli nella vita quotidiana, senza aura, e questo, credo, ha fatto sì che quello che erano mi toccasse in modo profondo e struggente, mi raggiungesse, come dire, il cuore prima del cervello: lo sguardo di Heidegger, la voce di Ingeborg Bachmann, la gentilezza di Derrida, l'avvenenza di Calvino, la torva comicità di Manganelli ...
Fra tutti, due mi hanno abitata, non come fantasmi, ma come padroni di casa: José Bergamin e Gilles Deleuze».
Insieme al filosofo di grande valore che ha sposato, Giorgio Agamben, nel 1968 ha creato per Bompiani il «Pesanervi», una magnifica collana di letteratura fantastica. Quale, la scoperta più importante? «Direi Bioy Casares, all'epoca completamente sconosciuto».
Da editrice, ha pubblicato La risata del ’68, un omaggio a un momento
di grande apertura, anche nell'editoria ... «Sì, quarant'anni dopo il ’68, tutti si affannavano a negarne la grande felicità e ricchezza. Ho chiesto ad alcuni protagonisti di raccontare il loro ’68: un momento di “vacche grasse”, checché se ne dica ... Il degrado attuale, o per meglio dire la vergogna, è così profonda che
non si può attribuire a un solo fattore. Anche se ce la mette tutta, la distruzione della cultura non è solo opera del governo. A cambiare la cultura sono, in gran parte, i tre strumenti della solitudine contemporanea: la televisione, Internet
e il cellulare».
Come vede la situazione della piccola editoria? «Difficile. I piccoli editori sono
stretti fra molte morse: grande editoria, grande distribuzione, grandi catene librarie. E' difficile restare indipendenti ... Alcuni recentemente hanno stretto alleanze, e uno dei progetti più ambiziosi è ottenere il prezzo fisso dei libri,
che, pur esistendo teoricamente, viene eluso discriminando l'editoria indipendente. Alla fine il pubblico sceglie lo sconto piuttosto che il libro».
Sconti in cambio di vetrine in affitto, a scapito di libri di qualità? «Esattamente. Solo la legge potrebbe porvi rimedio, e la piccola editoria indipendente si sta muovendo in questa direzione».
Tra i suoi libri d'affezione non ha citato nessun italiano. «Amo moltissimo Anna Maria Ortese, scrittrice straordinaria, ancora misconosciuta dalle antologie e dalla critica del Novecento, come d'altronde Elsa Morante. In Ortese mi affascina il continuo rovesciarsi di miseria e splendore, di realtà e immaginazione. Questa doppia visione c'è anche in Fabrizia Ramondino, altra grande scrittrice di cui abbiamo pubblicato il libro di racconti Il Calore. Tutte e tre, Ortese, Morante, Ramondino, sono legate a Napoli, una città molto narrativa. Forse è una qualità legata anche al suo emblema: Pulcinella che balla e a ogni giro mostra una faccia diversa - la faccia che ride e il volto della morte. In queste scrittrici, le due facce sono sempre presenti, e a ogni giro di danza appare l'una o l'altra».
Perché tanta distrazione? «Perché sono donne! In realtà, verso le donne che scrivono c'è un interesse per così dire “mondano”, ma le istituzioni sono cambiate poco ... Mi piace la narrativa pensante, amo molto Calvino, Caproni, Celati, Manganelli ... E penso sinceramente che Milena Agus sia una delle voci più autentiche della nostra narrativa»." (da Paola Decina Lombardi, Tre donne e Pulcinella ballano per me, "TuttoLibri", "La Stampa", 07/11/'09)

sabato 7 novembre 2009

La vita dei dettagli di Antonella Anedda


"Gli storici dell'arte conoscono bene, ahiloro, quel gioco che consiste nel riconoscere un'opera a partire da un suo minimo dettaglio. Più in generale si sa come Carlo Ginzburg abbia potuto accostare la pratica dell'attribuzione ai «paradigmi indiziari» di Conan Doyle e Sigmund Freud.
In quest'aureo libretto che direi il suo capolavoro - La vita dei dettagli (Donzelli) - Antonella Anedda (la quale, nella sua favolosa giovinezza, studiò alla scuola di Augusto Gentili) sceglie di fare il percorso inverso. Invertendo il circolo ermeneutico, isola trentadue dettagli da immagini più o meno celebri (dall'iconografia tardoantica alla videoarte di oggi) «usando lo sguardo come coltello». Così dando vita a uno straniamento assoluto, «una nuova consapevolezza dell'alterità misteriosa del mondo», quasi un senso di minaccia (la suspense di Hopper!). Prose brevissime, descrittive o narrative (come nei precedenti libri «saggistici» della poetessa romana d'origine sarda: il magnifico Cosa sono gli anni del '97 e La luce delle cose del 2000), commentano i frammenti. È un gioco (la premessa s'intitola Istruzioni per l'uso; le «attribuzioni» sono definite Soluzioni), ma quanto mai serio: ogni prosa rinvia all'altra sogni, ossessioni, coazioni a ripetere.
Per questo sono in numero di trentadue: come le Goldberg di Bach, variazioni su un medesimo tema. Come le poesie più belle, in sardo, nell'ultima raccolta Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007) rinviano a una storia taciuta, troppo bruciante per essere narrata («tutto è reticenza» è detto sempre a proposito di Hopper). Una storia di lutto, più in generale di perdita. Non a caso in explicit Anedda pone una voce da dizionario, appunto Perdita. E questo breve testo - come nell'altro suo splendido libro segreto, Nomi distanti (Empirìa, 1998) - a sua volta è «variazione» di una poesia celebre, Un'arte di Elizabeth Bishop («L'arte di perdere non è una disciplina dura»). Fra i trentadue «ritagli» quello chiave è il quindicesimo, con gli occhi del più celebre ritratto del Fayum (II sec. d.C.): «la ragazza è morta». L'ultimo, poi, è davvero inconfondibile: i piedi del Cristo morto del Mantegna ovvero «il ritratto della nostra vertigine davanti a ogni morte». Non si pensi però a una contemplazione della morte macabro-dannunziana; inquieta semmai che, com'è evidente negli occhi di Fayum, ad essere risvegliato sia lo sguardo dei morti. Sono loro che ci guardano, come poi in certo senso (quello del Barthes della Camera chiara) è connaturato alle immagini. Ci interpellano, ci mettono in questione. (Come nel Torso di Rilke: «non c'è punto che non veda / te, la tua vita. Tu devi mutarla».) Ne consegue che chi dice «io» (per esempio nel diario di una visita ad Arles, nei bellissimi saggi su figure sacrificali come Nicolas de Staël e Mark Rothko, o nel fuoriformato conclusivo di frasi e fotografie) lo fa solo «per curarsi dallo spavento » che incutono, sempre, le visite dei «fantasmi». La sua è «una passione di spossessamento».
Riprendeva una lunga tradizione Aby Warburg quando diceva che nei dettagli, appunto, si nasconde «il buon Dio». Si potrebbe simmetricamente argomentare che sia piuttosto, questa, una pratica perversa (e dunque diabolica); ma senza dubbio il cortocircuito descritto redime la materia più feriale, «totalmente terrena, non mistica», nella sfera del trascendente, diciamo pure del religioso (nel senso più ampio possibile: dove, dice Anedda commentando Dostoevskij, può venir meno «la distinzione tra credere e non credere»).
Non a caso tale spossessamento viene un paio di volte definito da Anedda «esicasmo», una pratica ascetica dei Padri del deserto e in genere degli asceti orientali: una preghiera ossessivamente ripetuta in condizioni di totale isolamento - ad esempio al chiuso di una cella - per lo più di fronte a un'icona. Quel che conta per l'esicasta, comunque, è la pratica dell'attenzione. Si comprende allora la lezione di «stoicismo» (come viene detto a proposito di un'impietosa poesia di Zbigniew Herbert) che con risolutezza Anedda trae da questi esercizi di contemplazione.
Per questo - credenti e non - possiamo commuoverci con lei per perdite, magari, meno tragiche delle sue. Lo ha detto una volta per tutte Walter Benjamin: «se Kafka non ha pregato - ciò che non sappiamo - gli era propria, in altissima misura, ciò che Malebranche definisce "la preghiera naturale dell'anima": l'attenzione. E in essa, come i santi nelle loro preghiere, egli ha compreso ogni creatura»." (da Andrea Cortellessa, Gli occhi a coltello dentro un quadro, "TuttoLibri", "La Stampa", 07/11/'09)

Romano Bilenchi, il Conservatore dell'adolescenza


"Ogni epoca scrive e aggiorna il proprio romanzo di formazione, ma l’invenzione narrativa dell’adolescenza è un archetipo, una fase simbolica primaria. Ci sono scrittori che come Bilenchi rimangono centrati su quella stagione per tutta la vita. Da Anna e Bruno a Conservatorio di Santa Teresa, ai racconti La siccità e La miseria, che a quarant’anni di distanza si chiudono con Il gelo nel trittico degli Anni impossibili, Bilenchi scrive il suo romanzo unico e continuo sull’infanzia e sull’adolescenza. E di questo grande romanzo Il gelo è miniatura perfetta, apice e colmo. Come Jerome D. Salinger e Henry Roth, che hanno fissato nella loro narrazione l’età più incerta e impossibile dell’uomo, come Elsa Morante nell’Isola di Arturo.
La scelta del racconto di formazione, di personaggi adolescenti intrappolati nella rete di un presente senza fine, assicura la libertà di continuare a essere nonostante e oltre la Storia. Questa è la prima ragione per cui leggere Bilenchi oggi, a un secolo dalla nascita, è un’esperienza sempre nuova. All’inizio degli Anni Ottanta, Bilenchi lavora al Gelo (1982) e ritorna attraverso il filtro della memoria a quel primo tempo. La lunga fedeltà a questi temi: il rapporto con la madre, la figura del nonno, l’amicizia, l’amore, la morte, l’odio, la vendetta, il paesaggio, denota il suo accentramento assoluto sull’uomo che si forma. Attraverso la lente dell’infanzia e dell’adolescenza Bilenchi coglie il flusso stesso dell’esistere, il suo eterno movimento. E al centro di questa scrittura c’è il libro-mondo Conservatorio (1940), uno dei grandi romanzi del Novecento, dove nulla veramente accade se non la vita. La narrazione viene risucchiata nel pieno dei sentimenti e delle emozioni, nella densità affettiva del racconto, in un vortice che annulla le coordinate temporali.
La seconda ragione per leggere Bilenchi è il paesaggio, centrale nella sua narrativa, paesaggio che ci viene incontro come un vero personaggio. È difficile pensare a uno scrittore che racconti più da vicino l’Italia e le sue tragedie. Bilenchi riesce a rivitalizzare elementi originari del paesaggio italiano, e la Storia, ridotta a sfondo, lascia il passo alle forme elementari e immutabili dell’esistenza: la casa, le colline, la pianura, il fiume, le crete, il campo di girasoli, la strada, il cielo stellato. Pochi libri ci costringono a un confronto tanto serrato, dove ogni luogo denota un modo d’essere e di abitare il mondo. A questa geografia memoriale si saldano i luoghi reali dell’autobiografia, e dopo Colle, Siena, cresce il ritratto di Firenze: la città aperta dei caffè e delle amicizie con Ricci, Rosai, Pratolini, Vittorini, Luzi, poi quella della guerra e della liberazione. Una Firenze buia e fangosa che si apre alla riconquista della coscienza civile negli anni del dopoguerra e del Nuovo Corriere: la città di Mario Fabiani e Giorgio La Pira, di Piero Calamandrei e Tristano Codignola, di Eugenio Garin e Ranuccio Bianchi Bandinelli.
Nei racconti di Bilenchi si fa esercizio di libertà, si allena la nostra capacità di essere e mantenersi liberi, e ieri come oggi non è cosa da poco. Ne deriva la terza motivazione di lettura, «politica» e civile: la libertà, da qualunque ideologia e dai condizionamenti della Storia.
Nel romanzo continuo di Bilenchi sull’età giovane la Storia viene apparentemente cancellata per riemergere in eventi minimi e quotidiani. Toccherà al Bottone di Stalingrado mettere in luce il fondo storico di Conservatorio, completandone il tragitto verso l’età adulta. In realtà fin dall’esordio, con Vita di Pisto, Bilenchi ha lavorato alla costruzione di un altro romanzo parallelo: il romanzo biografico e in chiaroscuro della sua generazione. Una generazione che ha attraversato tutto il Novecento: fascismo guerra resistenza, e ne è stata protagonista. Se il romanzo sull’adolescenza trova compimento nel Gelo, il romanzo di quella generazione include il tormentato Capofabbrica, il controverso Bottone di Stalingrado fino all'esito ultimo e sorprendente di Amici. Così temi e tempi storici si legano e intrecciano in un’unica ossessione: il racconto esatto del farsi di una coscienza, la chiarificazione di fatti ed eventi che concorrano alla comprensione dell’accaduto. Da una parte Bilenchi è fermo sull’età giovane, dall’altra sul fascismo e sulla resistenza: sono il chiodo fisso della sua narrazione, da cui mai si affranca e a cui sempre ritorna.
Bilenchi fu un fascista bolscevico e poi un comunista liberale (Corrado Stajano), dentro le grandi ideologie totalitarie del Novecento si mosse da uomo libero. Per tutta la vita sentì il bisogno di ripercorrere il suo apprendistato, di raccontare e testimoniare con chiarezza i fatti. Perché solo la precisione, solo il puntuale resoconto potevano spiegare la sua vicenda personale. La sua fu una lunga espiazione per quello che è stato il destino di una generazione. In mezzo ci fu il Nuovo Corriere, chiuso dal Pci nel 1956 perché schierato dalla parte degli operai polacchi insorti, prima dei moti d'Ungheria. Fu un atto di censura violento e un suicidio culturale. Non ci furono altre occasioni per Bilenchi direttore e Firenze perse con il suo più autorevole quotidiano la possibilità di rimanere capitale culturale del Paese. Uscito dal Pci nel 1957, Bilenchi rientrerà nel partito nel 1972. Nello stesso anno esce Il bottone di Stalingrado, il romanzo più dolente e più scorticato, quello che gli è costato di più.
L'ultima e quarta motivazione di lettura è la lingua, una lingua semplice e denotativa che conduce il lettore a un soffio dalle cose nominate. Lo stile semplice di Bilenchi, uno stile terso e nitido, è il risultato di un lavoro infinito che lascia in superficie una lingua magra, disossata. Eppure quello che colpisce e resta il tratto unico e distintivo di questo autore è l’assoluta coincidenza tra il suo percorso artistico e quello umano. C’è una progressiva presa di coscienza dell’uomo e dello scrittore che porta da un lato a una maggiore messa a punto linguistica e formale delle storie che riguardano l’infanzia e l’adolescenza, dall’altro la maturazione politica e intellettuale rivendica in un modo altrettanto ossessivo una ridefinizione della formazione giovanile. Quella moralità che guida Bilenchi alla riscrittura continua dei suoi testi è la stessa che porrà nella stesura della sua biografia artistica e umana, Amici. Come se ripercorrere parola per parola il proprio passato potesse ancora rimettere in gioco il secolo e soprattutto ridefinire chi siamo per il nostro futuro.
Lo scandalo di Bilenchi - la sua resistente inattualità - consiste proprio nella radicalità del suo lavoro, nel suo massimalismo morale, nell'irriducibile ricerca della verità. Tutta l’opera di Bilenchi è conficcata nel cuore del Novecento senza potere essere iscritta a nessun canone rassicurante, lontana anni luce da tentazioni sperimentali o dalla neoavanguardia quanto lo fu dal neorealismo o dal romanzo borghese. È un altro Novecento. Oltre alle quattro buone (o ottime) ragioni per leggere Bilenchi, c’è ancora qualcos'altro, quello che rimane da qualunque calcolo matematico il cui risultato sia un numero periodico. Quel resto incalcolabile, impossibile, indicibile, è ciò di cui si occupa la letteratura. È la ragione ultima per cui restiamo imprigionati dentro un libro. La narrativa di Bilenchi porta inciso a fuoco questo dato e resiste nel tempo. Anche per questo continuiamo a leggere e amare i suoi libri." (da Benedetta Centovalli, Romano Bilenchi, il Conservatore dell'adolescenza, "TuttoLibri", "La Stampa", 07/11/'09)