martedì 30 settembre 2008

La terra più del paradiso di Roberta Dapunt

'Vedi, il tempo che si concentra
qui dentro questa stanza,
amico mio che t’invento,
comprime i giorni fino a soffocarli.
Questa è la mia vita
e da essa io ti sto scrivendo.
Io non ho altro,
da me non parte nient’altro.
Leggimi quindi. Rimani e siedi.
In fondo non chiedo nient’altro
che essere guardata in faccia
e negli occhi spalancati'

"Eccolo qua il piccolo libro appena uscito nella 'bianca' di Einaudi, La terra più del paradiso. Un libro di corpo piccolo ma di grande intensità. Lo ha scritto la trentottenne Roberta Dapunt, che non è ignota agli annali
della poesia (ha già pubblicato due libri ed è ben attiva nel mondo culturale della Ladinia dolomitica) ma che - grazie alla maggiore visibilità garantita dal marchio einaudiano - arriva a far sentire la sua voce ben oltre i confini del maso di Ciaminades (Alta Val Badia) in cui vive. Notizie minime che servono a collocare la poetessa e che un po' anche aiutano a entrare nel suo mondo, ma che non sono poi così indispensabili alla lettura dei testi. Come diceva Goethe nell'epigrafe al Divan occidentale orientale, 'Chi vuole comprendere la poesia / deve andare nella terra della poesia; / chi vuole comprendere il poeta / deve andare nella terra del poeta'. A contare, qui, più dei luoghi è la lettura di una poesia folgorante, la rivelazione di una voce granulosa e fortemente spirituale. Contro tanta poesia che richiede lettori in qualche modo specializzati, la poesia della Dapunt sembra immediatamente toccare i vertici di una forza e di un'innocenza spontanee. E tuttavia non vorrei che si commettesse l'errore di pensare al frutto di un dire immediato. Tutt'altro. Qui si arriva alla 'semplicità' (c'è anche un testo rivolto alla madre, che s'intitola Poesia semplice) attraverso una dura macerazione, un vero e proprio percorso di spoliazione. Se mai sarebbe tutto da chiarire - specie rispetto alla presenza di una corporalità resistente e tesa - il
rapporto di vicinato artistico con Lois Anvidalfarei, lo scultore badiota che la Dapunt ha sposato nel '94 e da cui ha avuto le due figlie di poesia dolce. Da La terra più del paradiso vengono le orazioni disarmate di una credente in cerca di fede: 'Divina solitudine della mia parete, / cederei la penna per un giorno di fede'. Le confessioni di una lotta (la triste raccolta) che abbisogna di chiarimenti: 'Non contro te Dio cammino per notte insonne, / ma perché ho nell'anima un'estate malata / e un solo pensiero marcio / suda l'odore acre / di quando le prugne vanno a male'. Le presenze angeliche degli umili e degli ultimi, maanche quelle così concrete e simboliche di una gallina che 'ha da finire di morire'. Il senso e il segno della 'riservatezza rurale', l''umile gioia dei giorni', le stagioni (molto l'inverno e il suo silenzio) che attraversano il cuore, l'esemplare ruminìo delle mucche che si estende all'uomo. Un mondo di chiaroscuri e spesso di interni: la stalla (urna e scrigno la greppia 'colma del fieno raccolto'), la stanza (tabernacolo e arca), gli umili ingressi, la finestra nel buio ('alla finestra devo la pazienza e l'aspettare'). Ma anche il prato e l'orto, anche la comunità ('la mia gente'), la comunione dei vivi e dei morti, la compassione, i paragoni concreti, gli oggetti rustici, le immagini che sibilano come 'un fruscio di falce'. Versi musicalmente abrasi - prosastici - come questi: 'È raccogliere terra sputata dal fondo e seminarla, / di nuovo, in segno di generosità verso essa'. Versi in lotta: 'Per ora non chiedo altro, / che di rimanermi muto, Dio'. Versi - quando occorre - anche in ladino. Versi inquieti (esilio in Corpus Domini): 'Non conosco fuga né mai ripiegai le mie radici, / ma qui, dentro i paesi delle mie genti conosciute, / dentro questo tempo dei valori educati / e delle molte solitudini, vicine di casa, / io sono in esilio. / In mezzo agli alberi, dentro all'erba, sotto i fiori, / io sono la zolla staccata dei campi coltivati'. Una poesia per nulla cantabile ('Io non riesco, non mi è dato scrivere il bel canto'), ma di profonda radice interiore, di accoglienza creaturale, di folgorante, religiosa, drammatica bellezza. Una poesia da non mancare." (da Giovanni Tesio, Alla finestra una credente in cerca di fede, "TuttoLibri", "La Stampa", 27/09/'08)

Lettere a Felician di Ingeborg Bachmann


"Una manciata di lettere scritte nell'arco di un anno dal maggio del 1945 allo stesso mese del 1946. Mio caro, mio amato, mio signore, amico lontano: così si rivolge Ingeborg Bachmann, la più grande scrittrice austriaca del dopoguerra, a un destinatario adorabile e misterioso. Un paio di volte lo chiama Felician, nome a cui sono dedicate due poesie dell'opera postuma. Forse si tratta di un enfatico scrittore locale, J. Friedrich Perkonig, che fu insegnante dalla giovane Ingeborg a Klagenfurt. Chi sia non ha importanza perché queste Lettere a Felician, pubblicate per la prima volta nel 1991, quasi vent'anni dopo la morte dell'autrice, sono in realtà un soliloquio mascherato, l'espressione di una sensibilità che la storia recente ha scacciato dal paradiso. Quel luogo mitico si chiama Carinzia, terra da cui 'pendono tutte le radici', angolo d'infanzia che poesie e prose degli anni a venire rievocheranno in sofferte, nostalgiche variazioni. Un luogo inquinato dalla violenza dei padri, un paesaggio che il nazismo ha oscurato e violentato. Ma nelle lettere la natura si afferma ancora con l'enfasi romantica dell'adolescente, mentre il mondo interiore dell'io femminile si ammanta di sogno e perfino la problematica adesione all'imperativo dell'arte assume cadenze religiose. C'è un empito di nostalgia e di attesa che richiama la voce della sposa del Cantico dei Cantici. Queste missive tradiscono in realtà l'urgenza di una vocazione e l'angoscia per il dissidio che essa alimenta. Come nel Tonio Kröger di Thomas Mann, il mondo della scrittura non si concilia con il fluire dell'esistenza. 'Ci sono due esseri in me, - scrive la diciannovenne Ingeborg -, l'uno non capisce l'altro. Temo quello che ama tanto la vita. Perché diventa troppo potente'. Come una vittima lei si sottomette a quella padrona severa che è l'arte. Ecco il vero nucleo delle Lettere a Felician (NotteTempo): la consapevolezza di una vocazione che può annichilire, unita alla 'paura di poter perdere la via, anzi di non trovarne nessuna'. Il vero destinatario è dunque quella letteratura sul cui altare tutto dovrà essere sacrificato. Uno spazio per tradizione maschile, il regno dei padri in cui l'io femminile vivrà, nelle pagine dei futuri romanzi, da Malina con l'agghiacciante capitolo onirico centrale, al Caso Franza e ai racconti del Trentesimo anno o di Tre sentieri per il lago, la propria scissione come luogo di sfida e ricerca impossibile di un'identità." (da Luigi Forte, La scrittrice che temeva la vita, "TuttoLibri", "La Stampa", 27/09/'08)

Quelli che ami non muoiono di Mario Fortunato


"Viviamo in un'epoca di concitazione mediatica, in cui il personaggio autore tende a sopraffare le qualità dell'opera che ha prodotto. O peggio, poiché ormai quasi tutto è gossip, si finisce per cercare nell'opera qualcosa che parli (o sparli) dell'autore, come se il testo fosse (e in larga parte di fatto è) un lapsus freudiano. Altrimenti detto: conoscere l'autore serve a migliorare la conoscenza della sua opera? Il libro è sempre meglio di chi lo ha scritto, per cui sarebbe raccomandabile evitarne la conoscenza personale? Pur appartenendo ancora all'età di mezzo, Mario Fortunato ci consegna una galleria di illustri personaggi che ha avuto modo di frequentare nella sua triplice veste di scrittore, redattore de "L'Espresso" e (brillante) direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a Londra 2000-2004. Il titolo riprende un verso di Iosif Brodskij, per il quale 'le persone sono ciò che ricordiamo di loro. Quello che noi chiamiamo vita è, da ultimo, un collage di ricordi di qualcun altro'. Fortunato sa bene che la sua reinvenzione memoriale è 'parziale, sghemba e soggettiva', e ci invita a prendere i ritrattati come altrettanti personaggi di un suo 'romanzo' autobiografico. Sono i protagonisti di una civiltà
letteraria che lui sente perduta proprioquando gli sembrava d'essere riuscito a padroneggiarla, a farla sua. Di qui un tono di nostalgia appena accorata, di gentile sconforto. Si va da Borges già cieco, capace di intuire il carattere dell'interlocutore prendendogli le mani, a un Giulio Einaudi ottuagenario che sprizza come sempre vitalità, curiosità e affondo micidiali, dall'amatissima fotografa Nan Goldin a pittori come D'Orazio, ma anche a un attore come Matt Dillon, a registi come Henze e Ken Loach. L'attitudine di Fortunato è quello dell'apprendista incantato, tutto teso all'ascolto ma già capace di arrivare all'essenza dei personaggi che frequenta e di fissarli con pochi tratti. Ecco Brodskij a Roma con la sua 'aria dolce e goffa di eterno ragazzo', 'imbronciato e largamente incredulo'. Goffo ci appare anche un tenero Pier Vittorio Tondelli, tutt'altro che sperimentale e maledetto. Uno Ionesco già infermo continua a 'sorridere come un Buddha silenzioso ma vigile'. Di Moravia si loda la disponibilità al dialogo, ciò che lo rende 'un interlocutore ideale, autorevole e fraterno insieme', e in sostanza un maestro vero (duri ma acuti i suoi giudizi critici sui contemporanei). Particolarmente empatico il ritratto di Natalia Ginzburg 'indifesa e selvatica, forte come pochi', che parlava e scriveva alla stessa maniera, 'chiara e assertiva,pur nella timidezza'. Giorgio Manganelli è ritratto nel suo appartamento sito all'indirizzo 'improbabile', come lui stesso avrebbe detto, di Via Chinotto otto: pingue, stanziale, ma capace di scatti imprevedibili. E poi un già distaccato Paul Bowles colto nel suo dimesso appartamentino di Tangeri, quanto lontano dalla sua leggenda estetizzante; la vocina femminea e incantatrice di Fellini, l'affabilità di Yehoshua, la luminosa solidità di Amos Oz, il sereno ambiente famigliare di David Grossman, Ferlinghetti con la sua aria di nobile e giocondo marinaio, Doris Lessing turista in Sicilia con la semplicità di una ragazza un po' sciatta, Anita Desai con la sua morbida, misurata eleganza che sembra sottesa da una quiete religiosa, Colm Toíbín 'rilassato come Simenon, complesso comeil suo James' ... E tutt'intorno la Berlino del dopo-Muro, insieme attonita e febbrile, la New York degli artisti dove può capitare che il tuo vicino di casa sia Lou Reed, l'effervescente Londra d'inizio millennio. Tra i non molti antipatici, spiccano un Robbe-Grillet che pontifica insopportabilmente su tutto, una Agota Kristof murata in una specie di autismo-mutismo scontroso, che forse è soltanto paura del mondo, e un Paul Auster dalla cortesi aun po' gelida. Si potrebbe dire, come già dei disegni di Tullio Pericoli, che questi rapidi cartoni finiscono per diventare dei piccoli, utili saggi critici. E allora sì, valeva la pena incontrare da vicino tanti personaggi che forse appartengono a un mondo al tramonto, ma restano più vivi che mai." (da Ernesto Ferrero, Erano occhi le mani di Borges, "TuttoLibri", "La Stampa", 27/09/'08)

sabato 27 settembre 2008

Volta la carta la ze finia


"Il ritratto cinematografico di Luigi Meneghello che porta la firma di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini (Fandango), si conclude con lo scrittore di Malo e il suo intervistatore, il medesimo Paolini, impegnati a recitare la filastrocca Le campane de Masòn: 'Volta la carta ghe ze un pòsso. / Un pòsso pien de aqua / volta la carta ghe ze na gata. / Na gata che fa i gatèi / volta la carta ghe ze du putèi. / Du putèi che fa ostaria / volta la carta la ze finia'. Proprio così, Volta la carta la ze finia (a cura di Giuliana Adamo e Pietro de Marchi, Effigie edizioni), si intitola la bella biografia per immagini di Luigi Meneghello, che un folto gruppo di amici ha approntato a un anno dalla morte dello scrittore. Ma il progetto era nato in precedenza, con Gigi ancora in vita. E non faccio fatica a immaginare con quale puntuta precisione egli abbia scelto le diverse fotografie, che qui si accompagnano alle copertine delle ripetute edizioni dei suoi libri (ogni volta rivisti, ogni volta limati); alle tante pagine di appunti su cui con grafia bella e chiara - scriveva e riscriveva in continuazione la sua 'roba' letteraria; ad alcuni suoi testi poco conosciuti; e infinite e svariate testimonianze, scritte per l'occasione. Credetemi, è davvero commovente ripercorrere, tra parole e immagini, la vicenda esistenziale di questo autentico fuoriclasse in perenne ricerca della glassy essence, 'l'essenza invetriata' della realtà 'che la mente nel concepire o la penna nello scrivere (...) vanno cercando e ogni tanto trovano'. Neanche a dirlo, quell'essenza è estremamente difficile da catturare. Più facile è individuare i suoi principali nemici: l'inautenticità e l'artificio, il sussiego e la solennità; malattie endemiche della nostra cultura letteraria, dalla quale Meneghello si allontanerà nel corso di un ultradecennale 'dispatrio' in Inghilterra, marcato al suo avvio nel 1947 da 'una polemica piuttosto accesa contro la falsa profondità e l'oscurità artificiata, finta, di una parte purtroppo dominante dei nostri scrittori e critici, sia accademici che, come dicevano, militanti (cosa vuoi militare, avrebbe detto il piantone Giazza del 5° Alpini a Merano)'. Memore del dettato di Keats - 'fine writing is fine doing' - Gigi si sentiva profondamente offeso dalla 'falsa oscurità, la finzione del difficile, del raffinato, dell'insolito, del profondo'. Praticare quel tipo di prosa non è 'un modo disonesto di scrivere, ma un modo disonesto di vivere'. [...]" (da Franco Marcoaldi, Luigi Meneghello, una vita contro la retorica, "La Repubblica", 27/09/'08)
Il libro di fotografie di Luigi Meneghello Volta la carta la ze finia viene presentato domani (28/09/2008) a Parole nel tempo, la rassegna di piccoli editori che inizia oggi al Castello di Belgioioso. All'incontro, previsto per le ore 17, intervengono, oltre ai curatori del volume Giuliana Adamo e Pietro de Marchi, Renzo Cremante e Vittorio Poma.

Parole nel tempo - Piccoli editori in mostra


"Piccoli editori crescono. E tagliano il traguardo della maggiore età. Quelli - quest'anno 163 - che ad ogni fine settembre si danno appuntamento al Castello di Belgioioso (dintorni di Pavia) per Parole nel tempo, la storica fiera della piccola editori che quest'anno taglia il traguardo delle diciotto edizioni. Una due giorni (oggi e domani) di incontri e presentazioni che racconta il ricco sottobosco dell'editoria 'minore', di qualità, una realtà sfaccettata che tiene insieme marchi di lunga e provata tradizione e coraggiosi esordienti. Da anni la mostra mercato richiama a Belgioioso un bel pubbblico di curiosi e appassionati (siamo sulle ottomila presenze a edizione) in cerca di primizie editoriali e di titoli introvabili o anche solo interessanti a conoscere da vicino editori e autori. Quest'anno tra gli eventi collaterali che arricchiscono la fiera ci sono tre mostre d'arte. Una, 'Dipingere l'immenso. La letteratura del Novecento nelle opere di 100 artisti', festeggia un altro compleanno, quello dell'Associazione Archivi del '900 che compie dieci anni e regala a Belgioioso un assaggio della mostra vera e propria che aprirà a Milano l'11 ottobre. Le altre sono 'Tabulae' di Beatrice Pasquali e 'Dovunque tu sia, caro coccodrillo', curioso titolo scelto per raccontare 'come nasce un libro illustrato' (Dovunque tu sia, caro coccodrillo di Giovanna Zoboli e Francesca Bazzurro, TopiPittori). Parole e immagini ma anche spettacolo, che quest'anno a Belgioioso significa soprattutto teatro d''improvvisazione con la kermesse 'Improchateau'. Sul versante più strettamente letterario, la fiera si tinge di mistero con il secondo festival 'Parole in giallo' ospitato nel Cortile della Meridiana che quest'anno lancia anche un premio letterario, il Belgioioso Giallo, che ha tra i giurati Andrea Pinketts e Mino Milani." (da Giulia Ziino, Belgioioso, la fiera dei piccoli diventa maggiorenne, "Corriere della Sera", 27/09/'08)

giovedì 25 settembre 2008

Anna Politkovskaja: "Voglio che conosciate la verità: per questo vi scrivo della Cecenia"

Un piccolo angolo d'inferno (Rizzoli, 2008)

"Chi sono io? E perché scrivo della Seconda guerra cecena? Sono una giornalista, un'inviata speciale del quotidiano moscovita Novaja Gazeta, e questa è l'unica ragione per cui ho visto la guerra in Cecenia: sono stata mandata sul campo. E non perché fossi una corrispondente di guerra o conoscessi bene questo conflitto, ma al contrario, perché ero solo un a'civile'. L'idea del direttore della Novaja Gazeta era semplice: il mero fatto che io fossi una civile mi avrebbe permesso di comprendere l'esperienza della guerra più a fondo di chi, vivendo nelle città e nei villaggi ceceni, la subiva giorno dopo giorno. Tutto qui. E così sono tornata in Cecenia ogni mese, a partire dal luglio 1999, quando l'offensiva di Basaev nel Daghestan ha spinto fiumi di profughi via dai loro villaggi montani, scatenando il conflitto. Ho viaggiato in lungo e in largo per tutto il Paese e visto tanta sofferenza; la cosa peggiore è che molte delle persone di cui ho scritto negli ultimi due anni e mezzo oggi sono morte. E' una guerra terribile; medievale, letteralmente, anche se la si combatte mentre il Ventesimo secolo scivola nel Ventunesimo, per giunta in Europa. In molti mi telefonano in redazione o mi inviano lettere, ripetendo sempre la stessa domanda: "Perché stai scrivendo di questo? Perché vuoi spaventarci? Perché dobbiamo sapere?". Sono certa che il mio compito sia necessario per una semplice ragione: in quanto contemporanei di questa guerra, ne saremo considerati responsabili. La classica scusa sovietica: 'Non eravamo lì e non abbiamo preso parte al conflitto personalmente', stavolta non funzionerà. Quindi voglio che conosciate la verità. A quel punto potrete sempre optare per il cinismo e per il razzismo in cui si sta impaludando la nostra società, oppure prendere posizione su chi abbia ragione e chi torto nel Caucaso, chiedendo se al momento ci siano veri eroi laggiù." (da Anna Politkovskaja, Voglio che conosciate la verità: per questo vi scrivo della Cecenia, "La Repubblica", 21/09/'08; traduzione di Isabella Aguilar, 2008 Rcs Libri Spa, Milano)

La classe di Francois Begaudeau


"Se il discorso sulla scuola ha assunto, in Italia, toni aspri e quasi vocianti, è perché parlando di scuola si parla dei giovani e dunque si evoca il futuro, che è il più disturbante dei concetti in tempi di declino sociale come questo. E poi perché la parola scuola chiama in causa un 'pacchetto di crisi' fin troppo denso: la crisi dell'autorità, quella della cultura come cardine della persona, quella degli adulti incerti depositari di ancora più incerte 'regole'. In Francia ha avuto grande successo il romanzo di un giovane insegnante, Francois Begaudeau, che ha ispirato il film vincitore della Palma d'oro 2008 a Cannes. Il titolo originale del libro è Entre les murs, dentro i muri, perfettamente indicativo dell'atmosfera claustrofobica che lo pervade. Il titolo italiano, meno severo, è La classe (Einaudi), e sembra quasi voler riportare questo desolato bestseller in una letteratura 'di genere' sulla scia fortunata del primo Starnone e dell'ultimo Pennac. Con eventuale ammicco a un sottogenere pop, quello del computo allegro degli svarioni studenteschi, tipo Io speriamo che me la cavo o il vecchio classico per ragazzi francese La fiera delle castronerie. Ma attenzione: i circa vent'anni che separano la generazione di Starnone e Pennac (diciamo, per comodità, quella 'sessantottina') da quella di Begaudeau sono un vero e proprio baratro. La scuola raccontata da Starnone e Pennac è ancora un lascito, seppure residuo, dell'umanesimo. L'ironia amara, lo sguardo smagato su ragazzi e adulti lascia ancora intatta l'illusione di un passaggio di consegne, di un apprendistato, più ancora che alla cultura, alla civiltà e forse alla vita. Leggendo Begaudeau, la sua stagnante, ossessionata trascrizione di un dialogo impossibile, ci si ritrova piuttosto immersi in una post-scuola, una scuola svuotata di sé nella quale ciascuno ha rinunciato a offrire o prendere alcunché, e insegnanti frustrati oppure inaciditi, e alunni maneschi e rincoglioniti dal consumismo, trascorrono un intero anno rimanendo fermi al punto di partenza, senza procedere di un passo verso quel percorso scolastico che, burocrazia a parte, è pur sempre la ragione di un anno di lavoro e di vita. Un anno: per un adolescente un'enormità, un tempo immenso di crescita e di occasioni, che nella scuola di Begaudeau diventa però un tempo puntiforme, una spirale viziosa che lascia ciascuna delle due parti, ragazzi e professori, nella propria inerte impotenza. [...] Insomma: un libro terribilmnete doloroso, di accurato pessimismo, con la patina di 'divertente', evocata in copertina nell'edizione italiana, che si lacera dopo poche pagine. Resta da riflettere sul grande successo, in Francia, di un romanzo così implacabile, che non lascia spiragli, non concede alibi né agli adulti né ai ragazzi, i primi visti come neghittosi sorveglianti del nulla, i secondi come insorvegliabili somari, razzisti, ottusi, consumisti bulimici, potenziali violenti che stazionano 'dentro i muri' come cavie in una gabbia, e senza neanche la discutibile soddisfazione di essere cavie di un esperimento. Perché un esperimento non c'è. [...] A me è piuttosto venuta voglia, come antidoto, di rileggere Starnone e Pennac, oppure gli interventi di Marco Lodoli su questo giornale, nei quali la percezione del disastro sociale e scolastico non è certo attenuata, ma lo sguardo di chi osserva è - non so come dirlo altrimenti - umanamente partecipe. Dev'essere una questione di generazione, Begaudeau e il suo rap disperato sono probabilmente più sintonici con i tempi, e magari i ragazzi di oggi possono davvero leggere 'divertendosi' un libro che li raffigura come ectoplasmi nevrastenici, come nullità ringhiose, e però lo fa con il ritmo giusto, riconoscibile, se posso dire: alla moda. Ma se non si riesce più a trovare, o almeno a cercare il bandolo di un significato, di un destino, di un rapporto di emulazione e sfida tra adulti e ragazzi, allora hanno ragione i vecchi reazionari quando dicono 'ci vorrebbe una bella guerra ogni tanto', a raddrizzare la gioventù, a selezionarla meglio di un sette in condotta o di una bocciatura. Ecco, La classe è un libro post-scolastico e pre-bellico: arrivato in fondo al viaggio, anzi al non viaggio, un lettore disposto al paradosso pensa che l'anno prossimo quelle truppe di giovani felpate e smidollate, per ritrovare nerbo e disciplina, e magari dotarsi di un concetto di Patria che rimedi alle vaghezze del multiculturalismo, non dovrebbero più rientrare a scuola, ma in caserma. [...]" (da Michele Serra, Una scuola a pezzi. Quei ragazzi che non hanno futuro, "La Repubblica", 25/09/'08)

mercoledì 24 settembre 2008

Harry Potter o l'anti Peter Pan. La magia della lettura di Isabelle Cani


"Harry Potter contro Peter Pan. Il principio di realtà contro il principio di piacere. La necessità di diventare adulti contro il sogno di rimanere per sempre bambini. Il successo planetario dei romanzi di J. K. Rowling può essere letto anche così, come il segnale di una società in lenta trasformazione che, almeno inconsciamnete, vorrebbere rimettere in discussione l'idealizzazione dell'infanzia. E' questa in sintesi, la tesi di un intelligente e stimolante saggio intitolato Harry Potter o l'anti Peter Pan (Bruno Mondadori), il cui sottotitolo originale recita 'Per farla finita con la magia dell'infanzia' (diventato inspiegabilmente nella traduzione italiana 'La magia della lettura'). L'autrice è Isabelle Cani, una brillante studiosa francese che da anni studia la letteratura per l'infanzia e la narrativa popolare, la cui lettura attenta e appassionata delle avventure del maghetto di Hogwarts offre molteplici spunti di riflessione. 'La società contemporanea è dominata dalla sindrome di Peter Pan, vale a dire dall'incapacità di crescere e diventare adulti', spiega. 'Dato che consideriamo l'infanzia il periodo più bello della vita, vorremmo restare bambini il più a lungo possibile e, una volta adulti, continuiamo a sognare un ritorno all'età dei giochi. Se Harry Potter ha avuto così tanto successo, non è, come credono alcuni, perché aderisce a questa prospettiva, ma al contrario perché si muove controcorrente, mostrando ai lettori l'importanza e la necessità di crescere. I grandi successi non nascono mai proponendo al pubblico ciò che già si aspetta'. Anche quello di Peter Pan all'inizio era un messaggio originale ... 'Creando Peter Pan nel 1904, James Barrie ha anticipato una tendenza che sarebbe diventata evidente solo più tardi. La paura di crescere e il desiderio di restare per sempre bambini si sono radicati in una società modellata proprio dal mito di Peter Pan, in seguito rafforzato dalla società dei consumi e dalla sacralizzazione dell'infanzia. Oggi, almeno inconsciamnete, iniziamo a desiderare un'inversione di rotta. J. K. Rowling ha dato voce a questo bisogno e l'ha interpretato a modo suo'. Il mondo di Harry Potter è però quello della magia, che rifiuta il principio di realtà con cui dovrebbe fare i conti l'età adulta. E' solo apparenza? 'La scrittrice inglese porta avanti un progetto pedagogico molto cosciente e strutturato, che mira a capovolgere il tradizionale universo della magia e il suo legame con i sogni infantili. Forse J. K. Rowling non ha pensato direttamente a Peter Pan, visto che non fa alcuna allusione al personaggio di Barrie, ma certo i suoi romanzi esprimono uan visione diametralmente opposta che però, specie nei primi volumi, continua a nascondersi dietro convenzioni dell'universo magico. Utilizzando come modello i romanzi di magia di Anthony Horowitz, la scrittrice ne riprende strutture e stilemi, cambiandone però il segno, in modo da veicolare il suo messaggio sulla necessità di affrontare la realtà'. [...]" (da Fabio Gambaro, Harry Potter contro Peter Pan, "La Repubblica", 23/09/'08)

lunedì 22 settembre 2008

Il segreto di Barbiana di Frediano Sessi


"Sono ormai molte le biografie, alcune costruite anche su una vasta e originale documentazione, dedicate a don Lorenzo Milani, morto nel 1967 a pochi mesi dalla pubblicazione della Lettera a una professoressa. Un testo che aveva scritto con i suoi alunni di Barbiana, la sperduta parrocchia nel Mugello dove era stato mandato, quasi in esilio, dall'arcivescovo fiorentino. A quarant'anni da quel libro - che influì non poco sui contenuti della ribellione studentesca dell'anno successivo e impose di guardare al mondo della scuola italiana da nuova angolazione - rimane ancora la necessità di rivisitare in modo non stereotipato la parabola di una vita e di un'esperienza che contribuirono non poco a cambiare il volto del Paese. Ci prova ora Frediano Sessi con Il segreto di Barbiana (Marsilio), un libro che a prima vista si offre come una biografia, dunque, come dice il sottotitolo 'la storia di don Lorenzo Milani, sacerdote e maestro'. L'approccio di Sessi a questa scompigliante parabola esistenziale, e all'originalissima filigrana spirituale e civile di un uomo che se si costituisse il Pantheon dei nostri padri 'novecenteschi' non potrebbe mancarvi, è apparentemente didascalico e
semplificatore. Sessi racconta infatti il Priore di Barbiana attraverso sedici lunghe lettere rivolte a Matilde e a Nicola, i suoi nipoti adolescenti. Nel testo vive dunque una duplice tessitura di tempi e di mondi. Vi è il teporoso rivolgersi di un nonno ai suoi nipoti, i riti odierni di una famiglia che fa vacanze confortevoli, festeggia ricorrenze, si scambia doni. Però poi accanto sfilano gli elementi che costituiscono lo sfondo, e gli ingredienti quotidiani, della vita di Lorenzo Milani Comparetti a partire da quando, diciannovenne, lascia l'agiata casa borghese e abbraccia la sua vocazione. Le camerate ghiacciate del seminario, i geloni e la disciplina ossessiva, tanto per cominciare. E poi la povera periferia operaia di San Donato in cui inizia il suo ministero sacerdotale, gli scontri feroci con le gerarchie della sua 'Ditta', come chiamava la Chiesa a cui rimarrà pervicacemente e dolorosamente fedele. Per finire all'ultima prova, quella che forse lo rivelerà pienamente anche a se stesso: vale a dire l'assoluta povertà montanara che dal 1954 al 1967 condivide con i suoi parrocchiani di Barbiana. Il libro di Sessi finisce così non solo col misurare l'immensa distanza che separa queste due Italie ma fa risaltare il gap temporale di decenni su cui si staglia la duratura grandezza di un don Milani capace, ancora oggi, di donarci i frutti di quei suoi 44 anni di vita intensamente ben spesi." (da Giorgio Boatti, Don Milani, lui sì un maestro unico, "TuttoLibri", "La Stampa", 20/09/'08)

Giovani senza 'canone'


"Al giro del nuovo millennio si discusse molto nelle università italiane della
necessità di un nuovo canone letterario. Si capì, finalmente, che lì dove andavamo il canone nazionale tradizionale non ci avrebbe seguiti. Si discusse molto di un canone aperto, globale, di una riforma dell'insegnamento universitario nell'ottica della comparatistica interlinguistica, interdisciplinare. Si discusse, poi non se ne fece niente. Il canone evaporò, il matrimonio tra l'istituzione letteraria e l'educazione delle nuove generazioni non si fece. E, se si fece, non venne consumato. Rimase il mercato. Ora si torna a parlare di un canone letterario e, non a caso, lo si fa pensando a un canone letterario della giovinezza. Libri che la raccontino, che la esprimano, che le si rivolgano. Scritti sui giovani, per i giovani o dai giovani? Non è chiaro ma non importa. Ciò che importa è che il dissolversi di un canone letterario nuoce innanzitutto al dialogo tra le generazioni, fino al punto di pregiudicare l'appartenenza a una cultura condivisa, la possibilità stessa che la letteratura svolga ancora un ruolo cardine nel processo di civilizzazione di una società e di orientamento esistenziale di un individuo. Fino a ieri, ai tempi dell'umanesimo, condividere una cultura significava aver letto gli stessi libri; educare i fanciulli significava prestar loro 'libri bussola' nella navigazione di una vita. Stelle polari e un firmamento contro cui stagliarle. Questo erano le letture canoniche che una generazione affidava alle successive. Se dovessi indicare le letture che hanno segnato la mia giovinezza ne verrebbe fuori, temo, un elenco spurio di opere di scrittori appartenuti alle più diverse generazioni del '900 e alle più diverse latitudini del mondo occidentale (segno di un canone in via di frantumazione). In ordine (necessariamente) sparso: Primavera nera di Henry Miller, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, Il pasto Nudo di Burroughs, il Viaggio di Céline, Il trattato del ribelle di Jünger, Una questione privata di Fenoglio. Dovendo, poi, indicare libri scritti da uomini del mio tempo, l'ordine non sarebbe meno sparso: La logica del senso di Deleuze, Meno di Zero di Ellis, il Seminario sulla gioventù di Busi, L'estensione del dominio della lotta di Houellebecq, Una cosa divertente che non farò mai più di Forster Wallace (la terra gli sia lieve). Non so se questi libri tanto lontani entrino tra loro in una costellazione ma per ognuno di essi ricordo con esattezza il momento e la persona che me li consegnò. E di qui passa la questione cruciale di un canone della giovinezza: la possibilità che un libro sia ancora, a un tempo, viatico e lascito. Mi spiego. Capita che, dopo aver discusso la tesi di laurea, prima di prendere il largo, gli studenti migliori tornino dal loro professore per un'ultima volta. Tornano per ringraziare ma soprattutto per porre l'unica domanda davvero urgente: vengono tutti, infallibilmente, a interrogarti sul senso della vita. Della loro vita. Tergiversano, ammiccano, ostentano finte timidezze, poi tutti quanti, in un modo o nell'altro, t'inchiodano: 'E adesso … che faccio adesso? Mi rendo conto che non sono affari suoi…ma che ne devo fare della mia vita?'. E' questo, oggi, il momento più crudele nella vita di un professore. Da due secoli oramai il romanticismo ci ha abituati a vedere nella giovinezza la categoria dello spirito inquieto, tormentato e fecondo. Ma oggi, in quella balbettante richiesta di una direzione, in quel totale disorientamento rispetto al proprio avvenire, buttato lì distrattamente nei cinque minuti di un ricevimento studenti rubati al disbrigo di pratiche burocratiche, la giovinezza dei nostri studenti appare ancora irrequieta e tormentatama, forse,non più feconda. La loro inquietudine non appare più dovuta a un'impalpabile svisatura esistenziale ma a una massiva, inaggirabile datità sociale. Quei ragazzi che blaterano per qualche secondo di un possibile soggiorno all'estero, per poi accennare subito dopo, e senza la minima convinzione, a un improbabile corso di specializzazione in Italia, oppure a 'un lavoretto part time', oppure a un impiego all'aeroporto di Orio al Serio, e via dicendo, quei ragazzi che, ostentando un cinismo di cui non sono affatto all'altezza, biascicano formule insensate come 'darsi al marketing', che si affidano a programmi minimi di vita riducibili a insulsi protocolli linguistici del tipo 'conoscere qualcuno', 'entrare nei giri giusti', 'avere una piccola dritta', quei ragazzi, purtroppo per loro e per noi, non si sentono più, romanticamente, precari nell'esistenza. Si sanno, ben più prosaicamente, precari nella società. E la prosaicità a vent'anni mi ostinerei a trovarla francamente delittuosa. A ogni professore questa nuova desolazione giovanile è già stata raccontata decine di volte, a brandelli e a singhiozzo, nel corso d'innumerevoli visite post-laurea. Ma ogni volta si sa che l'ascolteremo ancora e sempre di nuovo in modo frammentario, balbettante, inconcludente. Nessuno potrà racchiudere quell'orizzonte di esclusione, solitudine e dispersione entro una narrazione coerente. Questo precariato è sì un paese straziato, dove nessuna croce manca, ma ognuna sta accanto all'altra come il frantumo di una totalità perduta. La vita di ciascuno di noi è divenuta un fatto privato. Lo sappiamo noi e lo sanno anche loro. Sappiamo fin troppo bene, su entrambi in versanti della cattedra, che ci toccherà ancora, in molte altre circostanze simili, di sgranare quel rosario straziante di lamentele e guaiti. Domanda e risposta non potranno che tracciare la rotta di una vita destinata a rimanere senza biografia. E di una chiacchiera insulsa, una folie a deux battezzata dal vento della dissipazione. Ed è allora che capisci quanto sarebbe importante avere ancora un canone della giovinezza. Allora rimpiangi di non poter più chinarti dietro la scrivania, tirare fuori dal cassetto un libro gualcito e dire: 'Tè, leggi questo. E' tutto qui dentro'. E poi augurare al ragazzo che hai di fronte la fortuna dei naviganti." (da Antonio Scurati, Giovani senza canone, "TuttoLibri", "La Stampa", 20/09/'08)

Libri per tutti. I generi editoriali di larga circolazione tra antico regime ed età contemporanea

"Libri per tutti", tre giornate di studio a Milano, Palazzo Greppi, Sala Napoleonica, 24-26 settembre 2008.

"Che gli italiani non leggano è ormai un luogo comune. I cosiddetti lettori 'forti', quelli cioè che leggono più di 12 libri all'anno, sono solo il 3% della popolazione, mentre il 37% non legge affatto. La scarsa familiarità con la lettura non è una novità. L'Italia dopo essere stata fino alla metà del Cinquecento uno dei Paesi di più elevata alfabetizzazione, ha perso il primato, giungendo tra l'Ottocento e il Novecento a tassi di gran lunga più bassi degli altri Paesi occidentali. Anche ora che il divario è colmato, il consumo di libri è lontano dai livelli di altre parti d'Europa. Restano poi le solite vistose differenze tra Nord e Sud. Per quanto non vi sia una precisa relazione tra alfabetismo e abitudine alla lettura, le statistiche lanciano sistematicamente messaggi sconfortanti e c'è la tendenza a una sorta di analfabetismo di ritorno, persino nelle classi dirigenti. Ma le statistiche non dicono tutto. Non dicono ad esempio che sono esistiti generi editoriali di larghissima diffusione che hanno inciso profondamente sulla sulla formazione degli italiani. E' un insieme molto composito, costituito da titoli di devozione, di insegnamenti pratici, di testi letterari e scolastici. E' impropriamente definito 'popolare' per le sue caratteristiche materiali e tematiche, ma è diffuso e consumato a tutti i livelli sociali, anche se secondo pratiche differenti. Più che altrove in Italia l'uso del libro è legato alla preghiera, all'istruzione e molto meno allo svago. Così, mentre in Europa si consolidano pubblici abituati alla lettura come forma ordinaria di intrattenimento, in Italia stenta a formarsi un pubblico medio, stabile, abituato a leggere per consolidata abitudine più che per scopi di istruzione e di edificazione religiosa. Non è però facile riuscire a ricostruire il ventaglio completo delle letture di un'epoca. C'è sempre una pregiudiziale colta che seleziona le letture e penalizza sistematicamente quelle più diffuse e popolari. Finisce così col contare solo la produzione alta, quella che passa per le librerie - che sono luoghi poco frequentati dai lettori non abituali - e quanto è destinato a venire custodito nelle biblioteche. Ma librerie e biblioteche non hanno mai esaurito il panorama complessivo delle proposte di lettura. Sono più vitali altri circuiti - gli ambulanti, le fiere, le edicole, i supermercati - attraverso cui transitano miriadi di altri prodotti scritti destinati a non essere conservati. E' noto il paradosso secondo cui i veri libri rari non sono quelli che vengono salvaguardati come tali nei nostri istituti di conservazione, bensì i prodotti a destinazione popolare. Sono state censite 263 copie del Polifilo di Aldo Manuzio del 1499 solo in collezioni pubbliche, che è uno dei libri più ricercati dai collezionisti. Se si tiene conto che se ne saranno stampate 500 copie, si vede bene che a distanza di mezzo millennio se ne conserva una bella percentuale. Ma provate a cercare in una biblioteca uno di quei romanzi della Delly che tanto appassionavano le ragazze di qualche decennio fa. Se ne trovano solo sporadici esemplari in collezioni casuali di biblioteche di provincia. Di questi temi si parlerà al convegno milanese organizzato dalle università di Firenze, Pisa e Venezia e in collaborazione con la Fondazione Mondadori e l'Istituto Lombardo di Storia Contemporanea." (da Mario Infelise, Circolare, libri, circolare!, "Il Sole 24 Ore Domenica", 21/09/'08)

Valerio Massimo Manfredi: "Leggende in biblioteca"

ArteLibro Festival del libro d'arte 2008
"La grande Biblioteca di Alessandria fu una raccolta unica nel mondo antico: il sogno di conservare in un solo luogo tutto il sapere del mondo conosciuto, un luogo dell'anima divenuto leggendario. Come nacque e come finì la Grande Biblioteca? Fu davvero bruciata? Che cosa sopravvive della sua inestimabile collezione? Venerdì 26 settembre (ore 21, Palazzo Re Enzo, Sala Stabat Mater) l'archeologo e scrittore Valerio Massimo Manfredi risponderà a queste affascinanti domande. E sarà sempre Manfredi a narrare la strordinaria storia del Codice Vaticano Latino 3225, preziosissimo testo membranaceo in forma di libro che conserva in parte l'Eneide di Virgilio, illustrata in splendide scene. Qual era la destinazione di un simile testo? Come fu realizzato? Quale fu la sua avventura di sopravvivenza? Appuntamento domenica 28 settembre, ore 18, Sala Borsa, Auditorium Enzo Biagi".

"La grande biblioteca di Alessandria è forse il più straordinario mito culturale dell'antichità e rappresenta il sogno di riunire in un unico luogo tutto il sapere umano. Era strettamente connessa al Museo, primo centro di ricerca pura dell'Occidente e vi lavoravano ingegni di livello eccelso: il poeta Callimaco, l'astronomo Aristarco di Samo che concepì un modello eliocentrico del sistema solare, Apollonio Rodio che scrisse le Argonautiche, il matematico e geografo Eratostene che misurò la circonferenza della terra con uno scarto di pochi chilometri, Zenodoto di Efeso che curò la prima edizione critica dei poemi omerici e, forse Archimede di Siracusa, uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi. La biblioteca fu iniziata sotto il regno di Tolomeo I, fondatore della dinastia e amico personale di Alessandro Magno. Fu probabilmente lui a dare inizio ai lavori e a conferire a Demetrio Falereo l'incarico di organizzarla e ordinarla. Demetrio era amico del botanico Teofrasto, allievo di Aristotele, alla cui biblioteca sembra fosse ispirato il progetto Alessandrino. La grandiosa raccolta fu completata sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo quando raggiunse il numero di mezzo milione di rotoli ma è probabile che il numero delle opere contenute fosse di gran lunga maggiore, forse addirittura il doppio. Un contributo importante fu portato dal cosiddetto 'fondo delle navi' per cui ogni nave straniera che entrava in porto doveva consegnare i libri che aveva a bordo perché fossero copiati. Anche la Bibbia venen tradotta in greco per la biblioteca nella celebre 'versione dei Settanta'. La scomparsa di un simile inestimabile patrimonio è avvolta nel mistero. Mentre è assai poco probabile ch sia stata distrutta al tempo del bellum Alexandrinum di Giulio Cesare, è molto più verosimile che i danni più gravi siano stati inferti durante l'assedio di Aureliano a Zenobia nel 270 d. C. Nel V secolo probabilmente non ne rimaneva più nulla." (da Valerio Massimo Manfredi, Leggende in biblioteca, "Il Sole 24 Ore Domenica", 21/09/'08; dall'intervento di Manfredi ad ArteLibro 2008)

sabato 20 settembre 2008

Le 51 parole dell'amore. L'amore nell'Islam dal Medioevo al digitale


"Fatema Mernissi ama stupire e provocare. La scrittrice marocchina lo ha fatto negli anni, raccontando nei suoi libri la vita negli harem, l'amore del Profeta per le donne e le compagne forti e indipendenti che lo affiancarono, il lento affermarsi delle forme di democrazia nei paesi islamici. Torna a farlo in questi giorni con Le 51 parole dell'amore. L'amore nell'Islam dal Medioevo al digitale, un saggio uscito nel 1984 e tornato in libreria lo scorso anno in un'edizione aggiornata: il libro è da oggi anche in Italia (Giunti). In un'epoca di paure e contrapposizioni, la Mernissi teorizza che la principale merce d'esportazione dell'Islam deve essere l'amore: non il petrolio e tantomeno la violenza. Davanti agli occhi del lettore sfila una galleria di donne forti, come Sukayna, nipote del Profeta, e Aisha, la moglie. E arrivando a oggi, le giovani che cercano risposte su internet o affollano i canali delle tv satellitari arabe. La Mernissi racconta come seduzione, passione, fedeltà e matrimonio si evolvano nel corso dei secoli, ma restino il cuore della cultura araba. E come radici dell'amor cortese occidentale affondino nel trattato sull'amore del poeta medievale Ibn Hazm. [...] Ammetterà che negli ultimi anni abbiamo visto anche violenza e terrore nell'Islam ... 'Gli estremisti hanno perso e hanno perso grazie alla tecnologia, all'islam digitale dei 500 canali di cui parlavo prima. Oggi non si può andare in tv e dire che si vuole uccidere delle persone, perché il pubblico globale si rivolterebbe. Il modello di Bin Laden non è più tale per un mondo islamico dove l'urgenza è essere uniti per affrontare i tanti cambiamenti che stiamo vivendo. Voi questo non lo capite perché c'è un gap di comunicazione fra Islam e Occidente: solo colmandolo ricominceremo a parlare davvero'. Lei ha una visione molto ottimistica: l'amore, le donne ... 'Questo è un libro ottimista: chi ha perso sono gli assassini, non l'Islam. Lo dimostrano le donne di cui le ho parlato prima. Lo dimostra la riscoperta delle tradizioni del sufismo che è la religione dell'amore, non della violenza. Lo dimostra Ibn Hazm: questo poeta e teologo medievale parlava di amore come sentimento e rifiutava i suoi aspetti consumistici. Oggi è molto amato dai giovani musulmani, spero che anche voi lo scopriate'." (da Francesca Caferri, Le donne e l'Islam. Fatema Mernissi racconta la loro rivoluzione, "La Repubblica", 20/09/'08)

Benedetta Cibrario: "E' un rifugio contro la tristezza"


"'Ho sempre pensato che i libri fossero la mia salvezza'. Benedetta Cibrario, vincitrice del Premio Campiello con Rossovermiglio, racconta che da adolescente 'quando ero triste sentivo un bisogno quasi fisico di leggere'. Fa bene alla salute, per alcuni la letteratura può essere sostituita alle pillole. 'E' sempre stato così. Se hai pensieri pesanti, opprimenti, leggere ti fa spostare il fuoco fuori da te. Ti porta in un'avventura diversa, in un mondo altro, in un viaggio speciale'. La narrativa come evasione? 'E anche come concentrazione. Nei libri puoi trovare la fuga e l'intrattenimento, il piacere e il divertimento, ma anche gli strumenti per scoprire il mondo e te stesso. Le storie sono terapeutiche, lo sono i personaggi, le vite degli altri'. Ha parlato di 'bisogno fisico' e di 'salvezza': ci spiega? 'Leggere ti separa dalla confusione: io e il mio libro, il mio spazio privato, il mio segreto, il mio tempo. Una coscienza e una necessità fisica di ritrovarsi. Quando ero ragazzina cercavo quel momento in cui mi sarei rifugiata da qualche parte per riprendere una storia sospesa, sentivo l'attesa, l'emozione di quell'incontro in cui finalmente sarei rimasta da sola di fronte alle parole. Quelle appunto che ti salvano: perché la lettura aggiusta, restituisce un centro alle cose, dà fiducia e sollievo'. Un libro che le ha procurato tutto questo? 'Molti, naturalmente. Ma dovendo scegliere, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon. Non me lo aspettavo, non lo cercavo, è stata una sorpresa: fulminante. Un inno all'ottimismo nelle difficoltà del silenzio. Purezza dello sguardo, grazia e poesia rare. La luce delle esistenze dolenti." (da Alessandra Retico, E' un rifugio contro la tristezza, "La Repubblica", 20/09/'08)

Biblioterapia. Quando i libri aiutano a guarire


"'Molti uomini hanno datato l'inizio di una nuova era nella loro vita dalla lettura di un libro', sosteneva Thoreau. Per confermarlo, basta chiedere in giro o frugare nella propria memoria: tutti abbiamo uno o più libri che ci hanno aiutato ad affrontare una crisi, superare un problema, capire una situazione. 'Ho letto un libro che mi ha fatto comprendere meglio quello che sento' è una frase che sentiamo ripetere infinite volte nel corso dell'esistenza. Adesso un gruppetto di scrittori e intellettuali inglesi ha pensato di trasformare questo particolare potere dei libri in una specie di vero e proprio sistema di cura. La chiamano 'biblioterapia' ed è uno dei molteplici servizi offerti al lettore da una nuova libreria che ha aperto a Bloomsbury, il quartiere di Londra dove prosperò l'omonimo circolo letterario legato a Virginia Woolf e che rimane ancora oggi il cuore letterario della capitale, pieno di case editrici, riviste, librerie. L'ultima arrivata ha aperto in questi giorni: si chiama 'School of life', alludendo fin dal nome a ciò che i libri, perlomeno i buoni libri, possono insegnarci. Dietro il progetto ci sono autori come Alan de Botton (le cui opere in Italia sono pubblicate da Guanda), noti accademici come il professor Robert MacFarlane della Cambridge University e Sophie Howart, ex curatrice del Tate Modern Museum. [...] L'idea, spiega al quotidiano "The Independent", Sophie Howart, è quella di una 'farmacia culturale' dove i libri servano come terapia, oltre che come intrattenimento, stimolo, riflessione. Non tutti saranno d'accordo: 'I libri sono una cosa abbastanza buona, ma sono un ben pallido sostituto della vita', ammoniva Robert Louis Stevenson. Eppure che un libro possa aiutarci è indubbio: 'Dopo aver finito di leggere Guerra e pace per la dodicesima volta', annotava nel 1951 nel suo diario lo scrittore russo Mikhail Prishvin, 'ho finalmente compreso il significato della mia esistenza'." (da Enrico Franceschini, Biblioterapia. Quando i libri aiutano a guarire, "La Repubblica", 20/09/'08)

Pavia come Las Vegas

"Las Vegas un suo 'Pavia Drive' ce l'ha già, a due passi da 'The Strip', il famoso bouulevard dei casino. E la città lombarda ora che ha scoperto di essere la Las Vegas d'Italia, magari ricambierà la cortesia, dedicando a sua volta una via. I circa 500 mila bitanti della provincia pavese spendono infatti più degli altri italiani in lotterie e giochi gestiti dallo Stato: 1498 euro a testa ogni anno, più del doppio della media nazionale. 'E' un fenomeno nuovo e preoccupante' si allarma il sindaco di Pavia Piera Capitelli, 'sarà necessaria un'indagine sociale per capire come sia possibile, in tempi di ristrettezze economiche, scommettere tanto'. L'analisi del mercato della fortuna è di Agicos, agenzia di informazione specializzata nel ramo: 'Il dato di Pavia è stupefacente' spiega il direttore Fabio Felici, 'soprattutto per il distacco dalle altre città: i savonesi, secondi nella graduatoria spendono 300 euro in meno l'anno e i riminesi, terzi, 1058'. Una spiegazione in realtà c'è ed è legata al caso: la provincia tre anni fa è stata una rampa di lancio delle newslot, le macchinette che hanno preso il posto dei videopoker. Si è sperimentato qui se le slot di nuova generazione funzionassero. Hanno funzionato. Baristi e tabaccai hanno richiesto in massa queste ruote della fortuna elettroniche che nel 2007, monetina dopo monetina, hanno incassato da ogni pavese 1098 euro l'anno. Così, a Pavia e dintorni, c'è oggi la più alta concentrazione di newslot (una ogni 55 abitanti: in Italia il rapporto è di una a 190). L'affollamento non piace alla Regione: 'In inverno proporrò una stretta sulle newslot' promette l'assessore Pier Gianni Propserino: 'Dovranno essere messe in spazi separati dal resto del locale'." (da Alberto Fiorillo, Pavia come Las Vegas: una 'slot' ogni 55 abitanti, "Il Venerdì di Repubblica", 19/09/'08)

venerdì 19 settembre 2008

La scienza universale. Arte e natura nel genio di Leonardo di Fritjof Capra


"Leonardo da Vinci, il grande maestro della pittura e genio del Rinascimento, è stato l'argomento di centinaia di libri sia dotti che popolari. Tuttavia ci sono sorprendentemente pochi libri sulla scienza di Leonardo, anche se ha lasciato taccuini voluminosi pieni di descrizioni dettagliate dei suoi esperimenti, meravigliosi disegni, e lunghe analisi delle sue scoperte. Inoltre la maggior parte degli autori che hanno parlato del suo lavoro scientifico, lo hanno fatto guardandolo attraverso le lenti newtoniane. Questo ha spesso impedito loro di comprendere la natura essenziale della sua scienza che è una scienza delle forme organiche, una scienza delle qualità, completamente differente dalla scienza meccanicistica di Galileo, di Cartesio, di Newton. (...) Nella storia intellettuale occidentale, il Rinascimento segna il periodo di transizione dal Medioevo all'Età moderna. Negli anni 60 e 70 del Quattrocento, quando il giovane Leonardo ricevette la sua formazione come pittore, scultore e ingegnere a Firenze, la visione del mondo dei suoi contemporanei era ancora avvolta nel pensiero medievale. La scienza in senso moderno, come metodo sistematico empirico per ottenere conoscenza sul mondo naturale, non esisteva. La conoscenza dei fenomeni naturali fu trasmessa da Aristotele e da altri filosofi dell'antichità ed è stata poi fusa con la dottrina cristiana dai teologi scolastici che la presentavano come la dottrina ufficiale. Esperimenti scientifici vennero condannati come sovversivi, e si considerava qualsiasi attacco alla scienza aristotelica come un attacco alla chiesa stessa. Leonardo da Vinci ruppe con questa tradizione. (...) Cento anni prima di Galileo e Bacone, Leonardo sviluppò da solo un nuovo approccio empirico, coinvolgendo l'osservazione sistematica della natura, il ragionamento e la matematica - cioè le caratteristiche principali di quello che oggi si conosce come il metodo scientifico. [...]" (da Fritjof Capra, Leonardo. I segreti dei disegni svelati da un grande fisico, "La Repubblica", 19/09/'08; dalla lezione di Capra alla rassegna PordenoneLegge)

Nathan Englander


"Nathan Englander è nato e cresciuto in una famiglia di ebrei rigorosamente ortodossi di New York, e in quell'ambiente ha pensato, pregato, frequentato le scuole religiose, osservato meticolosamente le 613 mitzvot, i precetti che abbracciano ogni aspetto della vita di un buon ebreo. Fino a che, a 18 anni, diventato ormai un po' scettico a proposito di fede, ha spiccato il volo per Gerusalemme e qui si è scoperto un autentico non credente: 'Perché arrivando laggiù mi sono reso conto di quanti modi diversi esistessero di sentirsi ebreo'. Dopo pochi anni, ne aveva 27, in un su e giù tra l'America e Israele, arrivò il trionfo con Per alleviare insopportabili impulsi, raccolta di racconti d'esordio esilaranri, sorprendenti, dolenti, poetici, popolari di ebrei chassid e non, in varie parti del mondo e della storia, tra tradizione yddish, eredità singeriana, le lezioni del primo Philip Roth e forse un pizzico di Kafka. E poi ancora Israele, cinque anni, nel periodo più duro degli attentati kamikaze. Tornato a New York, un altro libro, un altro successo, Il ministero dei casi speciali, ambientato in Argentina dove personaggi adatti a Sholem Aleichem, come in una barzelletta cancellano dalle lapidi del cimitero ebraico i nomi poco rispettabili, ma in realtà sono immersi in una tragedia: ricercare quel che resta di un parente morto ammazzato dal regime, un'ispirazione nata in Englander davanti alle bombe dei terroristi in Israele, quando per i congiunti delle vittime diventava così importante trovare un lembo del corpo di un figlio, una madre, un marito. Chi più adatto di lui, cittadino globale dell'ebraismo, a parlare dei nodi della letteratura ebraica? E infatti Nathan Englander, oggi trentaseienne, è uno degli ospiti di spicco del primo Festival Internazionale a essa dedicato, che si terrà a Roma da sabato 24 settembre alla Casa dell'Architettura. Mentre riesce in paperback nella nuova collana Contemporanea degli Oscar Mondadori Il ministero dei casi speciali, l'abbiamo contattato via e-mail a New York e, tra un taxi per il Kennedy Airport e uno in corsa da Fiumicino a Roma, gli abbiamo posto alcune domande sulla natura, i temi, i personaggi, i luoghi di un grandioso fenomeno letterario, che comunque Nathan non considera un mondo a sé. Mr. Englander, esiste una letteratura ebraica? Agnon, Sholem Aleichem, Singer, Beoow, Roth ... hanno qualcosa in comune con Oz, Grossman, Yehoshua, e poi ancora con lei o Etgar Keret? 'Posso fare delle connessioni tra gli scrittori che elenca, ma non penso ricadano in un'unica categoria. In mezzo ci sono autori yiddish, israeliani, ebrei americani. Per me appartengono a classi diverse. Yehoshua è uno scrittore legato a Haifa, Grossman un vero gerusalemitano. Etgar (Keret) un artista telavivino post-moderno. Penso che Yehoshua e Keret riderebbero di vedersi ammucchiati nello stesso gruppo. Capisco che il lettore potrebbe guardare i nomi e dire "Sono tutti ebrei", ma potrebbe anche dire "Sono tutti uomini", che non è il mio modo di vedere la cosa, ma la maniera in cui li leggo'. [...]" (da Susanna Nirenstein, Il pianeta degli scrittori ebrei, "La Repubblica", 18/09/'08)

giovedì 18 settembre 2008

La casa degli incontri di Martin Amis


"Il protagonista dell'ultimo romanzo di Martin Amis, La casa degli incontri, è un russo di cui non sappiamo il nome, ferito e decorato al valore nella Seconda guerra mondiale, e poi figura importante nel territorio di quella che sarebbe stata la Germania dell'Est. Uomo violento, astuto, belluinamente coraggioso; alto, forte e di bell'aspetto; intelligente e anche colto, si tratta di un vincente, capace di uccidere (quando serve) e stuprare (quando è possibile). Eppure finisce in un campo di lavoro, non se ne sa la vera ragione, ma certo non per quello che ha fatto o per quello che è; e lì, nel 1948, vede arrivare il fratellastro Lev, un esserino debole e sciatto, balbuziente e con una faccia senza mento: un poeta e un non violento, condannato - il delatore aveva capito 'Roma-per-toma' - per aver magnificato 'le Americhe', cioè le curve di una donna di sfolgorante bellezza che si chiama Zoya e che diventerà sua moglie. Questa la prima parte dei fatti, e questi i personaggi. Ma non è tutta qui la storia che Martin Amis fa raccontare al suo protagonista, ormai vecchio - è nato nel 1919 e, quando scrive siamo nel 2004 -, in una lunga e-mail in inglese che sta per mandare dalla Siberia dove è tornato su di una nave di turisti con l'intenzione di morirvi, alla figlia Venus che vive negli Stati Uniti. Testamento? Memoir? Confessione? Si tratta in verità di un formidabile pezzo di letteratura: un libro sbozzato, che in altri tempi, riempito dei ritratti di tanti personaggi minori sarebbe stato un romanzo fluviale. E' il resoconto di un viaggio, stilisticamente scabro ed ellittico, fino agli estremi confini della coscienza umana: fin là dove la menzogna risulta improbabile, non tanto perché scritto in articulo mortis quanto perché indirizzato a una figlia. E tuttavia la verità che emerge, sia chiaro, non riguarda solo gli orrori e i delitti ma anche la sconsolata diagnosi sul carattere di un Paese il cui destino è sancito nelle parole conclusive del libro: 'La Russia sta morendo. E io sono contento'. Il titolo, La casa degli incontri, allude a una costruzione accanto al campo di lavoro di Norlag, in cui le mogli dei prigionieri, dopo un viaggio che durava settimane se non mesi, potevano incontrare per una notte quel che restava del loro uomo, ovviamente quasi sempre con risultati disastrosi dal punto di vista emotivo. Qui Lev, la sera del 31 luglio 1956, rivede Zoya di cui da sempre anche il fratello è innamorato. Quell'incontro è il clou del libro. Ma che cosa avvenga davvero nel corso di quella notte artica, il protagonista non saprà, e non ci farà sapere, se non nelle ultime pagine del romanzo, quando saranno tutti morti, e finalmente deciderà di aprire la devastante lettera-testamento del fratello. I tempi sono scanditi dagli avvenimenti politici della Russia, ma non è solo un libro politico, anche perché tutto quello che Amis aveva da dire sui crimini del più raggelante serial killer della storia lo avevagià detto qualche anno fa in Koba il terribile. La casa degli incontri è un ritratto dell'anima russa al cospetto di un paesaggio che probabilmente ne determina la natura: indolente e come sopraffatta dalla immensità di ciò ha sempre davanti, da un lato; e dall'altro, sfrenata e crudele fino alla barbarie che non riconosce i confini della polis. Delle regole della politica." (da Luigi Sampietro, Fratelli divisi dall'amore, "Il Sole 24 Ore Domenica", 07/09/'08)

mercoledì 17 settembre 2008

Il tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler


"Per quanta antipatia pregiudiziale si provi nei confronti delle tesi di Oswald Spengler, e soprattutto di tanti suoi cultori cripto o esplicitamente nazisti o fascisti (Mussolini fu uno di loro), confessiamo che la lettura del Tramonto dell'Occidente di cui l'editore Longanesi presenta oggi una nuova edizione (accompagnata da una densa introduzione di Stefano Zecchi e da un vasto apparato critico) esercita sempre un fascino a cui è difficile sottrarsi. L'opera, come si sa, uscì, in due volumi successivi, tra il 1918 e il 1922 (gli stessi anni in cui, per una coincidenza che può apparire emblematica, uscivano le due edizioni dello Spirito dell'utopia di Ernst Bloch, il filosofo del 'principio speranza'), e in molti sensi rappresenta, oltre che un repertorio di concetti ancora discussi oggi, una summa della coscienza europea dopo la prima guerra mondiale. La quale era stata davvero vissuta come la fine della nostra civiltà moderna - senza sospettare ancora le ulteriori tragedie a cui l'Europa sarebbe andata incontro. Spengler tuttavia rifiutò sempre di considerarsi un filosofo del pessimismo. La figura a cui ispirava il proprio pensiero fu sempre quella di Goethe, del quale ereditava una sorta di umanismo naturalistico certo non ottimistico, ma pieno di un senso, sia pure tragico, della vita che si rinnova anche e soprattutto attraverso il succedersi di mondi e generazioni. Goethe era stato un nemico implacabile del meccanicismo dominante le scienze naturali, quello che ritiene di spiegare il mondo attraverso la ricerca di cause ed effetti. A questa visione, egli sostituiva una concezione del divenire della natura come processo organico: per capirlo e 'spiegarlo' bisogna cogliere la forma interna che regola la costituzione di ogni organismo, e che è una sorta di 'causa finale', irriducibile alle cause meccaniche, ma ha piuttosto, per Spengler, il senso di un destino. Causa e effetto sono categorie che valgono solo per l'oggetto 'morto', ma la vita è crescita organica. Come gli organismi, anche le civiltà, i mondi storici, hanno un loro destino biologico, articolato fra nascita, infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia e morte. Attraverso sintesi molto
ampie e spesso audaci - Spengler era professore di liceo; un accademico, almeno a parte il vecchio Hegel, non si sarebbe mai avventurato su un terreno tanto pericoloso - egli calcola che le grandi civiltà esistite fino ad oggi (ne enumera otto) hanno avuto in genere una vita di mille anni: così la civiltà occidentale moderna nasce nell'800 con l'impero di Carlo Magno ed è giunta perciò alla sua fine. A ogni età corrisponde una attività specifica: alla maturità e vecchiaia tocca l'espansione spaziale (colonie; niente più invenzione e creatività tipica della gioventù) ed economica, dove comanda il denaro e trionfano le masse (inutile dire che Spengler odiava democrazia e socialismo ...). Come si vede, sono le idee della cosiddetta 'rivoluzione conservatrice' che sono sempre piaciute alla destra di ogni confessione. Ma in che misura e perché anche alla destra fascista e nazista? Non soltanto perché Spengler giustificava l'imperialismo; ma soprattutto perché nella sua visione naturalistica contava molto la demografia, quello che per il fascismo era lo slogan 'il numero è potenza'. I popoli giovani e creativi sono anche quelli che si riproducono più intensamente. Che 'fascino' può esercitare ancora su di noi questa filosofia della storia che è, in fondo, una riduzione della storia alla natura? Intanto, a ogni riedizione del libro (ce ne sono state parecchie in Italia, negli anni a partire dal 1957), siamo più lontani dall'epoca in cui fascismo e nazismo erano ancora pericoli attuali (anche il fascismo che si dice rinasca oggi è diverso a quello originario). Poi, sentiamo sempre più urgente il bisogno di una filosofia della storia soprattutto oggi che con la globalizzazione (qualunque cosa essa significhi) e con gli sviluppi delle biotecnologie abbiamo spesso l'impressione di non sapere più bene 'in che mondo viviamo'. Grandi filosofi come Karl Jaspers, il maestro di Hannah Arendt, hanno sentito dopo Spengler la medesima esigenza; e naturalmente hanno camminato su questa strada i tanti hegelo-marxisti che (purtroppo?) oggi sono quasi scomparsi dal panorama intellettuale. Dovrebbe dar da pensare il fatto che una concezione 'laica' della storia, che prescinda totalmente dall'idea di salvezza (sia biblica sia di altro tipo, fino al marxismo) sbocca quasi fatalmente nel naturalismo spengleriano. Non necessariamente nell'apologia del fascismo, ma certo lasciando aperto il problema dell'etica e del senso dell'esistere, che non può mai risolversi solo nel culto della 'vita'." (da Gianni Vattimo, La prima volta che morì l'Occidente, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/09/'08)

Shanghai addio di Angel Wagenstein


"C'è una vecchia storiella ebraica che inizia con una domanda (qui persino l'umorismo si fonda sull'interrogazione e non sulle certezze) più o meno così: 'Come mai ci sono tanti ebrei che suonano il violino?'. Tanto per cambiare, anche la risposta è una domanda, e niente affatto retorica: 'Hai mai visto qualcuno scappare con un pianoforte in spalla?'. A dire il vero, in queste ultime generazioni la storia, quella della musica e quella degli ebrei messe insieme, ha regalato anche dei pianisti talentuosi, come a dire che finalmente ci si può permettere di non pensare a levar le tende in fretta e furia. Ottimismo e/o prudenza a parte, con la musica il popolo ebraico ha una confidenza antichissima, almeno da re Davide e dalla sua arpa in poi. E la lettura sinagogale del testo sacro, così come la voce della preghiera, sono musica da sempre. Complice anche il divieto biblico di fare immagini, la musica è sempre stata l'arte prediletta dai figli d'Israele in diaspora, e non a caso la giornata europea della cultura ebraica da poco trascorsa aveva scelto proprio lei come filo conduttore, per quest'anno. Filo conduttore, la musica lo è anche di un romanzo appena pubblicato in italiano da Baldini Castoldi Dalai: s'intitola Shanghai addio e ne è autore Angel Wagenstein (traduzione dal bulgaro di Roberto Adinolfi). Classe 1922, Wagenstein ha trascorso l'infanzia a Parigi, è stato partigiano in Bulgaria, il suo Paese, e dopo la guerra ha fatto il regista e lo sceneggiatore. In effetti, il romanzo ha spesso i tratti del copione: scene che si susseguono rapide, ritmo incalzante. Vi si narra una vicenda calcata sulla realtà, una storia di lontananze estreme. Pochi sanno, infatti, che fra i luoghi ai quattro angoli del mondo dove gli ebrei si rifugiarono in fuga dagli orrori nazisti, ci fu anche la città cinese che questo romanzo porta nel titolo. Ventimila ebrei tedeschi e austriaci approdarono nel 'degradato quartiere di Honk Yu'. Non si trattò certo di un esilio dorato, tutt'altro. Ma almeno fu salvezza. Fra questi profughi c'era il grande violinista Theodor Weissberg, che nella Notte dei Cristalli suona con l'orchestra di Dresda la sinfonia degli Addii di Haydn. Da quel giorno, anzi quella notte, quando viene arrestato con gli altri colleghi ebrei e poi internato a Dachau, la musica per lui e il suo violino diventa anche qualcosa d'altro, di terribilmente nuovo. La cifra di un 'odio mortale': 'A loro Hans, canticchiava allegramente il motivetto servendosi, per scandire il tempo, di un bastone con cui ogni tanto, dimostrando un preciso senso del ritmo, percuoteva la schiena degli sventurati ritardatari'. Weissberg esce poi dal campo grazie all'arianissima moglie, e i due partono per la Cina. Come Hilde Braun, attrice e modella, anche se quasi nessuno sapeva di lei che era ebrea. Insieme a loro, altri personaggi, più o meno ambigui, affollano il romanzo." (da Elena Loewenthal, Un violino in fuga da Dachau, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/09/'08)
"Shangai ebrea. Intervista con Angel Wagenstein" (da RadioAlt)

martedì 16 settembre 2008

Fuori fuoco. L'arte della guerra e il suo racconto


"Come a Pechino nelle Olimpiadi del 2008 per le gare di atletica leggera, quelle televisivamente più appetibili: infilate in orari improbabili per consentirne la trasmissione in diretta nel prime time dei grandi network statunitensi. Così è per le guerre del post-Novecento. Somalia 1992. Operazione Restore Hope. Bel titolo, conciso ed efficace, per un film o per una trasmissione televisiva. Le truppe
americane sbarcano sulle spiagge di Mogadiscio in perfetto assetto di guerra. Ma ad attenderli non ci sono uomini armati, trincee e reticolati, ma solo fotografi e cineoperatori. Tre anni prima, guerra del Golfo, gennaio 1991: Desert storm, altro titolo suggestivo ma soprattutto l’inizio di una nuova fase dei rapporti tra la guerra e i mass media, con le telecamere fisse della Cnn a inquadrare i traccianti nei cieli di Baghdad. E' una vecchia storia: tutte le guerre contemporanee, dalla Crimea del 1853-56 all’Iraq del 2003 (altro bel titolo Iraqui freedom), sono state raccontate da scrittori, giornalisti, fotografi, pittori, registi; tutte sono entrate nella nostra cultura e nel nostro immaginario non per quello che è veramente successo sul campo di battaglia (solo morire e far morire, uccidere e farsi uccidere) ma per quello che è stato rappresentato, sovrapponendo la messa in scena alla realtà. E’ una vecchia storia: sempre in quelle rappresentazioni sono confluite menzogne propagandistiche, falsificazioni, interventi censori degli apparati militari, sempre la guerra è stata un black out conoscitivo, uno scandalo percettivo. Ma adesso è diverso. La televisione non si limita a raccontare le guerre di oggi ma interviene direttamente nella costruzione dell’evento bellico, restituendoci l’esperienza della 'guerra in diretta', sempre meno vincolata alle regole del giornalismo e sempre più assoggettata alle leggi dello spettacolo. La guerra viene oggi pensata, pianificata e combattuta sulla base di come verrà rappresentata già a partire dal suo titolo: questa tesi, efficacemente sostenuta da Maddalena Oliva (in Fuori fuoco. L’arte della guerra e il suo racconto, Odoya), si fonda proprio sullo studio di tutti i conflitti che si sono susseguiti dalla prima Guerra del Golfo del 1991 in poi. Il nuovo ruolo della televisione è scandito da queste fasi: a) la costruzione dell’attesa prima dell’evento che orienta il pubblico definendo i buoni e i cattivi; b) la durata non eccessiva delle operazioni e la loro conclusione rapida così come richiesto da uno spettatore che fa presto a stancarsi e che deve aver la possibilità in qualsiasi momento di interrompere e spegnere la visione senza problemi; c) la spettacolarità dei bombardamenti che trasforma la guerra in una sorta di videogame o action movie; d) la già citata coincidenza tra l’inizio delle operazioni e il prime time dei palinsesti; e) la consapevolezza che la guerra rende in termini di ascolti (nel 2003 la Cnn investì in Iraq 35 milioni di dollari). Le conseguenze sono ovvie: la virtualità non appartiene solo al momento del racconto, ma diventa elemento
costituivo dello 'spettacolo' bellico. A uscirne distrutta è la possibilità di conoscere la guerra; a uscirne rafforzato è il fascino estetizzante della guerra." (da Giovanni De Luna, La guerra messa in scena, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/09/'08)

lunedì 15 settembre 2008

David Foster Wallace (1962-2008)


"Lo scrittore americano David Foster Wallace, che aveva raggiunto fama internazionale 12 anni fa con il fluviale romanzo Infinite Jest, è stato trovato morto impiccato nella sua abitazione a Clermont, nel Sud della California. Aveva 46 anni. È stata la moglie a scoprire il cadavere, e la polizia propende per l’ipotesi del suicidio. Attualmente Wallace insegnava scrittura creativa e letteratura inglese presso il Pomona College, in California. Il preside, Gary Kates, ha sottolineato come lo scrittore si prendesse cura con estrema attenzione degli studenti: col suo lavoro 'ha trasformato la vita di molti giovani'. Il suicidio di David Foster Wallace, autore tra i più brillanti della nuova narrativa americana, lascia sgomenti. Appena quarantaseienne, Wallace era già entrato a far parte di una cerchia piuttosto ristretta: quella degli autori su cui, all’alba del nuovo secolo, la critica d’Oltreoceano era davvero disposta a scommettere. Celebre anche presso il grande pubblico grazie all’opera-monstre Infinite Jest, romanzo di mille e più pagine ambientato in un futuro prossimo nel quale gli anni assumono un nome a partire da uno sponsor (la storia si svolge perlopiù nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, e ruota attorno a temi quali la dipendenza e la competitività, l’intrattenimento popolare e la pubblicità, ma anche i programmi di recupero, gli abusi di minori e il separatismo quebechiano), e definito dal New York Times 'uno dei grandi talenti della sua generazione, capace di qualsiasi virtuosismo', Wallace amava sopra ogni altra cosa l’Oxford English Dictionary, da cui pescava parole inusuali e complicate per costruire le sue elaborate macchine narrative, e si faceva fotografare con tanto di bandana in testa, barba incolta e capelli lunghi, quasi fosse una rockstar salita alla ribalta all’epoca del grunge. Nato a Ithaca (New York) il 21 febbraio 1962, era invece figlio di un professore di filosofia e di un’insegnante d’inglese, e dopo essersi fatto notare come tennista almeno a livello regionale, e aver intrapreso e poi abbandonato gli studi di filosofia a Harvard, si era laureato nel 1986 all’Amherst College e poi all’Arizona University, ottenendo il Gail Kennedy Memorial Prize. Dopo essersi iscritto a un corso di scrittura creativa, aveva pubblicato il primo libro, La scopa del sistema, e subito alcuni recensori lo avevano lodato per le sue straordinarie capacità inventive, paragonandolo nientemeno che a Thomas Pynchon. Il successo letterario, raggiunto ad appena 25 anni, lo aveva aiutato in un certo senso a ripercorrere la strada battuta dai genitori. Nel 1992 aveva cominciato a sua volta a insegnare all’Università dell’Illinois. E dal 2002, come accade non di rado in America, si era ritrovato a giocare la sua partita col mondo a parti invertite, nel senso che proprio a lui il Pomona College aveva chiesto di tenere un corso di scrittura creativa, a cui potevano accedere dodici privilegiati studenti di certo increduli della loro fortuna. Già. Perché nel frattempo David Foster Wallace era diventato, forse suo malgrado, una sorta di brand o marchio di fabbrica. All’indomani del libro d’esordio, infatti, ne erano seguiti numerosi altri, di narrativa e di saggistica, benché nel suo caso sia sempre stato piuttosto arduo distinguere nettamente l’una dall’altra (la sua opera, contraddistinta da un grande uso di note a piè pagina, si era immediatamente segnalata per il fatto di essere influenzata dai mostri sacri della fiction post-moderna made in Usa, fra cui oltre al già citato Thomas Pynchon anche William Gaddis, Donald Barthelme e John Bart, per tacere del maestro di questi ultimi, Jorge Luis Borges). E all’interno dei suoi testi, da La ragazza dai capelli strani a Considera l’aragosta, passando per Brevi interviste a uomini schifosi o per Il rap spiegato ai bianchi (scritto a quattro mani con Mark Costello), i suoi lettori si ritrovavano a fare i conti con personaggi e storie che raccontavano in modo spesso assai divertente la complessità dell’America di oggi, con le sue innumerevoli ossessioni e nevrosi e paranoie, e poi i miti veri o presunti della cultura pop, dalla musica di Keith Jarrett ai talk-show di David Letterman, dal cinema di Lynch al tennis di Agassi, riservandosi magari un’incursione negli anni della presidenza di Lyndon Johnson. Dall’alto della sua celebrata intelligenza, Wallace sembrava tuttavia divertirsi sul serio. Specie quando si calava nei panni del reporter, si trattasse di seguire per conto di una rivista (il New Yorker o McSweeney’s, la famosa rivista di letteratura fondata da quell’altro enfant prodige che è Dave Eggers, oppure Playboy) la carovana di John McCain in campagna elettorale, o di raccontare gli Oscar del cinema porno, o ancora di aggregarsi all’agghiacciante crociera extralusso 'sette notti nei Caraibi', diventata poi lo sfondo di quel libro esilarante ma innanzitutto feroce che è Una cosa divertente che non farò mai più. La sua era una comicità 'alta', come si addice a un alfiere del postmoderno impegnato fin dagli esordi a tracciare la mappa immaginaria del caos contemporaneo, capace di dedicare cinque anni alla scrittura di Infinite Jest come di seguire gli U.S. Open per una rivista di settore. E malgrado la sua diffidenza nei confronti dell’ironia, specie quella mutuata dalla televisione, l’autore di Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito usava magistralmente anche questa, a partire dai titoli. Sia come sia. In uno dei suoi libri più recenti, Oblio, uscito in Italia alla fine del 2004, David Foster Wallace decise di includere un racconto assai bello, intitolato Caro vecchio neon. È la storia di un giovane baciato dal successo, che però deve fare i conti con la consapevolezza assai dolorosa di essere in fin dei conti un sopravvalutato. 'Per tutta la vita sono stato un impostore. E non esagero. Ho praticamente passato tutto il mio tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri', è l’attacco del racconto. Queste sue parole tornano in mente ora, mentre ci si chiede di che cosa fosse fatto il male di vivere che se l’è portato via." (da Giuseppe Culicchia, Wallace, le nevrosi dell'America d'oggi, "La Stampa", 15/09/'08)

Jonathan Franzen: "L'amore urlato al tempo dei telefonini"


"Non sono contrario agli sviluppi tecnologici. La posta vocale digitale e l'identificazione del chiamante, che, abbinate, hanno annientato la tirannia dello squillo del telefono, sono per me le vere, grandi invenzioni dell'ultimo scorcio del ventesimo secolo. E quanto amo il mio BlackBerry, che mi consente di replicare a lunghe e sgradite mail con poche righe telegrafiche, e il destinatario non mancherà di sentirsi riconoscente, perché le ho digitate con i miei pollici. E le cuffie che cancellano i rumori, nelle quali diffondo rumore bianco su frequenze alterate ('rumore rosa') ed elimino persino il rimbombo più assillante del televisore del vicino: le adoro. E il mondo fantastico dei Dvd e degli schermi ad alta definizione, che mi hanno fatto dimenticare il pavimento appiccicoso di tanti cinema, gli spettatori maleducati che continuano a parlottare, e i masticatori a bocca aperta di popcorn: evviva. Benché i miei aggeggi preferiti siano quelli che salvaguardano attivamente la privacy, sono anche favorevole a qualsiasi novità tecnologica che non mi costringa a interagire con essa. Se preferite trascorrere un'ora al giorno ad armeggiare con il vostro profilo su Facebook, o se per voi non c'è alcuna differenza tra leggere Jane Austen su Kindle o sulla pagina stampata, o se pensate che Grand Theft Auto IV sia la più grande opera d'arte da Wagner a oggi, sono molto felice per voi, a condizione di non coinvolgermi. Le invenzioni che non riesco ad accettare, tuttavia, sono simili agli insulti che continuano a ferire, alle mazzate che continuano a far male. Lo sviluppo tecnologico che ha inflitto danni permanenti alla società — vale a dire, l'invenzione di cui non è nemmeno possibile lamentarsi in pubblico, malgrado i disastri provocati, pena il ridicolo — è il telefono cellulare. Una decina d'anni fa, New York (dove abito) abbondava ancora di cabine pubbliche, in cui i cittadini mostravano rispetto per la comunità, rinunciando a infliggere al prossimo i loro drammi personali. Il mondo, dieci anni fa, non era stato ancora del tutto espugnato dalla chiacchiera. L'uso dei Nokia appariva un'ostentazione o una mania dei ricchi. Oppure, per essere generosi, una malattia, un'invalidità o una stampella. Sul finire degli anni Novanta, già si avvertiva a New York una morbida transizione metropolitana dalla cultura della nicotina alla cultura del cellulare. Se ancora ieri la tasca rigonfia della camicia stava a indicare un pacchetto di Marlboro, il giorno dopo conteneva un Motorola. Se ancora ieri la bella ragazza, tutta soletta, teneva mani, bocca e attenzione occupate da una sigaretta, il giorno dopo la vedevi assorta in una conversazione molto importante con una persona diversa da te. Il futuro di quella nuova moda mi appariva ancora incerto: chissà se New York sarebbe diventata una città di drogati del cellulare, pronti ad aggirarsi come sonnambuli lungo i marciapiedi avvolti in una sgradevole nuvoletta di vita privata, o se prima o poi i cittadini avrebbero preferito esercitare un maggior autocontrollo in pubblico. Inutile dirlo, non c'è stato alcun dilemma. Il cellulare non era una di quelle trovate moderne, come il Ritalin o gli ombrelli extra large, alle quali si oppongono valorosamente numerose sacche di resistenza civile. Il suo trionfo è stato fulmineo e totale. I suoi abusi sono stati vituperati e condannati in saggi, articoli e lettere a vari direttori, e poi vituperati e condannati con maggior vigore quando gli abusi sembravano aggravarsi, ma è finito tutto qui. Le rimostranze sono state accolte, qualche minima modifica applicata (la 'carrozza tranquilla' sui treni; cartelli discreti che invitano alla moderazione, affissi in ristoranti e palestre) e di lì in poi la tecnologia cellulare ha trovato la strada sgombra per continuare a fare danni senza timore di nuove critiche, perché le nuove critiche sono semplicemente fuori posto, 'nonnetto'. [...] Di tutte le varietà di cattivo comportamento con il cellulare, la più irritante è quella che sembra non infastidire nessuno, perché palesemente senza vittime. Parlo dell'abitudine, sconosciuta dieci anni fa, ma oggi diffusissima, di chiudere le conversazioni al cellulare sbraitando le parole 'LOVE YOU!' O, ancora più opprimente e seccante, 'I LOVE YOU!'. Mi fa venir voglia di trasferirmi in Cina, dove non capisco la lingua. O di mettermi a urlare. Ammetto la possibilità che, tra tutte le persone che affollano la sala di attesa di un aeroporto, l'uomo più straordinariamente arido e incapace di amare sia io. È anche possibile, però, che la reiterazione abituale e frequente svuoti la frase del suo significato. Joni Mitchell, nell'ultimo verso di Both sides now, riporta la meravigliosa sorpresa nel dire ti amo 'ad alta voce', nel dare espressione vocale a un sentimento di tale intensità. Stevie Wonder, in una canzone scritta diciassette anni più tardi, vuol telefonare alla persona amata, un pomeriggio come tanti, semplicemente per dirle 'I love you', e siccome si tratta di Stevie Wonder (che ci scommetto è più affettuoso di me), riesce in qualche modo a farmi credere alla sua sincerità, per lo meno fino all'ultima riga del ritornello, dove trova necessario aggiungere: 'E te lo dico dal profondo del cuore'. Ecco, questa confessione è inammissibile quando si parla davvero dal profondo del cuore.
Proprio mentre sto acquistando i calzini da Gap, la mamma dietro di me in coda alla cassa strilla 'I love you!' nel suo telefonino, e io non riesco a trattenermi dal pensare che siamo davanti a una sceneggiata: una recitazione istrionica, fatta in pubblico e imposta agli altri con un senso di rivincita. Se la dichiarazione d'amore di quella madre avesse avuto un peso emotivo personale e autentico, la donna non avrebbe dovuto usare qualche premura per salvaguardarla dalle orecchie del pubblico? Se era davvero sincera, dal profondo del cuore, non sarebbe stato meglio sussurrarla? Origliando la sua conversazione, da perfetto estraneo, mi sento coinvolto invece in una dichiarazione aggressiva di proprietà. È come se quella donna stesse dicendo a tutti i presenti: 'Le mie emozioni e la mia famiglia valgono di più della vostra tranquillità'. E inoltre, come sospetto spesso: 'Voglio far sapere a tutti che, a differenza di molte persone, tra cui quel bastardo di mio padre, io sono una donna che esprime sempre l'amore che prova per i suoi cari'. O forse, travolto da un'irritazione che adesso comincia a sembrarmi un po' lunatica, mi starò immaginando tutto? Il cellulare raggiunse la sua massima popolarità l'11 settembre 2001. Da quel giorno, impressi nella nostra memoria collettiva, i cellulari sono diventati l'ultimo veicolo affettivo nella disperazione. In ogni 'I love you' troppo forte che sento oggi è difficile non risentire l'eco di quei terribili, indispensabili, laceranti 'I love you' lanciati dai quattro velivoli in picchiata e dalle due torri che si sbriciolavano. Ed è precisamente questa eco, proprio perché eco e per di più circonfusa di sentimentalismo, che mi irrita a non finire. La mia esperienza dell'11 settembre fu anomala per la mancanza di televisore. Alle nove del mattino, ricevetti una chiamata dal mio editore il quale, dalla finestra del suo ufficio, aveva appena visto il secondo aereo schiantarsi contro una torre. Mi recai immediatamente al televisore più vicino, nella sala conferenze dell'ufficio di compravendita immobiliare al piano di sotto, e osservai con un gruppo di agenti la prima torre, e poi la seconda, che crollavano al suolo. A quel punto rientrò la mia compagna e passammo il resto della giornata ad ascoltare la radio, a controllare Internet, a rassicurare le nostre famiglie e a fissare, dal tetto dell'edificio e dalla Lexington Avenue, invasa da una marea gente che scappava dal centro, la polvere e il fumo che, dalla punta di Manhattan, si addensavano in una coltre densa e velenosa. Tre sere dopo, rimasi dalle 23 fin quasi alle 3 del mattino in una gelida stanza degli studi della ABC News, aspettando il mio turno per offrire al conduttore della trasmissione, Ted Koppel, la prospettiva di uno scrittore sugli attacchi del martedì mattina. L'attesa non fu breve. Spezzoni dello schianto dei velivoli e del crollo delle torri e degli incendi venivano ripetuti ossessivamente, intervallati da lunghi segmenti sulla tragedia emotiva che aveva colpito la gente comune e in particolare i bambini. [...] Intervenni quattro volte in tre ore e mezza. La seconda volta, mi venne chiesto di confermare le voci diffuse che quel fatidico martedì aveva profondamente cambiato la personalità dei newyorkesi. Non fui in grado di confermarle. Dissi che la gente mi pareva afflitta, non irata, e raccontai di aver visto i negozi del mio quartiere, il mercoledì pomeriggio, affollati di clienti che compravano capi di vestiario autunnale. Ted Koppel mi fece capire chiaramente che non mi ero dimostrato all'altezza del compito, per il quale avevo aspettato quasi tutta la notte. Con una smorfia, ribatté che le sue impressioni personali erano molto diverse dalle mie, e cioè che gli attentati terroristici avevano avuto un profondo impatto sulla personalità di New York.
Naturalmente, ero certo di dire la verità, mentre Koppel si limitava a ripetere luoghi comuni. Ma Koppel aveva guardato la televisione, e io no. Non avevo capito che il danno peggiore al Paese non era stato inferto dall'agente patogeno, bensì dalla massiccia e sproporzionata reazione del sistema immunitario, e tutto perché non avevo la tv. Confrontavo mentalmente il numero delle vittime della strage con altre statistiche di morti violente, come i tremila americani che avevano perso la vita in incidenti stradali nei trenta giorni precedenti l'11 settembre, perché non avendo visto le immagini, credevo ancora che i numeri contassero per qualcosa. Sotto i miei occhi si delineava invece l'improvvisa, misteriosa e disastrosa strumentalizzazione del dibattito pubblico americano. E proprio come non riesco a non incolpare la tecnologia dei cellulari quando la gente riversa espressioni di affetto materno o filiale nei telefonini, infliggendo la loro maleducazione a tutti coloro che si trovano a portata di orecchio, non riesco a non incolpare la tecnologia mediatica per aver messo in primo piano, a livello nazionale, le emozioni personali. [...] Dal lato positivo, gli americani nel 2001 erano molto più pronti a dire 'I love you' ai loro figli di quanto non lo fossero stati i loro genitori o i loro nonni. Ma disposti a competere sul piano economico? A stringersi insieme come un'unica nazione in un momento di crisi? A sconfiggere i nostri nemici? A formare salde alleanze internazionali? Forse da questo lato rischiamo di sconfinare sul versante negativo. I miei genitori si conobbero due anni dopo Pearl Harbor, nell'autunno del 1943, e nel giro di pochi mesi si scambiavano lettere e cartoline. Mio padre lavorava per le ferrovie, la Great Northern Railway, ed era spesso inviato in varie località a ispezionare o riparare i ponti, mentre mia madre restava a Minneapolis dove era impiegata come receptionist. Delle lettere che lui le spedì, la più vecchia in mio possesso è datata il giorno di San Valentino del 1944. Si trovava a Fairview, nel Montana, e mia madre gli aveva scritto un cartoncino di auguri nello stile di tutto quello che gli avrebbe inviato negli anni precedenti il loro matrimonio: teneri bebè, bimbetti e cuccioli che incarnavano i più dolci sentimenti.
La lettera di risposta di mio padre portava il timbro di Fairview, Montana, il 14 febbraio: 'Martedì sera. Cara Irene, che delusione devo averti dato per San Valentino. Me lo sono ricordato, ma non avendo trovato un cartoncino qui in edicola, mi sentivo imbarazzato ad andare a chiedere dal fruttivendolo o dal ferramenta. Sono sicuro che anche qui, da queste parti, avranno sentito parlare di San Valentino. [...] Ne riparleremo a voce. Spero di rientrare a St. Paul il sabato sera, non ne sono ancora sicuro. Ti chiamerò al mio arrivo. Con tutto il mio amore, Earl'.
Mio padre aveva da poco compiuto 29 anni. È impossibile sapere come mia madre, nel suo ingenuo ottimismo, abbia accolto a quel tempo la sua lettera, ma se ripenso alla donna che ho conosciuto io, posso affermare senza ombra di dubbio che non era affatto il tipo di lettera che sperava di ricevere dal fidanzato. Dov'erano le paroline dolci e affettuose? Dove le divagazioni sognanti del loro amore? Era chiaro che mio padre la conosceva appena. Ai miei occhi, invece, la lettera di mio padre è traboccante d'amore. Amore per mia madre, certo: ha cercato di trovarle un cartoncino di auguri per San Valentino, le invia tutto il suo amore e promette di chiamarla al suo ritorno. [...] Negli anni successivi, mia madre non la finiva di lamentarsi che mio padre non le avesse mai detto di amarla. E forse è vero che non disse mai quelle parole, io almeno non le ho mai sentite. Ma di certo le scrisse. Mi ci sono voluti anni per trovare il coraggio di andare a leggere la loro vecchia corrispondenza, proprio perché la prima lettera di mio padre che mi è capitata tra le mani, dopo la morte della mamma, cominciava con un vezzeggiativo ('Irenie') che non gli avevo mai sentito pronunciare nei 35 anni trascorsi accanto a lui, e finiva con una dichiarazione ('Ti amo, Irene'), che mi ha impedito di andare avanti. Non era l'uomo che io conoscevo, e così ho seppellito tutte le lettere in un baule e l'ho riposto in soffitta a casa di mio fratello. Di recente, quando le ho riprese in mano e sono riuscito a leggerle tutte, ho scoperto che in realtà mio padre aveva dichiarato il suo amore a mia madre decine di volte, usando le parole importanti, sia prima sia dopo il matrimonio. Ma forse, anche allora, non era stato capace di dirle ad alta voce, e per questo, nei ricordi di mia madre, lui non le aveva mai 'dette'. Both sides now, nella versione di Judy Collins, è stata la prima canzone a fissarsi nei miei ricordi. Veniva trasmessa senza sosta alla radio quando avevo otto o nove anni, e quel richiamo a dichiarare il proprio amore 'ad alta voce', abbinato alla cotta che mi ero preso per Judy Collins, ha fatto sì che il significato primario di 'I love you' abbia assunto per me un connotato sessuale. Perciò restavo sconcertato che la persona che mi rivolgeva costantemente tali parole fosse mia madre. Era l'unica donna in una famiglia di maschi e soffriva per un tale eccesso di sentimenti impossibili da ricambiare che finiva per riversarli in mille espressioni affettuose. I biglietti e le tenerezze di cui mi colmava erano identici, in spirito, a quelli che aveva destinato un tempo a mio padre. Molto prima della mia nascita, le sue effusioni già parevano insopportabilmente infantili a mio padre. Per me, invece, erano peggio che infantili e mi ingegnavo in tutti i modi per evitare di ricambiarle. Sono sopravvissuto a interi periodi della mia infanzia, lunghe settimane trascorse da solo in casa con lei, aggrappandomi a cruciali distinzioni di intensità tra 'ti amo', 'anch'io ti amo', e 'ti voglio bene'. Era essenziale non dire mai e poi mai 'ti amo', o 'ti amo, mamma'. L'alternativa meno dolorosa era di bofonchiare un 'ti voglio bene', quasi impercettibile. Ma un 'anch'io ti amo', se pronunciato abbastanza in fretta e calcando sull''anch'io', quasi fosse una semplice reazione automatica, mi salvava in parecchie situazioni imbarazzanti. Non ricordo che si sia mai offesa per i miei borbottii, né mi rimproverava se, come accadeva talvolta, ero incapace di rispondere se non con un grugnito evasivo. Ma non mi spiegò mai che dire 'ti amo' era semplicemente una frase che le sgorgava dal cuore, stracolmo di sentimento, e che non dovevo sentirmi obbligato a rispondere con un 'ti amo' ogni volta per compiacerla. E ancora oggi, quando mi sento aggredire da tanti «ti amo» strillati nei telefonini, io non percepisco altro che coercizione.
Mio padre, malgrado le tante lettere piene di vita e curiosità, non vide nulla di male nel relegare mia madre alla cucina e alla cura dei figli e della casa per quattro decenni, mentre lui si godeva la sua professione nel mondo degli uomini. Sembra la regola, sia nel microcosmo del matrimonio che nel macrocosmo della vita americana: i sentimenti sono prerogativa di coloro che non hanno alcun potere, e viceversa. I vari isterismi del dopo-11 settembre, sia il flagello dei 'ti amo' che il timore e l'odio istigati dai nazionalisti più accesi, erano gli isterismi degli impotenti e dei sottomessi. Se mia madre avesse avuto anche altre ambizioni, forse avrebbe gestito con maggior realismo le sue esigenze affettive. Per quanto freddo o represso o sessista possa apparire mio padre in un'ottica contemporanea, gli sono riconoscente di non aver mai detto, in tante parole, che mi amava. Mio padre prediligeva la riservatezza, vale a dire, rispettava la sfera pubblica. Credeva nell'autocontrollo, nella buona educazione e nella ragione perché in loro assenza, ne era convinto, la società non era più in grado di impostare un dibattito né di prendere decisioni per tutelare i propri interessi. Sarebbe stato bello, specie per me, se si fosse mostrato più espansivo con mia madre. Ma ogni qualvolta sento madri e padri ragliare quei 'ti amo' nei loro cellulari, mi ritengo fortunato di aver avuto il padre che ho avuto. [...] Tra me e il luogo dove oggi riposa, si trasmette solo il silenzio. Nessuno ha maggior privacy dei morti. Mio padre ed io non ci diciamo molto di più oggi di quanto non ci siamo detti per molti anni mentre era in vita. La persona di cui sento la mancanza — e litigo ancora con lei mentalmente e mi sento in colpa, ma vorrei mostrarle le mie cose, invitarla a casa mia, prenderla in giro — è mia madre. Quella parte di me che si ribella rabbiosamente all'intrusione dei cellulari viene da mio padre. Quella invece che adora il BlackBerry, e vorrebbe scrollarsi di dosso pensieri e mestizia per divertirsi come tutti gli altri, l'ho ereditata da mia madre. Era lei la persona più moderna dei due, e benché sia stato lui, e non lei, a detenere il potere in famiglia, è stata lei a ritrovarsi dalla parte dei vincitori. Se fosse ancora viva e abitasse a St. Louis, e se vi capitasse di sedervi accanto a me nel Lambert Airport, in attesa del volo per New York, dovreste rassegnarvi a sentirmi dire che le voglio bene. Ma abbassando la voce." (da Jonathan Franzen, L'amore urlato al tempo dei telefonini, "Corriere della Sera", 14/09/'08)