venerdì 31 ottobre 2008

Twilight di Stephenie Meyer


"Ancora pochi giorni e poi i fan e soprattutto, le fan, potranno finalmente trovare l'ultimo volume della saga. Si intitola Breaking Dawn e completa la serie che vede protagonista Bella (di nome e di fatto), giovane e mortale studentessa, ed Edward, algido, elegantissimo e ricercato ... vampiro. La loro è una storia d'amore romanticissima, con forti tinte gotiche ovviamente, che si trascina ormai da tre libri (Twilight, il primo, New Moon, il secondo, ed Eclipse). A concepirla è un'autrice di successo internazionale, Stephenie Meyer (35 anni), che ha creato uno dei pochi fenomeni editoriali paragonabili - fatte le debite differenze sui numeri - per le modalità e per essere riuscita a realizzare, con i suoi eroi, una sorta di brand, a Harry Potter. E basti qualche numero a dare l'idea. Quando è uscito negli States, in piena estate, l'ultimo capitolo della saga ha venduto in un solo giorno 1,3 milioni di copie (contro le 8 di HP ...). Di milioni di copie la Meyer ne ha vendute già otto (escludendo quest'ultimo titolo), delle quali 500mila in Italia, dove è stata scovata, curata e coccolata da Fazi che l'ha pubblicata, molto accortamente, sotto la sigla Lain, mantenendo titoli e copertine originali, il che aggiunge sicuramente fascino internazionale alla serie. [...] Ma il successo che si aspetta a partire da questa settimana per Breaking Dawn, nel quale si scoprirà se l'amore tra i due protagonisti li legherà (e in che modo) per sempre, è ancora più forte, dal momento che arriverà nelle sale, a fine novembre, il film Twilight, per la regia di Catherine Hardwicke. Nel cast attori poco noti ma che lo diventeranno: Kristen Stewart, Robert Pattinson e Cam Gigandet. Attori e regista saranno di scena a Roma giovedì e venerdì, in occasione del Festival del Film. Verranno infatti presentati i primi quindici minuti del film e, a seguire, ci sarà un dibattito tra i giovani Twilighters italiani e il cast del film (il festival di Roma in sole tre ore ha esaurito tutti i biglietti in vendita per tale evento). Analogamente a HP, poi, il fenomeno Twilight si diffonde a macchia d'olio spinto da internet: solo in Italia ci sono una quarantina di siti di discussione sulla saga. Per dire dell'importanza che hanno questi fan, la Meyer è stata costretta a sospendere un progetto che meditava perché i fan erano riusciti a pubblicare le prime righe di tale nuova pubblicazione. Ultima analogia con HP: non saranno capolavori letterari da Nobel, ma di sicuro, anche questa serie della Meyer sa parlare al cuore e alla mente dei giovanissimi che la seguono. Segno che la qualità è ben presente, non che i lettori sono deficienti." (da Stefano Salis, Vampiri eleganti e di successo, "Il Sole 24 Ore Domenica", 26/10/08)

Il fantasma esce di scena di Philip Roth


"Il test è infallibile. A metà serata, quando si decide di ritirarsi a leggere, può capitare per un attimo di chiedersi quale sia il libro che si è iniziato. E come affiora il titolo, sappiamo subito se si tratta di affrontare una salita o una discesa. Questa settimana, mi è successo addirittura di pensare durante il giorno al momento in cui avrei potuto riaprire Il fantasma esce di scena di Philip Roth. Un capolavoro? Un'abile opera di intrattenimento? Un ennesimo livre à scandale? Non a chi spetti l'ardua sentenza. Di sicuro è una storia che 'prende', e visto che siamo a una svolta nella carriera di Roth, sarà il caso di chiedersi il perché. Protagonista il suo alter ego di sempre, Nathan Zuckerman. Un personaggio che è un ghost writer, cioè quella parte di sé a cui Roth ha sempre affidato il compito di parlare della propria vita e dei propri pensieri, concedendosi però il lusso di prendere le distanze da tutto e di prenderci anche un po' in giro. Il grande tema della sua narrativa, infatti, più che il teatro del mondo è l'esplorazione del proprio io. E tuttavia Roth non è uno scrittore di quelli che si chiamano confessional. Non cerca la complicità del lettore. Parla continuamente di sé ma scompare dietro la maschera di infiniti personaggi. E' uno, nessuno e centomila. Chi sia Roth in realtà - a parte il fatto che non sarebbe affar nostro - lo si può capire dalle sue ormai rare interviste. Ma noi, a nostra volta, siamo liberi di non credergli. Ci bastano i suoi libri. Nell'ultimo romanzo, 'exit ghost', è una didascalia teatrale. Si spengono le luci, e nell'aria - cioè nella memoria dello spettatore - rimane solo coem un'eco, la labile traccia di ciò che hanno detto gli attori: quello che Borges, parlando dell'opera di Shakespeare, ebbe a definire come 'un sogno sognato da nessuno'. [...]" (da Luigi Sampietro, Il ruggito del fantasma, "Il Sole 24 Ore Domenica", 26/10/'08)

Viaggio musicale di Andrea Zanzotto


"Musicalissima, la poesia di Andrea Zanzotto, autore tra i massimi del nostro Novecento, si fa percepire come una partitura di parole e frammenti segnici ben orchestrati e a volte dissonante, affidandosi a un amalgama di materiali linguistici diversi. Dal flusso vivo del dialetto veneto a toni petrarcheschi, da un nobile lirismo al gergo infantile del petèl, le sue cadenze sono una festa ritmica, un succedersi di onomatopee, un frugare di senso nei suoni che abbracciano i significati con l'esito di un intreccio musicalmente necessario. La musica appartiene nell'intimo a Zanzotto, al suo poetare implacabile e 'percussivo' (aggettivo per lui adottato da Montale), ma anche liquido e ascendente come un'aria operistica grazie a versi colmi di emozionante adesione al paesaggio di Pieve di Soligo, nel trevigiano, suo luogo d'elezione e osservazione della vita. D'altronde 'l'assunzione di un fondo di suono è importante anche nella parola pura', dice il poeta 87enne (ha appena compiuto gli anni, festeggiato da varie manifestazioni) parlando del suo Viaggio musicale (Marsilio) libro che mette in scena, con straordinaria efficacia, il suo rapporto profondo e pluriennale con la musica. Composto da conversazioni con il musicologo Paolo Cattelan, esce i questi giorni accompagnato da un dvd con stralci di registrazioni dei colloqui, avvenuti a Pieve qualche estate fa. [...]" (da Leonetta Bentivoglio, "La Repubblica", 31/10/'08)

giovedì 30 ottobre 2008

La folie Baudelaire di Roberto Calasso


"Quando passeggiamo nel bel libro di Roberto Calasso, La folie Baudelaire (Adelphi), abbiamo l'impressione di visitare il Salon parigino del 1845 o del 1846, oppure l'Esposizione di Londra del 1862. Con la nostra amabile guida, passiamo di sala in sala: tutto è gremitissimo: ora c'è un libro o un quadro sublime ora paccottiglia: scorgiamo Baudelaire. Ingre, Delacroix, Constatntin Guys, Manet, Berthe Morisot, Malalrmé, Rimbaud, Flaubert, Sainte-Beuve: artisti e critici minori, a me sconosciuti, che hanno scritto frasi memorabili; guardiamo la folla grigia o variopinta, che si accalca intorno a noi, o assiste a un'operetta. Sulllo sfondo appare, per un istante, Napoleone III, 'che non dice mai niente, e mente sempre'. Mentre passeggiamo Roberto Calasso paragona incessantemente un poeta e un pittore, una bellissima poesia e l'articolo di un giornale di moda, senza mancare mai il suo obiettivo. Ci sembra che egli conosca tutto quello che è avvenuto, tutto quello che è stato scritto e dipinto in Francia dal 1830 al 1900. La sua curiosità non è mai sazia: segno che un'ottima cultura è la prima e maggiore qualità di un critico letterario (verità condivisa da pochi). Il cuore del suo interesse resta, quasi fino alla fine del libro, Baudelaire, al quale dedica pagine molto belle: specialmente allo scrittore di meravigliosi articoli e saggi su Delacroix, Gautier, Constantin Guys, Poe e i minimi segni dell'epoca. Tutto il libro è, se non scritto, guardato da Baudelaire, perché Calasso cerca sempre di condividere l'occhio con cui Baudelaire osserva i personaggi e le figure mentali del proprio tempo e addirittura del futuro, perché Courbet e Manet sono anche pittori creati da qualche riga di Art romantique e Curiosités esthétiques. Quando l'ombra di Baudelaire si allontana, sostituita in parte da quella di Valéry, forse il libro diventa meno intenso. [...] Il risultato di questa ricerca è quello che Calasso chiama 'la storia segreta' della letteratura: storia molto difficile, perché gli scrittori sono abilissimi nel celarsi, e nascondono sia le affinità sia le differenze più profonde. [...]" (da Pietro Citati, Il mondo che vedeva Baudelaire, "La Repubblica", 29/10/'08)

Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale


"Una notte d'estate del 1860. L'elegante casa di un villaggio di campagna inglese. Un bambino di tre anni prelevato con delicatezza dal suo lettino. I genitori dormono nella stanza accanto. I fratelli e la servitù al piano di sopra. La bambinaia nella sua stessa camera con la sorellina. Il cane abbaia, ma tutti continuano a dormire. La mattina dopo il bambino viene ritrovato morto in giardino, con la gola lacerata. Dodici persone vivono nella casa, una è la vittima, chi fra gli altri è il colpevole? Potrebbe essere un thriller di Agatha Christie, se non fosse troppo cupo, macabro, spaventoso. E' invece un fatto di sangue realmente accaduto nell'Inghilterra vittoriana, indagato dall'archetipo del detective, un ispettore di Scotland Yard che diventò il modello di tutti gli investigatori letterari, da Poe a Dickens, da Sherlock Holmes a Philip Marlowe. In Omicidio a Road Hill House, ora pubblicato in Italia da Einaudi, Kate Summerscale, storica inglese e autrice di altri libri di successo, ricostruisce nei minimi dettagli una storia che la critica in Gran Bretagna ha paragonato al capolavoro di Truman Capote, A sangue freddo, e John Le Carrè ha definito un 'classico moderno'. Ma che si potrebbe anche chiamare 'la madre di tutti i romanzi gialliì'. [...] Nell'ultima pagina del libro lei cita Raymond Chandler: "Un libro giallo è una tragedia a lieto fine". E' questo il suo messaggio? 'I gialli di solito iniziano con un misterioso delitto e finiscono con l'arresto dell'assassino. Tracciano un percorso dal caos all'ordine, dalle tenebre alla luce. In questo senso spero che anche la mia storia abbia un lieto fine: nel rivelare non solo la soluzione di un orrendo crimine, ma pure i segreti di una famiglia e di una società'." (da da Enrico Franceschini, Il papà di Sherlock Holmes, "La Repubblica", 30/10/'08)

mercoledì 29 ottobre 2008

La malattia del'infinito di Pietro Citati


"In una nota pubblicata al termine della Malattia dell’infinito, Pietro Citati esprime il dubbio di avere scritto troppo: 'Un giorno ho calcolato che tutti i miei saggi e articoli occupavano lo stesso spazio della Comédie humaine di Balzac; conclusione che mi ha coperto di rossore e di vergogna'. Ne accenno, non per aderire alla malinconica riprovazione dell’autore, ma per la testimonianza, offerta in modo inusuale, sulle sue sterminate letture, sottese alle pagine scritte che spaziano con lo stesso fervore dal classico al moderno. Nella Malattia dell’infinito l’autore ha ritagliato, tra i tanti, una serie di articoli e saggi sulla letteratura del Novecento. Basta scorrere l’indice per avvertire che egli ama misurarsi con i grandi. E non a caso apre il volume con Joseph Conrad e il suo Lord Jim, protagonista dell’omonimo romanzo. Il giovane marinaio, che ha affrontato la vita con la baldanza di un romantico sognatore, deve presto disilludersi: dopo avere abbandonato al suo destino una nave in avaria carica di pellegrini, non riesce più a liberarsi dal senso di colpa che lo rende disertore e straniero al mondo, vittima di potenze maligne, di una solitudine che non conosce luce di salvezza. E’ un sentimento - la consuetudine con le tenebre, il rovello di una inattingibile, sovrumana purezza - che percorre, senza esaurirla, tanta parte della letteratura novecentesca. Ma non conviene al lettore perdersi tra i nessi sottili che uniscono libri molto diversi; quanto abbandonarsi piuttosto al profilo di ogni singolo scrittore, offerto dalla personalità indivisa di Citati saggista, critico, narratore. Ciascuno scelga i suoi, si tratti, tra gli stranieri, di Joseph Roth o di Nabokov, di Karen Blixen o Flannery O’Connor, di Borges o di Salamov ... Fermiamoci agli italiani, rappresentati nel libro con dovizia. Ecco Lampedusa: al di là dei più appariscenti riferimenti storici, il Gattopardo è 'una delle più profonde e fastose, leggere e felici contemplazioni della morte che l’Occidente abbia mai concepito'. La solitudine di Anna Maria Ortese è quella 'senza gesto e senza parola dell’animale condannato, che si chiude nella sua tana e non vorrebbe più uscirne: la solitudine di Kafka'. Fenoglio e il Partigiano Johnny dopo la cacciata da Alba: 'La natura si trasforma: non sappiamo se stia agonizzando, giunta alla fine del tempo, o assalga ferocemente l’uomo, divenuto il suo principale nemico'. Nelle Città invisibili, che Citati considera il capolavoro di Calvino, 'la ragione diventa più umbratile e lussureggiante della fantasia e la fantasia ha il rigore e la nitidezza dell’intelligenza: mirabile esempio di come, nella grande arte, meditazione e immaginazione si fondano'. Quando parlo di Citati narratore, penso in particolare a certi tratti in cui sono rievocate le figure di amici carissimi. Ad esempio, quando si trova al capezzale di Gadda vicino a morire e gli legge il capitolo manzoniano sulla 'notte degli inganni': 'Disteso sul letto, con la testa rialzata sui cuscini, Gadda rideva sussultando nel suo grande corpo moribondo-il riso, che tante volte lo aveva salvato'. Graffito invece di perfidia, lo stupore di Fruttero e Lucentini, fresche reclute di via Biancamano, quando sentono il misterioso profumo che intride la casa editrice: 'Non era ... il profumo di una grande cortigiana francese degli anni Venti o Trenta. Era il profumo personale di Giulio Einaudi. Cinque minuti dopo, il profumo venne interrotto, quasi spezzato e violato fisicamente, da una voce gracchiante, ironica, arrogante, nutrita di noncurante disprezzo. Era la voce di Giulio Einaudi'. Ma è anche nell’esercizio più propriamente critico che la prosa di Citati si fa racconto, intrecciando la vita dell’autore e la vita dei suoi personaggi, esponendoli a una disamina appassionata. Citati ha bisogno di accendere la sua immaginazione nell’attrito con altre creazioni letterarie: è il suo modo di corrispondere all’unico, grande e fluente libro, che l’umanità ha affidato ad amanuensi e portavoce particolarmente dotati. La sua aderenza, la sua disposizione all’ascolto è così forte che egli finisce per immedesimarsi e scendere in gara con gli autori amati, quasi a ripeterne i gesti ed entrare nelle viscere della loro scrittura. Che resta tuttavia avvolta nel velo di uno stile immaginoso e sensuoso, alla fine impossessante, che è soltanto suo: a colpo d’occhio, color Citati." (da Lorenzo Mondo, Il lume di Citati sul tenebroso '900, "TuttoLibri", "La Stampa2, 25/10/'08)

lunedì 27 ottobre 2008

Il romanzo non è atomico


"Paolo Giordano ha il viso incorniciato da quella barba incolta che richiede molta cura e gira con le maniche rimboccate alla Baricco. Non che lo frequenti, ma è stato un allievo della sua Scuola Holden, e quando scrive si sente. Tocca a lui, 26 anni, fisico delle particelle, il più giovane vincitore del Premio Strega, ricucire la secolare ferita che in Italia si è aperta tra scienza e letteratura. Ci proverà in dialogo con Vittorio Bo al Festival della Scienza di Genova il 28 ottobre nelle sale del Palazzo Ducale. Matematico è il titolo del suo romanzo, La solitudine dei numeri primi (Mondadori), che corre verso il milione di copie. Un 'caso'. Ma letterarioo scientifico? O forse questo romanzo scavalca l’annoso dilemma? Sappiamo che siamo fatti di quark se non altro perché un programmadi Piero Angela ce lo ricorda da trent'anni, e che in principio fu il Big Bang. Viaggiamo su auto guidate dai satelliti Gps. Scaldiamo i surgelati con le microonde dei radar. Ascoltiamo i cd grazie a un raggio laser. Decidiamo il weekend guardando foto riprese da satelliti meteo in orbita a un decimo della distanza della Luna. Ci curano farmaci ottenuti con l’ingegneria genetica. Cancelliamo le rughe con cipria nanotecnologica. Lavoriamo al computer. Insomma, scienza e tecnologia sono carne sangue e ossa della vita quotidiana.
Eppure, ora che non ci sono più Primo Levi e Italo Calvino, gli scrittori italiani le ignorano. Nel romanzo italiano trovi amore, sesso, storia, lotte sociali,
politica, costume, tanto io, tanto narcisismo autobiografico. Non scienza e tecnologia. Primo Levi era un chimico e Calvino qualcosa aveva respirato in casa: 'I miei erano botanici. Forse sono diventato scrittore per fuggire alla scienza ... Poi ci sono tornato naturalmente, come in un percorso circolare. Mi sono avvicinato alla scienza attraverso l'astronomia'. Abbiamo avuto e abbiamo medici scrittori: in Tobino psichiatra troviamo il manicomio di Magliano, in Bonaviri le scienze naturali si rifugiano nel vocabolario, in Vitali ci si dimentica il camice e ritrovi la provincia alla Piero Chiara. Daniele Del Giudice, scrittore che spesso si muove in ambienti scientifici, è un isolato. Curioso ma cabarettistico è l'uso ironico delle conoscenze scientifiche che troviamo in Stefano Benni. Comunque di solito il percorso va dalla scienza alla letteratura, non viceversa. Soprattutto, non si vede una narrativa nella quale la scienza sia davvero metabolizzata. Rimane uno spunto esterno. Incluso l'Umberto Eco del pendolo di Foucault o della linea del cambiamento di data. Anche i numeri primi di Paolo Giordano sono solo una metafora, tant’è vero che il titolo l’ha scelto l’editor Antonio Franchini della Mondadori. Sono primi i numeri divisibili solo per 1 e per stessi. All'inizio della numerazione ce ne sono parecchi, poi si diradano e non c’è una regola per scoprire dove saltino fuori. Però in qualche caso ne troviamo due vicini, separati da un numero pari. Nel romanzo di Giordano questi numeri gemelli eternamente separati sono l’immagine dei protagonisti Alice e Mattia. Forse però non basta per dire che scienza e letteratura diventano una cosa sola. Questa è invece la sensazione che hai, per esempio, leggendo Richard Powers, romanziere americano titolare di innumerevoli bestseller, un aspirante fisico (University of Illinois) laureato in lettere. Senza illusioni scientiste né tentazioni irrazionali, Powers ti racconta il mondo nucleare ne Il dilemma del prigioniero (Bollati Boringhieri), intreccia informatica genetica e musica in The Gold Bug Variations, porta le neuroscienze nel Fabbricante di echi, appena uscito da Mondadori. Richard Feynman, Nobel per la fisica (1965), scrisse nel 1955 una poesia: 'In piedi davanti al mare / meravigliato della mia meraviglia: io / un universo di atomi / un atomo nell'universo'. Versi deboli, ma è interessante il commento: 'Nessuno si sente ispirato dalla nostra immagine attuale dell’universo? Questo valore della scienza non viene cantato dai cantanti, siete ridotti ad ascoltarlo non in musica o in versi, ma in una conferenza. Non siamo ancora in un’era scientifica'. Non credo che Feynam volesse la scienza nella letteratura come Stalin ci voleva i soviet. Osservava, invece, che nel nostro tempo le grandi intuizioni della fisica, della biologia, della matematica non sono ancora metabolizzate, non sono il sangue, la carne, le ossa di chi scrive, e per questo gli scrittori - specialmente quelli italiani - perdono una grande occasione, tanto che Primo Levi definiva la sua conoscenza della chimica un 'vantaggio illecito' di cui godeva rispetto agli altri narratori. E’ scienza metabolizzata - e quindi capace di ironia - quella di Borges che scrive l'Argomentum Ornitologicum, La biblioteca di Babele o Il giardino dei sentieri che si biforcano. Ma lo è anche quella di Dino Buzzati nel racconto I sette messaggeri, metafora medievale della cosmologia moderna vincolata al limite insuperabile della velocità della luce. Lì la scienza è un ingrediente come tutti gli altri, come dovrebbe essere. Come noi siamo il latte e le bistecche che ci diede la mamma. Se è così, il processo di integrazione della scienza nella cultura italiana sarà compiuto solo quando un giovane fisico trionfatore allo Strega non ci sembrerà più un (meraviglioso)
mostro con due teste." (da Piero Bianucci, Il romanzo non è atomico, "TuttoLibri", "La Stampa", 25/10/'08)

sabato 25 ottobre 2008

I custodi del libro di Geraldine Brooks


"Prendete un libro. Fatto? No, non l'avete preso. Non l'avete preso tutto: un libro è qualcosa che vi sfugge e vi supera di continuo, tanto è esteso nello spazio e nel tempo. Nello spazio perché i libri attraversano il mondo più velocemente di noi e dei nostri pensieri. Nel tempo perchè la giostra degli anni ha per loro una antica e nota clemenza. E' il caso dell'Haggadah di Sarajevo, un piccolo ma importantissimo volume della tradizione ebraica che narra l'esodo dall'Egitto e che nasconde nelel peighe della sua rilegatura seicento anni dis toria. Nasce in Spagna nel XIV secolo, ed è il frutto incandescente di una ribellione al dettato biblico che impone agli ebrei di non raffigurare la divinità attraverso le immagini. Nel caso dell'Haggadah le immagini servono a facilitare l'uso conviviale e familiare, il passaggio tra le generazioni. E a salvare il libro stesso, affidandogli un carico di sconvolgente bellezza in grado di commuovere i peggiori inquisitori. Che differenza c'è tra le persone di carne e quelle persone di carta che sono i libri? Prendete l'Haggadah: è un libro vivo e pulsante, un superstite delle peggiori tragedie. Fu salvato dall'odio nazista nel 1941 e poi, mezzo secolo dopo, dalle bombe dei serbi su Sarajevo. In quella città martoriata, gli angeli custodi del libro sono due bibliotecari musulmani, e questo la dice lunga sul valore interculturale e invincibilmente umano di tutti i libri, di tutti i colori e lingue del mondo. I libri sono posti dove le persone si incontrano e si confrontano, luoghi immateriali fatti di parole e scie di parole che attraversano il pianeta senza fermarsi. In ogni generazione può trovarsi qualcuno che ha il coraggio di opporsi alla propaganda e dire che ciò che ci unisce è più grande e importante di ciò che ci divide. Prendete un libro. Non ci riuscirete, non potete davvero prendere un libro: nessun abbraccio umano è tanto grande. Però potete provarci. Potete provarci sussurrando a voi stessi che è una cosa che vale la pena di fare, che è qualcosa che fa bene. Potete, anzi, dovete provare a prendere un libro. Perché in fondo, tentandoci, potreste ritrovarvi in mano il mondo." (da Geraldine Brooks, Prendete un libro, "DLaRepubblicadelleDonne", 25/10/'08)

I libri che non ho scritto di George Steiner


"'Un libro mai scritto è più di un vuoto ... E' una delle vite che non abbiamo potuto vivere. Uno dei viaggi che non abbiamo intrapreso. E' il libro che avrebbe potuto fare la differenza. Che avrebbe potuto permetterci di fallire meglio. O forse no'. George Steiner incanta il pubblico che ha affollato, ieri sera, i saloni della Triennale di Milano, per ascoltare la presentazione del suo ultimo saggio-confessione, I libri che non ho scritto (Garzanti). E si confronta sul tema con Claudio Magris e Umberto Eco: 'Il libro non scritto accompagna l'opera che si è compiuta come un'ombra fattiva, insieme ironica e dolente. La filosofia insegna che la negazione può essere determinante. E' più del rifiuto di una possibilità. La privazione ha conseguenze che non possiamo prevedere o valutare con precisione ...'. Quali libri non scritti si nascondono dietro a quelli scritti? Claudio Magris arriva a paragonare i libri non scritti alle donne che avremmo voluto, avremmo potuto corteggiare ma che, per una serie di motivi, non siamo stati capaci di raggiungere: 'Non si tratta, naturalmente, di fare l'elenco di tutte le donne che non abbiamo mai corteggiato. Ma di quelle che occupano un posto nella nostra memoria. Con cui ci spiace di non avere osato, perché forse avremmo potuto avere successo'. Dal cuore delle donne l'autore di Danubio spazia nei vasti territori della geografia: 'C'è differenza tra alcune delle cose che non abbiamo fatto e altre che non siamo riusciti a fare. Per esempio io non sono stato né al Polo Sud né al Polo Nord. Ma mentre non ha senso per me pensare che non sono stato al Polo Sud, perché sono migliaia i posti in cui non sono stato, al Polo Nord, invece, avrei dovuto andare, per il "Corriere della sera". Ma poi, per una serie di circostanze, quel viaggio a lungo preparato non ho potuto farlo. E questa esperienza mancata conta nella mia memoria. Come un rimpianto'. Umberto Eco assicura che il libro che lui non ha mai scritto e avrebbe voluto scrivere è proprio quello che ha appena mandato in libreria George Steiner. Poi confessa che a diciott'anni avrebbe voluto scriver eun altro libro: la vita romanzata del filosofo Abelardo. [...] Sono sette invece i libri che George Steiner avrebbe voluto scrivere ma ha finito per non scrivere mai. Li racconta, uno dopo l'altro, nei sette capitoli che compongono il suo volume. Dal rapporto tra l'intellettuale e l'ideologia, attraverso la figura dello storico della scienza cinese, Joseph Needham, al tema dell'invidia che tormenta gli scrittori. Dal piccante e divertente capitolo sull'esperienza del sesso praticato in lingue diverse, al drammatico tema dell'identità ebraica, della follia della Shoah e dei tragici terribili errori commessi dallo Stato di Israele. Dai sistemi educativi scolastici all'amore per gli animali, che talvolta supera quello per gli esseri umani, fino ai temi della fede e dell'esistenza di Dio. [...] Il dibattito alla fine si concentra sul capitolo del libro intitolato Sion, dedicato alla questione ebraica. Quello destinato a sollevare le maggiori polemiche. Per Magris più che il racconto di un saggio non scritto si tratta in realtà di un vero e proprio libro compiuto. Mentre Eco elogia l'incredibile capacità di sintesi di Steiner che in sole 37 pagine, particolarmente dense, riesce a concentrare un pensiero che per altri richiederebbe almeno 500 pagine. Così Steiner coglie l'occasione del dibattito per tornare a denunciare 'lo spettacolo intollerabile e avvilente' di uno Stato come quello di Israele che, dice, umilia e tortura. Convinto però, lui che è un grande appassionato di cultura ebraica, che alla fine 'l'ebraismo sia molto più grande del destino di Israele'. Se i libri scritti da un autore sono la parte emersa del suo iceberg creativo, cosa si nasconde sotto la superficie marina di un intellettuale come George Steiner? Una montagna di idee. [...]" (da Carlo Brambilla, Quei libri mai nati, "La Repubblica", 25/10/'08)

Piergiorgio Odifreddi: il segreto matematico del Superenalotto


"Un giorno ad Atene scoppiò la peste e gli ateniesi si rivolsero all'oracolo di Delo per sapere come fermarla. Apollo rispose attraverso l'oracolo, che avrebbero dovuto raddoppiare il volume dell'altare cubico del tempio. Gli ateniesi raddoppiarono il lato, ma la peste non cessò, perché il volume si era ottuplicato. La soluzione era più complicata e quando fu trovata, la peste finì. E Platone commentò che lo scopo di Apollo non era il raddoppio dell'altare bensì l'educazione matematica degli ateniesi. L'Enalotto non è una peste, ma sicuramente è un'epidemia e non è detto che Apollo o i suoi moderni sostituti non ce l'abbiano mandato volendo educare gli italiani alla matematica. Proviamo allora a calcolare qual è la probabilità di vincita al Super enalotto. Si devono indovinare 6 numeri su 6 ruote da ciascuna delle quali ne viene estratto uno da 1 a 90. La scelta per il primo numero ha 90 possibilità, la scelta per il secondo numero ne ha 89, perché i numeri devono essere tutti diversi. Le possibilità sono dunque 90 per 89, per 88, per 87 ... Poiché però l'ordine non conta e ci sono 720 modi di ordinare 6 numeri, si deve dividere il prodotto per 720 e si ottiene 622 milioni circa. La probabilità di fare 6 al Super enalotto è dunque circa 1 su 622 milioni. E' una probabilità estremamente bassa paragonabile a quella di centrare un numero telefonico che si vuole chiamare facendo 9 cifre a caso sulla tastiera del cellulare. Nessuna persona sana di mente, volendo chiamare qualcuno, farebbe un numero a caso sperando di trovarlo. Eppure è proprio quello che facciamo quando giochiamo al Super enalotto. Per avere un parametro di riferimento, provare a fare a caso il pin del bancomat di 5 cifre equivale a una probabilità di 1 su 100 mila. Ed è quindi circa 6 mila volte più facile che fare un 6 al Super enalotto. Si potreebbe provare a giocare tutte le possibili combinazioni di 6 numeri per essere sicuri di vincere. Questo richiede però di giocare 622 milioni di schedine e di spendere una cifra analoga in euro: poiché la vincita di giovedì era di 100 milioni, rimangono più di 500 milioni che vanno a finire in tasche altrui. Poiché però ogni settimana vengono giocate circa 100 milioni di schedine, in media qualcuno riuscirà a centrare il Super enalotto una volta ogni 6 settimane. Il caso di giovedì era leggermente diverso perché c'era stato un ritardo di qualche settimana, che però è perfettamente nella norma statistica. Giocare tutti insieme è naturalmente più conveniente che giocare da soli e ha lo stesso vantaggio dei computer paralleli rispetto ai computer comuni. Ma psicologicamente, perché giochiamo quando sappiamo di avere una così piccola probabilità di vincita? Lo psicologo Daniel Khaneman ha vinto il Nobel per l'economia (2002) proprio studiando i meccanismi mentali che ci fanno preferire certe situazioni ad altre, indipendentemente dalle loro probabilità razionali. Il che significa che oltre alla solita razionalità logico-matematica, tutti noi abbiamo una seconda razionalità intuitiva che prende spesso il sopravvento sull'altra. E' la stessa razionalità che ci fa consultare l'oracolo di Apollo e che alla maggior parte di noi fa perdere quattrini, ma a un fortunato signore di Catania ha fatto incassare 100 milioni di euro." (da Piergiorgio Odifreddi, Il segreto matematico del Superenalotto, "La Repubblica", 25/10/'08)

venerdì 24 ottobre 2008

E' la stampa bellezza! di Giorgio Bocca


"Si intitola E' la stampa bellezza! il nuovo libro di Giorgio Bocca dedicato al giornalismo (Feltrinelli). Un atto d'amore per il mestiere, ma anche bilancio amaro delle sue trasformazioni. Oltre mezzo secolo in redazione (o, meglio, fuori dalle redazioni) raccontato secondo uno stile inconfondibile, appassionato e insieme feroce verso vanità, nevrosi, megalomanie di una professione complicata. Dalle prime esperienze nel quotidiano "Giustizia e libertà" alla "Gazzetta del popolo", da "L'Europeo" a "Il Giorno" e infine "La Repubblica", quella di Bocca è una testimonianza sull'età dell'oro, 'l'elogio e la nostalgia del giornalismo di inchiesta, fatto da chi tenta di capire cosa sta accadendo nel mondo e lo scrive'. Le sue cronache sul Paese che cambia nutrono i libri di storia italiana, oggi prevalgono i giornalisti pubblicitari che si occupano dei desideri e dei sogni'. Ti arrabbi quando leggi i quotidiani? 'Moltissimo. Mi colpisce la mancanza di una coscienza etica. Io ho partecipato a un giornalismo che, venuto dopo la tragedia della dittatura e della guerra, aveva una forte funzione morale: la ricerca della verità prima che dello spettacolo, dell'essenziale prima che delle mode. La scrittura poi ...'. Come sono scritti i giornali italiani? 'Inzeppati di parole straniere e di gerghi specialistici, con abbreviazioni e allusioni ermetiche, più che a un linguaggio comune assomigliano a vaghe indicazioni stradali. Rimpiango la chiarezza di stampo einaudiano, un giornalismo senza aggettivi'. Quando hai realizzato di essere diventato Giorgio Bocca? 'Al "Giorno", quando cominciai a scrivere di politica. La politica l'avevo fatta da partigiano, ma non nei giornali. Iniziai con Italo Pietra ed ebbi la sensazione di immettermi nel flusso della storia. A Pietra e poi a Scalfari devo la mia fortuna giornalistica'. [...] Non hai mai voluto fare il direttore. Perché? 'Nella guerra partigiana avevo guidato una divisione di Giustizia e Libertà. Tutte le volte che ordinavo un'azione, c'era sempre qualcuno che mugugnava. Da allora non ho più voluto avere responsabilità di comando'. Tra i difetti della professione riconosci anche una dose di cinismo. 'Non ho il culto del cinismo perché può diventare insopportabile, però capisco che è la forza segreta del mestiere'. [...] " (da Simonetta Fiori, Da masochista amo questo bel mestiere, "La Repubblica", 24/10/'08)

mercoledì 22 ottobre 2008

Un favore personale di John Banville


"Il romanzo giallo è diventato una grande risorsa per la letteratura contemporanea: tutto sta poi nella maggiore o minore abilità della scrittura, nella convinzione del narratore, nella disponibilità del pubblico a farsi ammaliare da un genere. Nel caso di Banville le tre condizioni si verificano in positivo con una certa regolarità. Dal tempo del suo magnifico La spiegazione dei fatti le certezze di metodo e l'abilità del mestiere non sono mai mancate alle sue opere, che a questo punto si propongono con la reiterazione del personaggio chiave, che coordina la trama. Per il lettore di gialli è una sicurezza ritrovare il solito commissario o comunque un carattere già noto da cui orientarsi nella trama delle nuove avventure proposte dall'autore. E così Banville ci affida all'anatomopatologo Quirke, che aveva dominato la scena di Dove è sempre notte. Ci consegna anche allo stesso paesaggio urbano e morale, la Dublino cattolica che l'autore, diventato mi sembra a tutti gli effetti inglese, osserva con distacco, memore forse di una remota appartenenza e conscio della distanza che lo separa oggi da quel mondo. Un favore personale, il suo ultimo romanzo, si intreccia naturalmente attorno a una morte che non è quella che sembra, illumina e oscura persone che non sono quello che sembrano, inventa con piglio sicuro personalità inquiete nel cui tratteggio giocare di lima. Per lo più indugia attorno a malesseri che sono stereotipi di certa letteratura gialla, che siano il sesso, la droga, il denaro facile e la caduta inevitabile. E lascia che a condurre le danze sia l'eroe Quirke, mai veramente tale perché nel gioco entrano anche le sue ombre, la sua fragilità compromessa e l'andare a tentoni nel buio. A lui tocca l'epilogo del romanzo, come nel precedente Dove è sempre notte, in una sospensione su un futuro pieno di incertezze; ed è qui, nel non chiudere il cerchio, che si riconosce l'elemento che distingue questo universo giallo dalla tradizione alla Chandler, per esempio. Ma se il genere è noto e del resto molto ben utilizzato da Banville, vale la pena di fermarsi sulla maestria dello stile di incastro della storia, l'orchestrazione delle voci, dei punti di vista, l'attenzione al labirinto delle ipotesi che di capitolo in capitolo fa smarrire il lettore, accendendo volta a volta i riflettori su personaggi di chiara ambiguità, e qui l'ossimoro è figura retorica indispensabile a dire il metodo classico dell'autore di gialli! Anche il linguaggio del narratore ha la cadenza riconoscibile, un po' stanca e un po' sporca, identificativa del genere. Insomma Banville ne ha fatto un suo schema ben funzionante e ben oliato, che a mio parere non rappresenta il meglio dello scrittore, quanto piuttosto un esercizio su un genere e una conferma di abilità. Non ho raccontato la storia, naturalmente: quello è il terreno del lettore, che non vorrei invadere, né per togliere, né per aggiungere sorprese!" (da Marta Morazzoni, In Irlanda nulla è ciò che sembra, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/10/'08)

Miracolo a Sant'Anna


"Non è un film contro la Resistenza. Il film di Spike Lee Miracolo a Sant'Anna - tratto dal romanzo di Mc Bride (Bur Rizzoli) - è un racconto della Seconda guerra mondiale, una narrazione che spezza la monumentalità di un evento grandioso e terribile ridistribuendo i buoni e i cattivi all'interno di tutti gli schieramenti che si fronteggiavano in armi. Così al tedesco spietato si affianca il tedesco buono, al partigiano traditore il partigiano eroe che muore sparando e gridando 'Libertà', ai neri americani il capitano bianco razzista e incompetente, in un percorso pieno di citazioni colte (Axis Sally, la collaborazionista impiccata dagli americani insieme all'altra 'voce' di Hitler, Lord Waw Haw), di continui rinvii ad altre grandi narrazioni cinematografiche di quella guerra, compreso il nostro Paisà per quanto riguarda la battaglia nel fiume. Non c'è la guerra civile (i fascisti non figurano tra i combattenti), ma c'è la 'guerra ai civili'. Tra il 1943 e il 1945 la furia dei nazisti contro i civili italiani fece registrare oltre 400 episodi di uccisioni collettive (con un minimo di 8 morti): alla fine, la somma fu di circa 15.000 vittime. Mai, mai nella nostra storia una simile violenza si era abbattuta contro gli italiani all'interno dei nostri confini. S. Anna di Stazzema fu uno degli episodi più efferati. Nel film il massacro è raccontato benissimo, con una scena che ti prende alla gola, ti lascia commosso ed attonito. Eppure è proprio qui che ci si aspettava un'impennata alla Spike Lee. Perché quell'orrore? Che senso aveva dal punto di vista militare sparare su donne e bambini e infierire sui loro cadaveri? Anche se fosse stata una rappresaglia, perché in quelle proporzioni, perché con quella ferocia? Può darsi, come ha suggerito lo storico Michael Geyer, che i corpi martoriati delle vittime italiane siano diventati allora 'il laboratorio' in cui i soldati tedeschi in Italia elaborarono la drammaticità della loro esperienza soggettiva: un patto scellerato che nelle stragi coglieva l'occasione per la 'riaffermazione della compattezza e della solidità della comunità guerriera'; ma anche un abisso di spietatezza, alimentato dal rancore e dallo spirito di rivalsa verso un Paese ostile. Sapevano, come gli italiani, che la guerra era perduta, ma non potevano dirlo e tornarsene semplicemente a casa: ne derivava contro i nostri connazionali un odio feroce e implacabile. E' tutto molto convincente, ma non basta. La guerra è violenza: a S. Anna di Stazzema c'è uno straripante eccesso di violenza che lascia come inebetiti. Ecco, Spike Lee poteva spingersi con il suo talento e la sua poesia là dove gli storici si fermano. Poteva ripetere il miracolo cinematografico e storiografico dei fratelli Taviani con La notte di San Lorenzo. Non lo ha fatto, regalandoci un buon film di guerra e basta." (da Giovanni De Luna, Un miracolo solo di violenza, "TuttoLibri", "La Stampa", 11/10/'08)

2666 di Roberto Bolano


"Finalmente i lettori italiani stregati dal primo volume di 2666 possono tuffarsi nell'inesauribile materia narrativa dell’opera di Roberto Bolaño di cui Adelphi completa la pubblicazione
dando alle stampe il meraviglioso secondo volume, che comprende, delle cinque storie di cui si compone il tutto, le ultime due, intitolate La parte dei delitti e La parte di Arcimboldi. Tuttavia vorremmo che queste poche righe di commento a uno dei più importanti capolavori della letteratura contemporanea raggiungessero i lettori che non conoscono ancora Bolaño. Quelli che l'hanno conosciuto, e se ne sono innamorati, l'hanno fatto senza riserve. Si tratta di uno zoccolo duro, di un fan club. Non sono certo loro quelli a cui ha senso comunicare che l’opera è ora in libreria. Siccome un altro libro eccezionale di questo grande scrittore, I detective selvaggi (edito da Sellerio cinque anni fa), non ha certo sconvolto le classifiche, confessiamo il timore che anche il maestoso progetto di scrittura che è 2666 possa non giungere a tutto il pubblico che si merita. Ricordiamo per riannodare le fila che le prime tre parti mettono in scena quattro critici letterari alla ricerca del misterioso scrittore tedesco Benno von Arcimboldi (La parte dei critici), un personaggio alter ego del narratore, di nome Amalfitano (La parte di Amalfitano) e un giornalista sportivo statunitense di nome Fate, cioè destino (La parte di Fate). Tutti, per motivi diversi, convergenti sulla stessa città. Ma per ciò che riguarda il primo volume rimandiamo alla recensione di Paolo Collo (Tuttolibri 03/11/2007). Qui diciamo che la narrazione riparte puntando direttamente al centro magnetico dell'opera, cioè la tremenda città di Santa Teresa, nel deserto di Sonora, in Messico, al confine con gli Usa. Si snoda lungo la spina dorsale di un racconto cadenzato, biblico, in cui una per una vengono raccontate alcune delle donne assassinate nella città. D'altra parte, tutto il megaromanzo 2666 punta verso l'abisso cieco di Santa Teresa, come in un maelström a volte lentissimo a volte accelerato: ma nelle pagine della Parte dei delitti siamo posti a tu per tu con la voragine che inghiotte, senza peraltro sprofondarci mai, come è nelle corde più profonde della poetica dello scrittore cileno. La Parte di Arcimboldi chiude l'opera riandando all'origine del misterioso scrittore tedesco: fatato, toccante racconto di metamorfosi personale che prende il piccolo Hans Reiter dalla sua natia Prussia e ne sconvolge i tratti sottoponendolo a ogni tipo di pressione, tra cui la Seconda Guerra Mondiale, producendo in extremis il personaggio di Benno von Arcimboldi, nome d'arte composto anche da un richiamo al nostro pittore Arcimboldo, che faceva teste umane con frutti, fiori e verdure; cioè forme a partire da altre forme, come la narrativa di Bolaño fa. Benno von Arcimboldi resta però un cuore semplice, originatosi nel sogno di un mondo d'acqua e destinato al deserto di Sonora, di cui appena sappiamo qualcosa, cessiamo di sapere (come nel finale di Martin Eden). D'altronde un Arcimboldi compariva anche nei Detective selvaggi, come autore francese del libro La rosa illimitata, in una delle infinite tracce che solcano tutta l'opera di Bolaño (che è una rosa illimitata!). Una frase lasciata cadere quasi a caso nel testo rende il senso di questa grande narrazione: 'e, in effetti, era tutto vero, almeno in apparenza'. Le centinaia di personaggi creati da Bolaño sono tutti al tempo stesso reali e irreali, come nota James Wood (in How Fiction Works) a proposito dei personaggi dei romanzi postmoderni: ma Bolaño porta alle estreme conseguenze e a maturazione molte intuizioni narrative finora solo abbozzate ed è per questo che non lo si può classificare se non tra gli inclassificabili. Come Kundera ha ribadito (Il sipario), il romanzo ha da giocare ancora innumerevoli carte. Bolaño in 2666 dimostra questa tesi con una forza e una chiarezza esemplari. Non si riesce a credere che 2666 sia l'ultima parola detta da Bolaño. Resta la speranza che ci abbia fatto un tiro strano, dei suoi, e abbia lasciato da qualche parte un tesoro da disseppellire (come Benno von Arcimboldi fa per la sorellina). Ma se così non fosse, resterà la torsione impressionante che ha saputo dare, con una prosa dall'eleganza smisurata e con una maestria completa nell'uso delle voci, a una letteratura che appariva stanca e terminale. E resterà anche l'esempio di uno scrittore che il fato ha dotato di moltissimi talenti e che li ha giocati tutti senza risparmio facendoli fruttare al massimo. Non si possono ancora valutare gli effetti di questa opera di rilancio e di riapertura, e nemmeno di altre opere dello stesso tipo di altri autori, ma certo l'impressione è che una potente forza creativa sta di nuovo rianimando la narrativa, sta riaprendo ciò che appariva chiuso, calcificato e pronto per il museo. L'ultima frase di 2666 chiude ciò che non si può chiudere, e non la citiamo apposta per giocare anche noi una piccola carta, quella della curiosità." (da Dario Voltolini, Quel cuore semplice di Arcimboldi, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/10/'08)

lunedì 20 ottobre 2008

Il manoscritto dell'imperatore di Valeria Montaldi


"Non dobbiamo chiedere alla narrativa di intrattenimento più di quanto ci possa dare: storie ben costruite, personaggi credibili, qualche ora di piacevole lettura. Non dobbiamo però chiedere alla narrativa di intrattenimento meno di quanto ci possa dare: è per questo che spesso abbandoniamo a metà polpettoni storici indigeribili, poco documentati, implausibili, e con dialoghi fatti di un linguaggio artificioso e improbabile. O, sullo stesso piano, gialli improvvisati di scrittori improvvisati. Forse perché bene accetti dal pubblico, sono i due generi maggiormente tormentati dalla scarsezza di professionalità (ma, attenzione, oggi sono seguiti a ruota dal dilagare dei romanzi su Napoli e dintorni). E' perciò che, a ogni appuntamento, reiterato, dopo il suo esordio nel 2001 con Il mercante di lana (Piemme), con cadenza biennale o poco più, accogliamo volentieri le agguerrite macchine narrative che sono i romanzi storici di Valeria Montaldi. La Montaldi si è affezionata al suo protagonista-perno, il monaco inglese Matthew da Willingham che, in urto con la Chiesa per aver invano protetto una giovane ingiustamente accusata, si è trasferito dalla patria nell'Italia settentrionale. [...] Scritto e costruito senza la minima sbavatura, l'ultimo libro della Montaldi, Il manoscritto dell'imperatore (Rizzoli), parte da un furto subito da Federico II. C'è qualcuno che ha sottratto dal suo campo, durante l'assedio di Parma (1248), il prezioso manoscritto miniato sull'arte della falconeria redatto di suo pungo e non ancora compiuto. Cui fa segutio un'affannosa ricerca, affidata dallo stesso Federico al crudele Ezzelino da Romano, il signore della Marca Trevigiana. E da questi a un suo emissario, il rude Gualdo da Margnano, e a un esperto convocato appositamente da Aix, il giovane miniaturista Simone. Non succeda, infatti, che del documento circolino copie. La Montaldi mette in scena con bravura l'intera tipologia del romanzo gotico settecentesco e di quello ottocentesco storico-popolare. [...] Salterà fuori il manoscritto, alla fine, in modo imprevedibile: una scena che ci ricorda Il tesoro della Sierra Madre hustoniano. Certo, è un libro di pura trama, ma non perde un colpo. E questo ci importa. " (da Giovanni Pacchiano, Federico II, il derubato, "Il Sole 24 Ore Domenica", 12/10/'08)

I libri di Luca di Mikkel Birkegaard


"Il romanzo arriva dal nord e ne trattiene molte caratteristiche: intreccia con raziocinio due fra i generi più fortunati degli ultimi tempi editoriali, cioè il thriller-mistery e il fantasy, proiettandoli su quel non meno acclamato filone che si potrebbe definire meta-narrativo, fatto cioè di libri che parlano di libri. Topo Firmino docet. Non mancano altre stravaganze. In Danimarca, luogo che ne ha visto l'uscita e l'immediato, clamoroso successo editoriale, il titolo era in italiano. La cosa autorizza subito un'ipotesi: è verosimile che al lettore danese quel titolo suoni (forse più che a quello italiano) come 'esotico' e che, in qualche modo, induca allo spostamento verso quel mondo 'altro' che è il principio fondante del genere fantastico. Seguendo tale asuggestione, non stupirà constatare quindi, che il romanzo fa perno proprio sull'affascinante immaginario mondo dei libri, quegli oggetti semplici ma potenti, magici alla lettera, che sono in grado di trasportarci 'altrove'. Una libreria antiquaria nel cuore di Copenhagen, quella dell'italiano Luca Campelli, è infatti lo scenario dominante di questa narrazione che fa apparire verosimile - prima, elementare regola del fantasy - qualcosa che non corrisponde alla realtà, convenzionalmente definibile come esperienza quotidiana e razionale, ma piuttosto all'immaginazione o fantasia che dir si voglia. Che cosa vi succede, dunque? Sul piano dell'intreccio, ad apertura di storia, succede che il proprietario vi muoia al suo interno, in modo violento, eclatante e misterioso. [...] Resta il fatto che, intorno alla libreria, ruota una qualsiasi Società Bibliofila; non così qualsiasi, comunque, dal momento che i suoi componenti possiedono poteri ianuditi e pericolosi. Sono in grado cioè di influenzare gli 'umani' attraverso la lettura. Sono lettori potenti, e onnipotenti, capaci di entrare nella testa di altri lettori e di condizionarne il comportamento. [...] Va da sé che fra i tanti libri citati compaia spesso il Don Chisciotte, il potente antesignano del conflitto tra fantasia e realtà, l'inarrivabile esempio dei rischi che si corrono quando i piani si confondono. Rischi di pazzia. Come quelli che più volte ha corso Amleto. Impazzirà Jon o incontrerà il lieto fine? Ai lettori scoprirlo." (da Laura Lepri, Tutto il potere ai lettori!, "Il Sole 24 Ore Domenica", 19/10/'08)

L'appello dei Nobel: "Lottiamo per Saviano"


"Roberto Saviano è minacciato di morte dalla camorra, per aver denunciato le sue azioni criminali in un libro - Gomorra - tradotto e letto in tutto il mondo. E' minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possiblità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo Paese. Un giovane scrittore, colpevole di aver indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, "Repubblica", e di tacere. Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. E' un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini. Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008."
Dario Fo
Mikhail Gorbaciov
Gunter Grass
Rita Levi Montalcini
Orhan Pamuk
Desmond Tutu
(da L'appello dei Nobel: "Lottiamo per Saviano", "La Repubblica", 20/10/'08)

Patrizia Valduga: la poesia non "serve"


"La poesia è complicata, ma per me non educa al pensiero complesso. Ti fa sentire, muove quello che ha dentro ma non 'serve'. La poesia è fatta di pensiero, emozione, resi inseparabili dalla forma, ed è fatta in modo che l'emozione prenda il sopravvento sul pensiero e la complessità del pensiero - quando c'è - sia percepita da pochi. Credo che, senza una competenza specifica, senza una passione innata, non serva a niente, resti, alla lettera, lettera morta. Invece la grande prosa, che poi sopporta - a differenza della poesia - la traduzione in altre lingue, può essere un efficace strumento di educazione al pensiero complesso. Dalla grande prosa si può trarre un grande profitto intellettuale, perché sviluppa l'immaginazione - delle cose del mondo e delle cose umane -, l'immaginazione dell'altro da sé, che è quanto ci sia di più difficile da percepire. E con una lingua articolata - non con la penosa paratassi in voga presso i giovani d'oggi -, con una lingua sintatticamnete complessa, insegna persino le leggi del pensiero e del comprendonio. La lettura è la prima conoscenza della realtà, il primo contatto - protetto - col mondo, che segnerà per sempre il nostro rapporto con la realtà. Per alzare il livello intellettuale e morale di questo Paese metterei come regola nelle scuole la lettura di Bouvard e Pecuchet di Flaubert: un'enciclopedia delle attività umane e due sgangherati con un'idea sbagliata di loro stessi, dilettanti in tutto. Non è l'emblema dell'Italia di oggi? Google? Lo uso per trovare delle notizie, non per leggere con la testa. Faccio fatica persino con le email." (da Patrizia Valduga, La poesia non serve, "DLa Repubblica delle Donne", 18/10/'08)

sabato 18 ottobre 2008

Alfonso Berardinelli: "C'era una volta il critico"


"La critica letteraria non occupa quasi mai il centro della scena. E' un genere aurorale e crepsucolare. Annuncia una letteratura che dovrà essere, o viceversa contempla quanto è già avvenuto, mette ordine, connette. Due dei più suggestivi archetipi della critica moderna, Francesco De Sanctis e Charles Baudelaire, quasi coetanei eppure lontanissimi (inimmaginabile un loro incontro), sono stati ognuno a suo modo sia aurorali che crepuscolari. Un sanguigno moralista come De Sanctis inventava l'Italia unita e futura rileggendo il suo glorioso e corrotto passato letterario. Da Dante e Petrarca fino a Manzoni e Leopardi, l'ideale doveva alla fine incontrare il reale e una grande letteratura avrebbe ispirato la costruzione di una nuova società italiana. Un melanconico immoralista coem Baudelaire vedeva invece con un'allucinata intensità cose che nel mondo moderno nessuno aveva visto. Metteva l'arte e la letteratura contro la storia, la morale, la borghesia, la socialità, la natura. Il suo programma non era educare alla realtà e alla speranza, come De Sanctis, ma evadere, provocare, apparire incomprensibili. L'uno è un umanista borghese e democratico che parla a un nuovo popolo. L'altro è un dandy che disprezza il pubblico medio, ama la folla anonima, si mescola ai disperati e ai 'sinistrati della vita'; studia Parigi come un'allegoria pietrificata in cui la Storia diventa repertorio di orrori e di delizie. La critica letteraria ha continuato a navigare fra queste due sponde, fra pedagogia pubblica e provocazione antisociale. Spesso i due aspetti convivono e si conciliano. Nel Novecento T. S. Eliot è il più tradizionalista degli innovatori: mescola l'estremismo isterico di Baudelaire e il moralismo vittoriano di Matthew Arnold, porta la desolazione più disperata verso un'idea di società cristiana e di nuova classicità. Gyorgy Lukacs è un umanista rivoluzionario ostile a Nietzsche e alle avanguardie, scommette su un'alleanza fra Balzac e Marx, fra Tolstoj e Lenin. La sua critica letteraria trasferisce dall'arte alla politica l'idea di rivoluzione: il comunismo di partito è infatti antianarchico, preferisce il realismo al formalismo, l'epica corale alla lirica individualista. Solo a nominarli questi problemi fanno l'impressione di residuati bellici. L'idea di rivoluzione politica (nazionale o di classe) è diventata anche nel suo rapporto con le arti, improvvisamente impensabile dopo gli abusi verbalistici degli anni Sessanta. L'esercizio pubblico della ragione critica oggi divora se stesso nel vortice dei media di massa sempre più veloci e sempre meno 'riflessivi'. Siamo costretti per principio a credere nell'illuminismo dell'informazione e della comunicazione, dato che la critica dell'illuminismo porterebbe a una critica della democrazia. La democrazia falsa e il falso illuminismo possiamo criticarli. Ma non ci sono alternative. [...] Da Schiller a Benjamin, la critica classica si è fondata su varie mescolanze e contaminazioni di pedagogia umanistica, rivoluzione estetica, interpretazione morale e politica dei testi, senso del presente come storia e smascheramento delel ideologie dominanti. Oggi l'esercizio della critica è ridotto a una didattica dominata da procedure burocratiche e a un'informazione libraria che occupa sui giornali uno spazio marginale. I lettori di giornali, poi, evitano le recensioni saggistiche di quindicimila battute (rare), mentre le schede di trenta righe le scorriamo con un occhio solo per farle precipitare in qualche scomparto secondario del nostro inconscio. Se ogni tanto si finisce ancora per discutere di critica letteraria è perché avvertiamo che una tradizione è finita: in Italia con Debenedetti e Fortini, in Europa con Adorno e Barthes, in America con Lionel Trilling e Leslie Fielder. [...] Calvino aveva intuito bene. Mentre lo strutturalismo svalutava i 'lettori ingenui' e pretendeva di trasformarli tutti in specialisti, Calvino ricordava che se leggere non è un'esperienza individuale, non può nemmeno diventare scienza. Così la critica letteraria si è avvicinata di nuovo al 'common reader', ha ricominciato a raccontare che cosa è stata, per chi ha letto, l'esperienza di leggere quel preciso libro in circostanze precise. Da aristotelica e neoretorica, la critica è ridiventata dialogica e socratica. E' uscita dai laboratori d'avanguardia per occuparsi del senso comune e non disprezzare più l'autobiografia intellettuale. La critica non è altro che un'intensificazione dell'esperienza di lettura e una conversazione intensificata intorno al significato e al valore dei libri. Qualche ragione c'è se gli editori preferiscono la critica scritta da intellettuali e romanzieri alla critica scritta da professori. Il critico saggista ragiona e racconta, parla come individuo ad altri individui. Il critico studioso parla ai suoi colleghi studiosi, prsenti e futuri. Si può fare l'una cosa e l'altra. Purché si sappia che cosa si sceglie, a quale scopo e per quale pubblico." (da Alfonso Berardinelli, C'era una volta il critico, "Il Sole 24 Ore Domenica", 12/10/'08)

Così funziona la mente dei poeti


"Quando iniziai a studiare l'inglese a scuola, la professoressa ci disse che ogni parola dell'inglese ha la sua particolare pronuncia e che bisognava impararla parola per parola. C'era in questo una certa saggezza pratica, ma anche il riflesso di un antico modo di studiare la fonologia che Morris Halle e Noam Chomsky hanno sbaragliato nel 1968 con il loro monumentale The sound Pattern of English(ormai abbreviato da anni tra i linguisti con la sigla Spe). Non più regole e regolette, ma eleganti principi di livello molto astratto. Su questa base si è sviluppata la fonologia moderna. Si sono, infatti, scoperte delle scansioni mentali distinte, un po' come conta-secondi, attivi nella mente, che ritmano in tempo reale un tic tac per le sillabe, uno per i fonemi, uno per la metrica, uno per i morfemi (in italiano, parti delle parole come 'ndo', 'ito', 'ato', etc.). Come le pecorelle, questi suoni vanno a due a due o a tre a tre, a seconda della lingua. Poi questi gruppi sono a loro volta ulteriormente, mentalmente, raggruppati a due a due, o a tre a tre. Si noti, non a quattro a quattro o a cinque a cinque. In astratto la mente potrebbe fare anche questo, ma non lo può fare in concreto, non la mente umana così com'è costruita. [...] Con un ex allievo del MIT, Nigel Fabb, ora professore a Glasgow, Halle ha appena pubblicato alla Cambridge University Press un altro approfondito lavoro, Meter in poetry, sulla metrica nella poesia. Passando ad un attento setaccio poesie in ben 15 lingue, dall'italiano all'arabo, dall'inglese al greco, di poeti che spaziano da Dante a Montale, da Verlaine a Aristofane, senza omettere i salmi dell'Antico Testamento, Halle e Fabb hanno messo in evidenza le strutture comuni, ciò che le poesie ci rivelano sull'organizzazione della mente umana. 'In tutte le lingue e le culture - mi dice Halle - troviamo la poesia metricamente organizzata. E troviamo che ogni metrica è basata su gruppi di due o di tre sillabe, cioè in ciò che tradizionalmente si chiamano piedi, con variaizoni che vengono ampiamente sviluppate nel nostro libro. Semplificando un po', i piedi sono a loro volta raggruppati in coppie o triplette, chiamate metra e questi di nuovo in coppie o triplette chiamate cola'. In tanta uniformità, esistono anche vari gradi di libertà, e così le metriche variano nel tempo e nelle lingue. [...] Cosa ci insegna tutto questo sulla mente umana? 'La capacità di raggruppare in coppie e triplette e poi, di nuovo, ricorsivamente, raggruppare il risultato in altre coppie o triplette è una proprietà universale della nostra mente. E così la capacità di designare elementi prominenti, le teste, e poi mantenere questa prominenza di nuovo, ricorsivamente. Questa ricorsività è fondamentale anche in sintassi, come da anni sottolineato da Chomsky. Qualunque buona teoria della mente umana dovrà spiegare questi fatti'. Trattare la poesia in questo modo non è un po' riduttivo? Halle risponde piuttosto seccato: 'Quando Pitagora dimostrò il suo teorema non 'ridusse' l'ipotenusa ai cateti, ma capì una proprietà vera dei triangoli rettangoli che nessuno aveva prima notato. Quando noi ora mostriamo che ogni metrica poetica consiste in questi raggruppamenti ripetuti in coppie o in triplette non 'riduciamo' i versi a niente altro. Rendiamo esplicita una proprietà che era rimasta fino ad ora implicita'. Proprio da Halle ho imparato perché in inglese l'accento della parola comparable è sulla o, non sulla prima a, e di Arabic è sulla prima a, non sulla seconda, e perché noi italiani sbagliamo sempre, molto prevedibilmente, tanti accenti delle parole inglesi. Com epe rla peosia, il segreto sta nella sillabificazione e nel raggruppamento delle sillabe. Per questo la mia professoressa delle medie aveva torto come fonologa, ma ragione come praticona della lingua." (da Massimo Piattelli Palmarini, Così funziona la mente dei poeti, "Corriere della Sera", 18/10/'08)

venerdì 17 ottobre 2008

La tigre bianca di Aravind Adiga


"La Nuova India! Vertiginosa crescita economica, high tech, borsa alle stelle, una borghesia urbana all'assalto. Tutto vero. E il mondo, compresi noi, si aspetta che le cose lì vadano ancora meglio, a differenza della dormiente Europa. Non così Aravind Adiga, corrispondente asiatico per il Time Magazine: col suo tagliente romanzo d'esordio La tigre bianca (The White Tiger), vincitore di The Man Booker Prize, in libreria per Einaudi, nuota controcorrente, e risale con rabbia nel buio sottopancia della rivoluzione indiana. Niente celebrazioni, avverte fin dall'inizio, quando il protagonista Balram Halwai inizia a scrivere la prima delle sue sette lettere al premier cinese Wen Jiabao in procinto di arrivare in visita a Bangalore per capire quali sono i segreti dello straordinario sviluppo: la vera storia del boom economico di questo paese (è il senso del suo discorso che sunteggiamo), gliela racconto io, Balram, nato nelle Tenebre - l'India dei villaggi di fango, della miseria più orrenda, dei 'ragni umani') - e diventano un grande imprenditore, uno dei migliori, come si conviene all'India: 'con i piedi in due staffe', 'onesto e corrotto, cinico e devoto, scaltro e sincero', poco credente ma sempre pronto a 'baciare i culi' dei 36 milioni di divinità contemplate, più quello del dio dei musulmani e quelli dei 'tre dei cristiani'. Una visione sarcastica che ci accompagnerà durante tutta la lettura del romanzo, mettendo da parte, con una scrittura serrata, i ritmi antichi e i profumi esotici cari a tanta - ma non a tutta - letteratura angloindiana. [...]" (da Susanna Nirenstein, India dal fango al lusso, "La Repubblica", 17/10/'08)
"Out of the Darkness: Adiga's White Tiger rides to Booker victory against the odds" (da Guardian.books)

giovedì 16 ottobre 2008

Ted Hughes, se la poesia incontra la morte


"Nel cuore di Londra c'è la 'mia' biblioteca: in St. James Square, dietro Piccadilly. Si chiama The London Library, e nel passato l'hanno diretta Tennyson, T. S. Eliot. Da una porta alta e stretta al culmine di alcuni scalini si entra in un alveare di fervidi lettori accucciati in poltrone di pelle. E di alacri camminatori che vanno su e giù per scale antiche di ferro e cunicoli stretti alla ricerca di libri che possono toccare, estrarre dagli scaffali. E chi ama i libri sa che brivido di piacere comunica il gesto. Arrivo la mattina e rimango fino a sera. Verso l'una vado in un luogo modesto, proprio dietro l'angolo, dove però la zuppa è buona. Un giorno ero lì col mio libro a gustarmi la zuppa, quando entra una signora elegante, con uno stravagante cappello. Doveva essere intorno a Natale, perché aveva molti pacchi; era stata da Floris, in Jermyn Street, per i profumi; da Fortnum & Mason, su Regent's Street, per i tè; da Liberty per i tessuti. La guardai meravigliata, perché non era un tipo di persona che avessi mai visto da E. A. T. Però continuai a leggere. Senonché lei si siede accanto a me, guarda il libro che leggo e fa: 'Oh, it's Ted. I used to know him. And Sylvia, of course'. Stavo in effetti leggendo un libro su Ted Hughes e Sylvia Plath, la coppia più glamour del secolo, e lei li aveva conosciuti. 'Really?' feci io incredula. Al mio stupore la signora rispose raccontando episodi che combaciavano con quel che leggevo e avevo letto. Lei vi aggiunse la vibrazione persuasiva della realtà. D'un tratto, era tutto vero: proprio in quella città, in certe strade che conoscevo, e lei rendeva col suo racconto ancora più reali, erano accaduti certi fatti, che avevano avuto una straordinaria rilevanza nella poesia di due tra i più grandi poeti del secolo. Ma soprattutto in quel che raccontava colsi la verità di un timbro che spiegava alla perfezione la voce speciale in poesia di Ted Hughes. Più che Sylvia, l'estranea con me a colloquio aveva conosicuto bene Ted e le sue amanti. E mi parlò di un modo furtivo, quasi losco di Ted con le donne; del suo gusto per i luoghi sporchi; del suo odio per tutto ciò che è comodo, confortevole. Ted-l'oscuro 'never wanted it cosy'. L'episodio mi torna alla mente sfogliando il Meridiano Ted Hughes uscito per la duplice cura di Anna Ravano e Nicola Gardini. [...] Mi è tornato in mente l'episodio perché nell'introduzione si cita un'intervista dove Ted se la prende, per l'appunto, con chi 'wanted it cosy'. E ce l'ha con certi poeti che al contrario di lui reagivano alle ansie dell'epoca con lucida freddezza, o addirittura con esibito disimpegno. Con un tipo di poesia ironica e beffarda. Come facevano Auden, Larkin. Spiega, l'intervista, perché Sylvia Plath, poeta anche lei di eccelsa natura, giocando con il nome Hughes, che richiama nella prossimità con huge l'idea di immenso, possente, chiamò Ted 'il colosso'. C'è un ideale di forza in Ted, che spesso tramuta in rozzezza. Rozzezza del pensiero, con conseguente rigidità del verso, e un certo compiacimento ideologico della brutalità. Come se la semplicità fosse di per sé un valore. Come se certi concetti astratti quali patria, nazione, natura, potessimo prenderli 'semplicemente'. I poeti si potrebbero dividere in due grandi schiere: chi ha bisogno di ali per volare, chi ne fa a meno. In una famosa lettera Keats lo spiega: lui è un poeta che non ha le ali. Quando precipita, se torna su è grazie a una specie di forza negativa, una forza che non ha, che non coltiva. Altri cercano invece sostegno, appoggi, stampelle, che possono avere anche nome 'volontà di sapere'. Ted Hughes, in particolare, coltiva una forma specialissima di sapienza personale, in cui si mescolano conoscenze sacre e profane suggestioni buddiste e tibetane, pregiudizi pagani e apodittiche credenze junghiane. Non ha la 'capacità negativa', aspira alla forza, ammira il potere. Vagheggia un poeta sciamano, un poeta guaritore, che sani le ferite. Mentre per lo più i poeti sanno lasciare aperte le ferite e disvelano la fallacia di chi promette guarigioni. Vero è che nelle poesie compiute, felici - e sono molte - la zavorra decade. E la tensione eroica, salvifica del poeta sciamano si arrende a un dettato di straordinaria e straziante intensità musicale. Che fossimo in presenz adi un grande talento lo si capì già con Il falco nella pioggia e Lupercale. 'Il falco appollaiato' - una specie di tour de force alla Lawrence - entrò nelel antologie scolastiche d'acchito. Oltre che di Lawrence si snetì l'eco di Yeats, Hopkins, Thomas, Eliot, ma la lingua era già sua, con quel gusto che mai verrà meno per l'esperienza. [...] In ogni libro c'è qualcosa di eccezionale e qualcosa di morto, che si ripete. In Fiori e insetti del 1986 tra le poesie più felici v'è Giunchiglie, che tornerà in Lettere di compleanno: per me il più autentico, il più 'nobile' dei suoi tentativi di tenere in tensione i mondi - esteriore e interiore, oggettivo e soggettivo, della Natura e della Cultura - tra cui ha sempre voluto creare ponti. Ora il pontefice dell'immaginazione non cerca più palliativi. Mai come altrove il pensiero conficcato come una spada nel cuore lo muove a cercare immagini semplici, niente affatto allegoriche. E torna in mente una sua osservazione profonda, di anni prima: 'rispettare le parole più della verità che tentano di trovare è la morte della poesia'. Qui la poesia vive." (da Nadia Fusini, Ted Hughes, se la poesia incontra la morte, "La Repubblica", 16/10/'08)

mercoledì 15 ottobre 2008

Umberto Eco, leggo Manzoni e capisco l'Italia


"La sera andavamo in via Po, ma non ricordo che Umberto Eco parlasse di Manzoni. Piuttosto dei fumetti o dei giornali femminili, tutti argomenti allora esclusi dalle aule universitarie. Non mi sono però sorpreso quando ho letto nelle Sei passeggiate nei boschi narrativi questa impegnativa dichiarazione: 'Il capolavoro della letteratura italiana del XIX secolo è I promessi sposi. Tutti gli italiani, meno pochi, lo odiano, perché sono stati obbligati a leggerlo a scuola. Io debbo ringraziare mio padre, che mi ha incoraggiato a leggere questo romanzo prima che la scuola mi obbligasse, e per questo lo amo'. Non mi sono sorpreso perché nei suoi lavori si trovano infinite tracce della sua passione per Manzoni. Sono trascorsi solo cinquant’anni e Umberto rinnova il suo patto di fedeltà, quasi parola per parola, all’inizio della nostra conversazione. Gli faccio notare che la lettura precoce del romanzo preparava il futuro fondatore della semiotica in Italia: dalle concordanze dei Promessi sposi allestite da Giorgio De Rienzo, 'segno', parola chiave della sua disciplina, ricorre 78 volte. Un autore che afferma, nei suoi Scritti linguistici, che 'Venir su tra i segni, o perire è l’alternativa imposta all’uomo', merita una laurea honoris causa postuma in semiotica. Una lunga e ininterrotta fedeltà a Manzoni. Eco ricorda che nei due anni di gestazione de Il nome della rosa, il titolo provvisorio era Delitto all’abbazia e il sottotitolo Storia italiana del secolo XIV, palese ricalco di quello dei Promessi sposi, Storia milanese del secolo XVII. E poi: Il nome della rosa inizia, subito dopo il frontespizio, con quel titolo. Naturalmente, un manoscritto che allude al 'dilavato e graffiato autografo' da cui trae pretesto il romanzo di Manzoni. Siamo qui a un punto nodale, come sottolinea Eco. E’ un primo esempio di quel 'double coding' che i critici hanno rilevato nel suo lavoro di romanziere, insieme alla metanarratività, al dialogismo (i testi si parlano tra loro) e l’ironia intertestuale. Il concetto di 'double coding' è stato coniato nel 1977 (tre anni prima de Il nome della rosa) da Charles Jencks: 'L’edificio o l’opera d’arte postmoderna si rivolgono simultaneamente a un pubblico minoritario di élite usando codici alti, e ad un pubblico di massa usando codici popolari'. Ci sarebbe poi quell’altro romanzo di Eco, L’isola del giorno prima, dove l’assedio di Casale del 1630, evocato nei Promessi sposi, è raccontato dal punto di vista degli assediati, quasi un backstage di quello manzoniano. Ma l’omaggio maggiore di Umberto Eco al capolavoro manzoniano è ancora un altro. Eco ha progettato dal gennaio al maggio 1986 a Bologna un ciclo di conferenze di vari autori sul tema La semiotica dei Promessi sposi pubblicate poi nel volume Leggere i Promessi sposi. In effetti si tratta di un ribaltamento radicale. Nella sua conferenza introduttiva, Semiosi naturale e parola nei Promessi sposi, Eco ha rilevato un’opposizione radicale interna al romanzo: 'C’è una semiosi naturale, esercitata quasi istintivamente dagli umili dotati di esperienza, per cui i vari aspetti della realtà si presentano come sintomi, indici e c’è la semiosi artificiale del linguaggio verbale il quale o si rivela insufficiente a rendere conto della realtà o viene usato con malizia per mascherarla, quasi sempre a fini di potere'. E aggiunge: 'Di regola nel romanzo il linguaggio è portatore di vento se non di tempesta'. Nel suo saggio Eco riconosce a Manzoni il 'buon senso illuministico'; gli domando se l’etichetta potrebbe andare bene anche per lui. Ride: 'Più a me che a lui'. In un’epoca in cui l’arte e la malattia viaggiano appaiate, per me Umberto Eco è la salute, fisica e mentale, ma non oso dirglielo. Aleggia nella nostra conversazione il tema della perenne attualità dei Promessi sposi, in quanto regesto delle costanti del carattere degli italiani. Gli ricordo che nella già citata terza passeggiata nei boschi narrativi scrive: 'Don Abbondio che si rigira le dita nel colletto e si chiede "che fare?" rappresenta in sintesi la società italiana del XVII secolo sotto la dominazione straniera'. E poi aggiunge: 'L’indugio di Manzoni sull’incertezza di don Abbondio spiega molte cose, e non solo sull’Italia del XVII secolo ma anche su quella di oggi'. Già. Siamo tutti qui che ci giriamo le dita nel colletto e ci chiediamo 'che fare?'. E se provassimo a leggere la peste finanziaria facendoci aiutare dal racconto di quell’altra peste? Con l’ostinazione a non voler cogliere fino all’ultimo i segnali di pericoli, con la caccia agli untori (i mutui sub prime? Il perfido Profumo?). La lunga fedeltà a Manzoni non si è esercita solo sul prosatore ma ha investito anche il poeta. Nel capitolo 'Il segno della poesia e il segno della prosa', nel volume Sugli specchi e altri saggi, Eco, per spiegare la differenza fra poesia e prosa si applica a un illuminante studio delle varianti dell’inno sacro La Pentecoste, dimostrando che le scelte e gli scarti sono stati determinati non dai contenuti ma dall’esigenza di rispettare le regole formali: eppure si trattava di una poesia teologica! Infine, non poteva mancare quello che per uno come Eco è il supremo omaggio a un autore amato: la parodia. Andiamo a leggere, ne Il secondo diario minimo, l’inno sacro apocrifo La gnosi, frutto di trascorsi gnostici del Manzoni, ignorati finora:

Madre del fango, immagine
di deiezion superna,
di mota incorruttibile
conservatrice eterna,
tu che da tempi incogniti
ti generi e dispieghi,
tu che non levi prieghi
all’Uno che ristà ...

Domando a Eco se, nella scia di Manzoni, non è mai stato tentato dal demone della riscrittura dei suoi testi narrativi. Ride: 'No, Manzoni è uno scrittore stitico, io sono uno scrittore diarroico'. Mentre parla il mio sguardo vaga lungo lo scaffale della libreria domestica dove sono allineati i suoi volumi e mi verrebbe da dire: 'Be’, effettivamente ...'. Rievochiamo infine le disgrazie del Manzoni editore delle varie versioni del suo romanzo, piratato in Italia e fuori d’Italia oltre ogni immaginazione. Qui entra in gioco l’Umberto Eco bibliofilo: l’edizione ventisettana dei Promessi sposi si trova al mercato antiquario a 10 mila euro, della quarantana, illustrata dal Gonin e finanziata in toto dal Manzoni, sono rimaste invendute migliaia di copie e se ne trovavano ancora sulle bancarelle qualche decennio fa. Se fossimo alla ricerca di un martire per farlo santo patrono della Siae, non avremmo dubbi: è lui, il nostro Alessandro." (da Bruno Gambarotta, Umberto Eco, leggo Manzoni e capisco l'Italia, "La Stampa", 15/10/'08)