sabato 30 agosto 2008

Europa, il Vocabolario dei sentimenti


"Ridare la parola agli scrittori, cercare l'unità nelle differenze. Si intitola Vocabolario europeo ed è una delle iniziative più interessanti del Festivaletteratura di Mantova che quest'anno ha chiesto agli autori di regalare una parola della propria lingua da inserire in un ideale vocabolario condiviso. Il progetto prende spunto dal fatto che l'Unesco ha dichiarato il 2008 'anno internazionale delle lingue madre' e rientra, come spiega il linguista Giuseppe Antonelli che registrerà e commenterà le voci degli autori, in un 'discorso generale di difesa della glottodiversità. Anche perché secondo un'indagine dell'Unesco, il 97 per cento della popolazione parla un numero di idiomi che rappresenta soltanto il 4 per cento di quelle parlate sul pianeta'. L'iniziativa di Mantova coinvolge anche altri aspetti. 'E' un modo di reagire alla marginalizzazione della letteratura nella società attuale - continua Antonelli - e per combattere quella che io chiamo 'smarginalizzazione semantica', cioè la degenerazione semantica di alcune parole importanti'. La scelta più squisitamente letteraria, in questo senso, è quella dell'italiano Marco Santagata, a cui la parola stile permette di mostrare il passaggio tra l'ambito retorico e il comportamento. Se il Rinascimento - spiega Santagata - compie il grande salto e trasferisce 'alla società l'idea di stile regolato e codificato delle poetiche e della letteratura' oggi invece 'se pronunciata in relazione all'immagine o alla cultura italiana slitta quasi automaticamente su 'stilista' e rimanda al mondo della moda e del design'. Il Vocabolario mostra, nel suo complesso, la doppia anima, l'universalità e la specificità, dell'iniziativa. Così per l'inglese Howard Jacobson la parola argument ('prova o un argomento addotto per supportare un'asserzione, am anche dibattito, discussione') è un modo per entrare dalla porta linguistica nel carattere degli inglesi, 'nel loro amore per la diatriba, ma anche nel loro innato scetticismo', mentre hanno un respiro universale la Soarta, la sorte, scelta dal rumeno Mircea Cartarescu per il quale 'ogni gesto che faremo, ogni parola, ogni secrezione, ogni crimine, ogni buona azione, il bene e il male cui siamo condannati e il nostro stesso libero arbitrio sono già previsti', e Heimat dell’altoatesino di lingua tedesca Joseph Zoreder, secondo cui la parola è 'sinonimo di nido, cioè di sicurezza, pace, abitudine, ma più di tutto familiarità. Familiarità con la lingua, con gli usi, con il carattere della gente e, non ultimo, con la natura di un certo territorio'. Ci sono l’ungherese Zsuzsa Rakovszky che ha scelto múlt, passato, e l’islandese Guðrún Eva Mínervuddóttir che ha scelto útúrdúr, cioè digressione, ma c’è anche il sardo Giorgio Todde che regala Scramentu, cioè, spiega, 'il dolore per avere insistito in un’azione che — lo si poteva prevedere — è fallita. E in questo suono 'scr' è contenuto comunque un dolore. Esistono il verbo scramentai e l’aggettivo corrispondente, ed esprimono anche un atteggiamento del corpo, un’espressione del viso. Dolore, rabbia e dispetto'. Accanto alle parole-mondo, parole-simbolo come Heimat o Ikasi, cioè apprendere, scelto dal basco Bernardo Atxaga — spiega ancora Antonelli — ci sono termini più direttamente legati alla specificità della lingua, come nel caso dello svedese Hakan Nesser: Allemanstäd, che in inglese si può definire every man’s right, significa la possibilità, per ciascuno, di camminare liberamente nelle campagne, nei boschi, nelle foreste'. Una parola che gli svedesi hanno nel sangue, ma che è difficilmente riscontrabile altrove: 'Ho passato gli ultimi due anni negli Stati Uniti e per me era stranissimo trovare ovunque nei boschi cartelli con scritto "Proprietà privata! Vietato oltrepassare!"', spiega Nesser. Allemanstäd esprime una concezione della natura 'simile a quella che avevano gli indiani d’America quando arrivò l’uomo bianco e reclamò la terra. Secondo i nativi avrebbero potuto allo stesso modo reclamare il sole, la luna o, perché no, il blu del cielo'. Mancano le parole del francese e dello spagnolo, ma ci sono gli idiomi di Paesi recentemente entrati a far parte dell’Unione Europea, 'come il bulgaro di Angel Wagenstein che ha scelto una parola che significa lettere dell’alfabeto o come il rumeno di Cartarescu - spiega Antonelli —. Ma c’è anche un termine turco, belki, cioè forse, scelto da Saray Ahiner. È una presenza interessante, considerato che la Turchia non è ancora nell’Unione Europea e che tuttavia nel vocabolario italiano ci sono all’incirca 180 parole di etimo turco'. Il Vocabolario europeo comprende anche la parola gallese Hiraet, scelta da Cynan Jones, il 'desiderare intensamente di essere in un luogo, la consapevolezza di essere lontani dalla propria casa e nello stesso tempo la certezza che questa lontananza ci è necessaria'. 'Il gallese e il basco hanno riconoscimenti ufficiali, si studiano a scuola — spiega Antonelli — e ciononostante rischiano l’estinzione. Basti pensare che uno dei vari dialetti baschi, l’erronkari, si è estinto il 30 aprile 1976, quando è morta l’ultima donna che ancora lo parlava. Così come, nel 1898, si estinse il dalmatico con l’ultimo parlante che, però, prima di morire, fu intervistato dal glottologo Matteo Bartoli a cui si devono due volumi in tedesco su questa lingua'. Il Vocabolario europeo ha anche la capacità di mostrare i ponti tra le culture e le letterature. 'Pensiamo a thálassa, mare, scelta dalla greca Ioanna Karistani', dice Antonelli. 'Forse è la parola più prevedibile, ma è quella che ha più rimandi. Predrag Matvejevic, per esempio, insiste a lungo sulle varie parole che il greco antico aveva per dire mare. E il grido thálassa thálassa dei soldati nell’Anabasi di Senofonte ha un’eco in Leopardi e Heine'." (da Cristina Taglietti, Europa, il Vocabolario dei sentimenti, "Corriere della Sera", 30/08/'08)

La televisione favorisce la passività. Gli spettatori sono tenuti prigionieri


"Siamo abituati a sentire ripetere così spesso frasi come questa che abbiamo smesso di interrogarci sulla loro attendibilità. Il discorso merita tuttavia un'ulteriore riflessione. Quando 'il cinema si vedeva solo al cinema', gli spettatori erano obbligati a 'fare' esperienza del film secondo un codice di comportamento unico, ma la diffusione di videoregistratori, lettori, videofonini, palmari oltre che, appunto, della televisione ha cambiato tutto. La sala cinematografica così come la sua antenata (la sala teatrale 'all'italiana' inventata dagli architetti del Rinascimento) è stata pensata per un pubblico dedicato. Immobile, silenzioso, attento, disciplinato. E ricettivo. La televisione invece, soprattutto da quando è regolata dall'utilizzo del telecomando, ha sancito il passaggio dalla passività assoluta a una forma di sfrenata attività. E l'affrancamento dalle costrizioni a cui si sono dovuti sempre sottoporre gli spettatori. Oggi siamo dunque e senza dubbio più liberi. Non è detto però che questa nuova condizione sia così favorevole. Già pensati per la loro trasmissione televisiva, i nuovi film non godono più della protezione della sala e sono costretti a guadagnarsi l'attenzione del pubblico fotogramma per fotogramma, un po' come succede nei videoclip musicali (montaggio sincopato, movimenti di macchina frenetici), in modo da evitare che lo spettatore cambi canale o passi alla scena successiva. Ma soprattutto la fine dell'azione disciplinante della sala trasforma radicalmente la reazione degli spettatori. Perché il pubblico non è più chiamato a sperimentare direttamente sul proprio corpo un'impotenza in tutto e per tutto simile a quella dei personaggi prigionieri della storia che prende forma sotto i loro occhi. L'americano Stanley Cavell, uno dei pensatori contemporanei che più ha ragionato sul teatro come 'arte della sala', indicava in questa passività forzata del pubblico (che nulla può fare per coloro che patiscono sul palco) il vero fulcro del dramma. La sofferenza provocata dall'impossibilità di salvare Desdemona e Otello dalla rete di Jago servirebbe precisamente a rendere gli spettatori consapevoli che, diversamente da quanto succede a teatro (o sul grande schermo di una sala cinematografica, per tornare al nostro caso), nella quotidianità possiamo e dobbiamo rompere l'asimmetria e accettare quella responsabilità che sempre accompagna la libertà. Ma affinché ciò avvenga è necessario che prima si patisca immobili e in silenzio: senza potersi mettere al riparo grazie al telecomando. Mentre la tv arriva a infrangere quel nesso tra necessità, sofferenza e catarsi che caratterizza l'esperienza scenica da 2500 anni. Morte della tragedia?" (da Gabriele Pedullà, La televisione favorisce la passività. Gli spettatori sono tenuti prigionieri, l'onnipresenza degli audiovisivi fiacca la capacità di resistenza alla propaganda, "D laRepubblicadelleDonne", 30/08/'08)

In piena luce di Gabriele Pedullà

venerdì 29 agosto 2008

Rosso come una sposa di Anilda Ibrahimi


"Dell'Albania non si sapeva niente. Dal piccolo paese dirimpettaio martoriato dal nostro esercito, poi dalla guerra, infine dal comunismo totale di Enver Hoxha, per sessant'anni non sono arrivate parole né film né canzoni. L'unica immagine che per molto tempo l'Albania ha regalato agli italiani è stata quella indelebile delle navi brulicanti di vita e di ruggine che vent'anni fa fecero il loro ingresso nel porto di Bari. Da allora, però, a poco a poco è diventato parte del paesaggio letterario italiano. Gli esuli di prima della caduta del muro di Berlino e quelli della diaspora degli anni '90 hanno trovato una voce in italiano. Sono ormai numerosi e anche apprezzati. In odio ai cataloghi che annullano le differenze e avviliscono le ricerche individuali degli scrittori, ricorderò solo la scarnita voce di pietra del poeta Gezim Hajdari che da anni scrive le sue potenti liriche dall'esilio della ciociaria. Ora tutte le storie disperse dell'Albania del '900, Anilda Ibrahimi le ha cucite nel suo primo romanzo, Rosso come una sposa. Scandito da un ritmo veloce e da una scrittura ironica e maliziosa, questo romanzo è insieme un canto e una saga, un'epica collettiva e una commedia tragica, un congedo e un inizio. Al centro di tutto, fra le aspre montagne del sud del Paese, c'è un villaggio di nome Kaltra - insieme reale e immaginario - e al centro del villaggio una donna, Saba. E' lei l'eroina del romanzo: prima sposa bambina del vedovo della sorella, per pagare il prezzo del sangue, secondo il costume del luogo; poi moglie non amata e madre feconda, quindi suocera e nonna tirannica e imprevedibile (poiché solo quando diventa vecchia, alla donna viene concesso di divenire padrona della vita propria e di quella degli altri); infine fantasma perduto e inutilmente atteso. Attorno a lei una galassia variopinta di figlie, nuore, nipoti. Ma attenzione: benché una tribù di donne domini queste pagine con le sue vicende, ora tristi ora buffe, questa non è solo una storia di donne, ma anche la storia di una nazione. Gli eventi si susseguono come le stagioni e la Storia che si abbatte sul villaggio e sulla sua povera gente, sconvolgendo e mutando per sempre le esistenze di tutti. Nel romanzo c'è proprio tutto (la generosità un po' dissennata è la caratteristica, per me positiva, del primo libro dei veri scrittori): l'occupazione italiana e la guerra partigiana, il comunismo (che offre alla famiglia contadina di Saba la possibilità di un insperato riscatto sociale) e l'isolamento di una dittatura feroce e primitva, che trasforma l'Albania in una prigione. E c'è la caduta e la democrazia, che libera colei che è la voce narrante e che finirà per partire e stabilirsi, dopo vari vagabondaggi, a Roma. E' proprio lo strappo e la perdita definitva, il vero inizio del romanzo e per me la ragione principale della sua forza. E' esistita in tutto il bacino del Mediterraneo la tradizione letteraria del lamento funebre. Si cantano ai vivi le imprese dei morti e ai morti quelle dei vivi, affinché la catena delle generazioni non si spezzi. Quei versi in molte culture - e anche nella nostra - erano affidati alle donne. Nel romanzo è la protagonista, Saba, che si è assunta il compito di raccontare ai morti (ovunque siano) le storie dei vivi: di farli partecipare al mutamento, alle gioie e ai dolori di coloro che restano. Ma in realtà colei che si è assunta questo compito è Anilda Ibrahimi e il romanzo è proprio questo. Un canto ininterrotto e commovente che ricorda tragedie immani, vite distrutte dal pettegolezzo e dalla ragion di stato, dalla stupidità e dalla violenza, e però colorato da una gioia contagiosa, e destinato non solo ai morti rimasti dall'altra parte del mare e ora ritrovati in queste pagine ma soprattutto ai vivi: ai figli e a noi." (da Melania Mazzucco, Le memorie della sposa, "Il Sole 24 ore Domenica", 29/06/'08)

Poesie (1976-2007) di Eugenio De Signoribus


"Sarà anche vero che quella cosa chiamata poesia non è morta, e che vive un'esistenza clandestina. Ma siano tra i buoni auspici più recenti del suo futuro la nuova collana diretta da Alfonso Berardinelli per Scheiwiller (l'autore più giovane dei primi titoli pubblicati è il poeta e critico romano Paolo Febbraro - 43 anni - con Il bene materiale) e i nuovi libri di Rosita Copioli (ne ha parlato Pietro Citati in queste pagine il 25 giugno) e dello strepitoso - 88 anni - Nelo Risi, entrambi nello Specchio mondadoriano. Gli interrogativi sulla poesia si infittiscono. La diffusione crescente dei festival letterari sarà efficace fino al punto da incrementare ascolti, vendite, letture? E così la Rete, totem onnipresente, indiscriminato veicolo della cosa chiamata poesia. Quanto ai premi, è un ottimo segnale che sia finalmente consacrato da un importante riconoscimento nazionale il marchigiano Eugenio De Signoribus, poeta di vaglia e al tempo stesso marginale anche per scelta: 'non c'è nessuno qui! Non sono io / quello che ha il nome sulla porta!'. Poesie (1976-2007), la raccolta dei suoi cinque libri più un gruppo di inediti, la Bibliografia essenziale e l'Antologia della critica (Garzanti), l'altro ieri ha vinto il Premio Viareggio. Opera complessa, è un percorso trentennale in cui risuona la voce di un autore coerente all'insegna del 'proprio lessico legato / alla cerca del proprio vivere'. Nato nel 1947, già insegnante nelle scuole medie, 'il romito di Cupra Marittima' - così Andrea Cortellessa l'ha definito - ha scelto un'esistenza appartata: ma il centro, per lui, è la sua poesia, il suo ambito naturale. La critica non è stata avara e l'ha accompagnato con la stima di generazioni diverse (Giovanni Giudici, Fernando Bandini, Giacinto Spagnoletti, Paolo Zubiena, Rodolfo Zucco, Enrico Testa, Emanuele Zinato, Yves Bonnefoy e altri. Giorgio Agamben per esempio, nel 1992 scrisse di lui: 'forse il più grande poeta civile della sua generazione'. Governano l'agire creativo di questo 'io timido' reticenza, ironia, smarrimento, tristezza, malinconia, sensi di colpa, distacco, sofferenza, umiltà, mutezza: una filiera tipica del suo vocabolario. Il narciso della discrezione, in fuga 'da un più avanzato destino', si confessa: 'pietà se non sono un attore della certezza'. E si muove felpato tra le infinite quinte di un teatrino mentale controllato dalla griglia stretta e dal ritmo ben scandito di versi spesso plasmati nella forma cantabile di ariette, sonetti, canzonette. Al di là di queste sequenze, organizzate anche in distici dal vivace impatto epigrammatico, si intuisce una vita sospesa, tra parentesi (non a caso un segno grafico ricorrente) ma pronta a irrompere sulla scena. La pensosa frivolezza della prova di un abito con il sarto che pare Fred Astaire danzante e la bestiale crudeltà di ciò che accade in un mattatoio sono gli estremi emotivi di un'ampia costellazione di episodi. Affiorano inoltre eventi minimi della quotidianità e degli affetti familiari al cospetto degli incubi che la storia ripropone con la memoria degli orrori di cui è causa e testimone. Che fare? Ecco l'orma solidale che De Signoribus imprime alla sua poesia: 'mai vera casa avrò / né troverò mai sonno / finché non avrà sede /ogni terreno popolo'. [...]" (da Enzo Golino, De Signoribus il poeta che non c'è, "La Repubblica", 29/08/'08)

giovedì 28 agosto 2008

Melania Mazzucco: "Cinema, ultima tentazione"


"Il cinema è la crisi di mezza età degli scrittori. Colpisce quelli che ce l'hanno fatta, che hanno avuto successo e/o hanno scritto già l'opera importante, sono già stati gratificati, premiati, e si sentono sazi. Non è - quasi mai - una crisi di frustrazione, ma di appagamento. Non una crisi negativa ma un rito di passaggio. Il matromonio con la letteratura (o il teatro, perché qui non si distingue tra romanzieri, saggisti e drammaturghi) entra temporaneamente in crisi. C'è bisogno di una pausa, una separazione: cercare altrove nuovi stimoli, praticare nuove esperienze. E' una storia ricorrente che svariati buoni nomi della letteratura del secondo Novecento hanno percorso. Ne ricordo qualcuno, come la memoria, surriscaldata in un torrido pomeriggio romano d'agosto, me li propone. Alberto Moravia, che nel 1951 dirige il corto E' colpa del sole. Peter handke, che nel 1978 dirige dal suo romanzo La donna mancina: prodotto da Wenders, con il quale già collaborava, conferò l'estenuata bravura di Edith Clever e Bruno Ganz. Paul Auster, che dopo aver ceduto al cinema la sua trilogia su New York si ritaglia uno spazio in proprio con Smoke. Il più fortunato è stato però Tom Stoppard. Nel 1990 diresse lui stesso Rosencranz e Guildernstern sono morti, dalla sua commedia, una geniale rivisitazione di Shakespeare che però era anche una riflessione sul senso del destino. Il film era l'illustrazione fedele del testo originario, ma Stoppard scelse due attori promettenti come Gary Oldman e Tim Roth e vinse il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia. Era l'inizio di una nuova carriera? Niente affatto. Gli scrittori di solito restano autori di una sola opera. Nel migliore dei casi si godono il piacere di aver realizzato un buon film. Girano il mondo con i festival, mietono premi, rilasciano interviste in cui tutti fanno loro la stessa domanda: in cosa è diverso dirigere un film o scrivere un libro? E loro rispondono, con gentilezza, senza mai poter dire la verità. Che lo scrittore è sempre anche un regista. Perché dirige la sua troupe di fantasmi, li fa recitare, li inquadra, monta le scene, sceglie i costumi, taglia, spegne le luci. E proprio per questo, pochi scrittori hanno voglia di dirigere davvero. Girare un film significa alzarsi all'alba, prendere freddo sul set, spolmonarsi a guidare centinaia di comparse, lottare per i finanziamenti, la distribuzione, le sale: mentre il cinema della mente ha bisogno solo dello schermo di un computer e costa poco più di niente. La scappatella con l'amante - il cinema - non ha conseguenze, e tutto viene riassorbito. La moglie Letteratura (o Teatro) accolgono il fedifrago amorevolmente, e lo tengono più stretto di prima. Lo scrittore torna al romanzo, o alla commedia. Altri trarranno film dai suoi libri, coem spesso hanno fatto anche prima; continueranno a chiedergli di scrivere sceneggiature, tratte dai suoi libri ma non necessariamente. Le tangenze possono essere infinite, perché il cinema ha sempre tratto ispirazione dalla letteratura e dal teatro. Ma l'incrocio vero - rischioso, totale - non si ripeterà più. Il cinema resta una nostalgia, un piacere che ci si è concessi. Ho spulciato i miei appunti, i miei database. Nessuno scrittore ha mai cominciato uan nuova carriera da regista (né viceversa: il discorso vale anche per i registi che alla crisi di appagamento scrivono un libro, come Almodovar e Burton). L'eccezione che conferm ala regola è pasolini che dopo Accattone non abbandonò più il cinema, finendo semmai per abbandonare il romanzo e la poesia. Per tutti gli altri è stata una parentesi. Un tradimento. Talvolta significativo, perfino importante. Una vera storia d'amore. Non dura mai più di un'estate. Buona fortuna a Handl, Baricco, Houllebecq." (da Melania Mazzucco, Cinema, ultima tentazione, "Il Sole 24 Ore Domenica", 10/08/'08)

Dal romanzo di Melania Mazzucco, Un giorno perfetto il film di Ferzan Ozpetek

Quarantatré di Elisabetta Severina


"Assediati da pretenziose novità letterarie italiane, troviamo rifugio nel piccolo romanzo (autobiografico, c'è da supporre) dell'esordiente Elisabetta Severina, Quarantré. Il lettore non cada nell'equivoco: alla consultazione dell'indice, sette capitoli in tutto, rischia di essere scambiato per un libro di cucina, con titoli come Croquì, Pasta con le erbette, Crema di cioccolato, Quiche alle zucchine con speck e toma, eccetera. C'è di sicuro il regno della cucina in Quarantré; per il fatto che il perno del libro è un quaderno di ricette che una madre morta giovane, a quarantatré anni appunto, ha lasciato in eredità alla figlia, con una dedica non si sa quanto affettuosa e quanto, invece, impegnativa, anche emotivamente, per quest'ultima: 'Alla mia morte consegnare a mia figlia perché possa imparare'. Ma partendo dal motivo della preparazione laboriosa e via via sempre più appassionante, per la protagonista, dei piatti, che apre ogni capitolo, ecco emergere con limpidezza e contenuto dolore (lo stigma di questo breve romanzo cui daremmo tutti i riconoscimenti del mondo per semplicità, eleganza, decoro) l'altro tratto che progressivamente occupa lo spazio principale. E' seguendo i sentieri della memoria e dell'anima che Elisabetta, infatti, ci racconta la lunga storia di un'inadeguatezza. Cominciata precocemente a dodici anni, quando la mamma muore, dopo una travagliata malattia, lasciando al marito, grosss dirigente d'azienda prima a Torino poi a Milano, dove Elisabetta vivrà la sua adolescenza, cinque figli. Ed è proprio la ragazza Elisabetta a essere investita del compito grave di madre vicaria. Tocca a lei badare alla conduzione della casa, alla gestione del denaro per le spese familiari, alla preparazioen del cibo. Ha un bisogno disperato di normalità, la ragazzina; nel contempo è costretta a gestire una situazione eccezionale: simulare per gli altri l'apparenza della normalità, necessaria alla sopravvivenza dell'intera famiglia. Lei ci riesce, con fatica, ma anche con coraggio. Investendo nel rituale della cucina, raccontando benissimo e con perizia nel corso della storia, il valore di un simbolo: faticosa, perché fitta di ambivalenze, eredità di una mamma molto amata. E però è convinta di sbagliare tutto, cerca rassicurazioni, capisce, al di là dell'appoggio delle amiche, di essere sola. Il papà bellissimo e corteggiatissimo, è affettuoso ma lontano, distratto in troppi pensieri. Severina ha la franchezza e la profondità sottotono di un grande scrittrice moderna quando racconta le tappe della sua vita, collegate a vecchie e nuove ombre e alle paure di tanti piccoli o grandi fallimneti. Si vergogna per anni del suo dolore, scambiandolo per debolezza; trova conforto nel grande mondo dei libri e però si sente una marziana quando confessa - candidamente, ma con un'intuizione profonda - di aver trovato 'tutto ciò di cui ha bisogno per vivere' nella Divina Commedia, salvo poi essere sbeffeggiata da un professore universitario perso in altre cose. Mentre, entrata con i suoi diciotto anni nell''età dell'onnipotenza', comincia a scontrarsi col disinganno delle prime delusioni d'amore: non piacere a chi ci piace, essere inseguiti da chi non potremmo mai amare ... Va da sé che il romanzo sia molto più ricco e complesso di quanto appaia da queste poche righe. E con un finale a sorpresa che vede Elsiabetta arrivata ai fatidici quarantatré anni, diventare più vecchia della sua mamma. Ma vorremmo ribadire la nostra convinzione che non siamo di fronte a una meteora." (da Giovanni Pacchiano, Madre, figlia e 43 ricette per crescere, "Il Sole 24 Ore Domenica", 24/02/'08)

Odifreddi: "Darwin quanti nemici"


"L'11 gennaio 1864, cinque anni dopo la pubblicazione di L'origine della specie, il professore di zoologia Filippo De Filippi tenne a Torino una famosa conferenza intitolata "L'uomo e le scimmie" che innescò anche in Italia l'isterismo antidarwinista già esploso in precedenza in Inghilterra. Un resoconto del 1884, fatto da Michele Lessona nel libro Naturalisti italiani, ricorda le reazioni dell'epoca: 'I giornali seri, come i faceti, si impadronirono dell'argomento. Quella enorme parte del pubblico che dice perché sente dire, grida perché sente gridare, urla perché sente urlare, fu tutta addosso al De Filippi. Certi colleghi rabbrividirono, altri inorridirono, vi fu chi gridò essere un'infamia che il Governo lasciasse un uomo così fatto stillar dalla cattedra le scellerate massime nell'anima degli studenti, e fu un coro a proclamare il De Filippi campione di materialismo'. Addirittura quando il credente De Filippi morì tre anni dopo a hong Kong, dopo aver ricevuto i sacramenti, due preti ringraziarono pubblicamente Dio dal pulpito a Torino per 'aver toccato il cuore ad un gran peccatore al momento della sua morte'. Il secondo atto della commedia andò in scena il 21 marzo 1869 quando il fisiologo russo Alessandro Herzen parlò a Firenze "Sulla parentela fra l'uomo e le scimmie", e il giornale "La Nazione" commentò sensatamente tre giorni dopo: 'Non comprendiamo come l'ammettere una legge anturale necessaria implichi la negazione della divinità'. Gli rispose il 4 aprile il senatore e abate Raffaello Lambruschini, spiegando dottamente che 'se la legge naturale è necessaria, allora Dio è schiavo', e aggiungendo dogmaticamente che 'la scienza è libera di investigare ma non di dare per verità affermazioni che distruggeranno verità di un altro ordine'. Al che Herzen ribatté che da tempo non si era udito nessuno 'esprimere così francamente la brama clericale dell'ignoranza obbligatoria del popolo'. Scese in campo quello stesso anno anche Niccolò Tommaseo, ormai vecchio, che nel pamphlet L'uomo e la scimmia credette di poter ovviare alla mancanza di argomenti profondi con spiritosaggini superficiali, quali 'V'annunzio una lieta novella. l'Italia, che da tanti secoli invocava l'aiuto straniero per ricuperare la propria dignità, ha finalmente trovato uno straniero magnanimo che gliela rende. Gliela rende però senza offesa dell'uguaglianza, mettendo gli italiani alla pari non solamente coi Russi e gli Ottentotti, ma con le scimmie. Questo si chiama sedere al banchetto delle nazioni davvero. La nuova libertà vi rivela, o Italiani, che voi non siete liberi, ma che non potete volere; vi rivela la vostra imbecillità durata per secoli, l'imbecillità di quelle scimmie trasformate che voi onoravate col titolo di uomini grandi'. A voler essere generosi si potrebbe scusare queste reazioni invocando l'attenuante che l'evoluzionismo era allora giovane e incompreso. Ma era ormai maturo e ben compreso quando nel 1939 Benedetto Croce se ne lamentò comunque nel saggio La natura come storia da noi scritta: 'non solo non vivifica l'intelletto, ma mortifica l'animo, il quale alla storia chiede la nobile visione delle lotte umane e nuovo alimento all'entusiasmo morale, e riceve invece l'immagine di fantastiche origini animalesche e meccaniche dell'umanità e con essa un senso di sconforto e di depressione e quasi di vergogna a trovarci noi discendenti da quegli antenati e sostanzialmente loro simili, nonostante le illusioni e le ipocrisie della civiltà, brutali come loro'. E' difficile invece trovare scuse di sorta per gli scienziati che, nell'Italia di oggi, continuano a prestarsi alla causa delle frange oscurantiste cattoliche e le fiancheggiano nella loro resistenza contro il darwinismo. Il biologo Giuseppe Sermonti, ad esempio, che nella sua battaglia per far Dimenticare Darwin (Rusconi, 1999) ha sostenuto che 'il confine tra il naturale e il soprannaturale è pura convenzione accademica', che 'la forma biologica ha origine da elementi che prescindono dai geni e dalla selezione', e addirittura che 'le scimmie derivano dall'uomo'! Leggere, per credere, l'articolo Dopo l'uomo la scimmia pubblicato nel 1988 sulla rivista "Abstracta": 'La teoria evoluzionista che fa discendere l'uomo dalla scimmia, ha confinato nel regno delle favole l'antropologia biblica che vuole l'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Eppure i dati delle più recenti ricerche della paleontologia e della biologia molecolare sembrano indicare la grande antichità dell'uomo e il carattere secondario e derivato degli scimmioni africani. Riacquistano così significato le antiche mitologie, nelle quali l'animalesco trae le sue origini dall'umano'. O il fisico Antonino Zichichi che nel suo libro Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo (Il Saggiatore) afferma che la teoria dell'evoluzione 'non è Scienza galileiana' perché non è espressa da un'equazione matematica, incurante del fatto che la legge di Hardy e Weinberg compia quest'anno cnet'anni. E aggiunge: 'L'evoluzione biologica della specie umana va distinta da tutte le altre forme di evoluzione biologica. E questo per un motivo semplice. Tra le innumerevoli forme di materia vivente noi siamo l'unica dotata di un privilegio straordinario: quello di sapere decifrare la Logica di colui che ha fatto il mondo'. O il medico Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell'Ospedale Padre Pio a San Giovanni Rotondo e presidente del comitato Scienza e Vita che ha condotto il riuscito boicottaggio del referendum per l'abolizione della Legge 40, che ha dichiarato il 23 novembre 2002 a "Il Tempo". 'Credo nella creazione divina anche se, coem genetista, accetto il processo dell'evoluzione che è del tutto fondato. Credo che con il progredire della scienza diventi sempre più possibile migliorare le nostre conoscenze, ma sono convinto che qualche anello mancante rimarrà sempre. detto altrimenti, rimarrà quell'aspetto magico che ci spinge ad amare la vita. Forse sono un po' troppo poeta, ma penso che il caos non può compiere cose tanto mirabili quanto quelle che vediamo ogni giorno. Credo invece in un disegno ordinatore'. Non può stupire che con consulenti ministeriali come Zichichi e Dallapiccola, il secondo governo Berlusconi abbia emanato il 18 febbraio 2004 un decreto legislativo che aboliva dai programmi ministeriali per le scuole medie le due voci 'Struttura, funzione ed evoluzione dei viventi' e 'Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana': cioè precisamente gli argomenti dei due capolavori di Darwin, L'origine della specie e L'origine dell'uomo. In seguito a uan reazione popolare guidata dai due premi Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco, il governo ha fatto apparentemente marcia indietro, ma non illudiamoci: soprattutto ora che Berlusconi è tornato in carica, i crociati e i crociani torneranno alla carica, fino a quando non riusciranno a crocifiggere la verità che tanto li inquieta." (da Piergiorgio Odifreddi, Darwin quanti nemici, "La Repubblica", 28/08/'08; dall'intervento di Odifreddi al Festival della Mente di Sarzana)

mercoledì 27 agosto 2008

L'enigma Montefeltro di Marcello Simonetta


"Due coalizioni, composta una da tre, l'altra da due parti, verrebbe da dire partiti, principali, si contendono l'egemonia in Italia. Ciascuno dei partiti è a sua volta dilaniato da risse ai coltelli avvelenati tra le componenti interne, da violentissimi scontri per la successione al leader del momento, anzi da complotti per eliminarlo, in modo da potergli succedere. L'ago della bilancia è rappresentato da potenti locali minori, alleati all'una o all'altra delle coalizioni. Capacissimi però di far finta di stare con gli uni e magari lavorare al tempo stesso per i nemici, passare con disinvoltura da una parte all'altra, o stare con tutte e due, o magari ripassare, dopo un doppio salto mortale, con la parte originaria. E' l'Italia alle soglie del 1500. Con le sue città-stato di cui ciascuna è governata, con diverse gradazioni di tirannia, da padroni che mirano a perpetuarsi in dinastia, ma si rivelano tutti più o meno instabili e esposti a un cambio di leadership, anzi veri e propri 'cambi di regime'. A Milano dominano gli Sforza, pronti a sbranarsi per la successione. A Firenze i Medici. A Napoli e nel resto del Sud gli Aragonesi. A Venezia e nel Nord-est un'oligarchia di ricchi e arzilli mercanti. A Roma comanda il Papa, espresso dalla famiglia nobile di turno. Mentre i Montefeltro di Urbino, i Malatesta di Rimini, gli Estensi di Ferrara, i Gonzaga di Mantova prestano di volta in volta i propri servizi diplomatici e soprattutto militari, da 'condottieri' al servizio del miglior offerente. Un'intensissima corrispondenza diplomatica privata tra i protagonisti rivela complotti, congiure, retroscena, ricatti, avvertimenti mafiosi, inciuci, progettati tradimenti e invenzione di nuove alleanze, persino pettegolezzi piccanti. E' a prova di intercettazione perché cifrata. Molte di queste carte, conservate negli archivi, erano rimaste illeggibili fino ai nostri giorni. Marcello Simonetta le ha decifrate, grazie anche all'aiuto di un suo lontano antenato, Cicco Simonetta, potente cancelliere degli Sforza. Per trascrivere il testo di quelle intercettazioni di oltre mezzo millennio fa, ha fatto ricorso alle sue Regule ad extrahendum litteras zifratas sine exemplo, un trattato per decifrare messaggi segreti utilizzando un modello matematico. Il risultato è un libro di storia, una ricerca seria e documentata che si legge però come un romanzo giallo: L'enigma Montefeltro, pubblicato da Rizzoli in elegante copertina, ma con una qualità delle illustrazioni interne che purtroppo lascia molto a desiderare. Peccato, perché una parte dell'enigma è decifrato con chiave pittorica, attraverso i simboli nascosti nei dipinti di Botticelli e del Perugino. 'Enigma' era il nome dell'inviolabile cifrario meccanico usato dai tedeschi nella Seconda guerra mondiale, sconfitto dal genio matematico Alan Turing. Il Montefeltro è il Duca di Urbino, Federico, uno dei protagonisti chiave dell'epoca. Era il figlio bastardo, poi legittimato di Guidantonio da Montefeltro. Lo soprannominavano 'Caino' perché si dava per scontato che avesse tirato le fila della congiura in cui era stato assassinato l'erede legittimo, suo fratello Oddantonio. Secondo la recente interpretazione di Bernd Roeck, la Flagellazione di Piero della Francesca sarebbe una denuncia in simboli, nemmeno tanto criptici per i contemporanei, forse commissionata da una delle sorelle della vittima. Federico di mestiere faceva il mercenario di eserciti. Li forniva al miglior offerente, come dire, 'chiavi in mano', per il tempo e con la dotazione richiesta. Aveva precise tariffe. Le sue tecniche di marketing includevano il passare per pacificatore e moderatore, anziché fomentatore di lucrose guerre. Agli inviati stranieri spiegava: 'Ho cercato con ogni mia industria che sia pace ed unione in Italia ... e non ci è stato rimedio: finaliter ognuno grida guerra guerra, or su facciamo guerra in nome di Dio, e Dio e ancora assai uomini da bene del mondo mi sono testimoni'. [...]" (da Siegmund Ginzberg, L'Italia delle congiure, "La Repubblica", 27/08/'08)

martedì 26 agosto 2008

Guarda come ti amo di Luis Leante


"Capita. Capita perfino che uno sconosciuto professore di latino in un liceo di provincia, estraneo ai grandi circuiti editoriali, autore di romanzi, racconti e poesie pubblicati da editori minori, si presenti senza troppe speranze a uno dei più prestigiosi premi letterari spagnoli, l'Alfaguara, assegnato da una giuria composta, tra gli altri, da Mario Vargas Llosa, Santiago Gamboa e Mercedes Monmany, e lo vinca, sbaragliando la concorrenza di altri 573 romanzi inediti. E così Luis Leante, quarantacinquenne professore murciano, si è ritrovato sotto i riflettori 'come un pugile messo a knockout' e ha dovuto chiedere l'aspettativa per intraprendere i due mesi di tour promozionale in Spagna e in America latina previsti per il vincitore. E' stato lo stesso Leante a riassumere, durante la cerimonia di premiazione, la trama del suo romanzo: 'E' la vita di una donna di cinquant'anni che soffre di una crisi di identità a causa del divorzio dal marito e della morte in un incidente automobilistico della figlia diciannovenne. Per un caso, trova la foto di un fidanzato dell'adolescenza che credeva morto. Decide allora di appurare cosa gli sia accaduto. Questa decisione la conduce nel Sahara occidentale, nei campi dei rifugiati Saharauni. Allo stesso tempo, il libro racconta la loro storia d'amore nella Barcellona del 1975, la differenza di classe sociale e la fuga di Santiago, il ragazzo, che si arruola nella legione e viene spedito nel Sahara, dove lo coglie la Marcha Verde, l'invasione del Marocco dell'allora provincia spagnola, e la ribellione del Fronte Polisario'. [...] Più che per lo stile, abbastanza tradizionale ma con un fascinoso gusto d'antan, il libro si fa ricordare soprattutto per la sua abilità architettonica, per la capacità di Leante di andare e venire nel tempo e nei luoghi, di cambiare insomma data e scenario, fornendo al lettore con il contagocce, grazie a questo andirivieni nel tempo, gli elementi che gli serviranno a mettere insieme i pezzi del puzzle. Ma non bisogna dimenticare nemmeno, come ha sottolineato la giuria del premio Alfaguara, 'la forza espressiva con cui vengono descritti i paesaggi e la vita dell'ultima colonia spagnola in Africa, trasformati in scenario di una storia d'amore che marca la vita dei protagonisti'." (da Bruno Arpaia, Amore nel deserto, "Il Sole 24 Ore Domenica", 24/08/'08)

Diagram Prize - How to Avoid Huge Ships


"Tutto è cominciato a una Buchmesse di Francoforte, giusto trent'anni fa. Travolti dal diluvio di libri (e annoiati dalle trattative commerciali), un gruppo di simpatici librai, giornalisti, agenti e editori si sono messi a scandagliare gli stand alla ricerca del titolo più brutto. Il Diagram Prize è il più bizzarro dei premi legati al libro: ne celebra, infatti, l'orrore, a partire da ciò che non si può proprio sbagliare. Lo ha guidato in tutti questi anni Horace Bent e il prossimo 5 settembre un sondaggio online tra i lettori di "The Bookseller" eleggerà il 'miglior peggior titolo' di questi trent'anni. L'8 settembre poi Aurum Press pubblicherà la raccolta dei titoli vincitori con le copertine originali e degli altri finalisti. Si intitolerà - e dà subito il tono di questi sublimi obbrobri - come il trionfatore dell'edizione 1992: How to Avoid Huge Ships ('come evitare le navi enormi'). Purtroppo la traduzione italiana non rende bene, ma chi mastica l'inglese capirà subito che siamo di fronte a dei capolavori di umorismo involontario. Seleziono tra i più semplici: il 'sempreverde' Oral Sadism and the vegetarian Personality (vincitore nel 1986), Reusing Old Graves (1995), People Who don't Know They're Dead(2005), l'enigmatico Versailles. The View from Sweden (1988, a occhio un po' problematica). C'è l'immancabile filone sessuale: si va da un necessario Lesbian sadomasochism Safety Manual (1990) a un Living with Crazy Buttocks ('vivere con natiche pazze'), vincitore nel 2002, seguito l'anno dopo dal Big Book of Lesbian Horse Stories. Come non avere i momenti salienti nella storia del calcestruzzo, Highlights in the History of Concrete (1994)? Altri vorranno sapere tutto dal Book of marmalade: its Antecedents, its History and its Role in the World Today (1984), mentre per restare al mondo che non è più quello di una volta, è indispensabile Weeds in a Changing World ('erbacce in un mondo che cambia'). L'ultimo vincitore, sul filo di lana, è stato If You Want Closure in your Relationships, Start with your Legs che ha battuto il più sottile Cheese Problems Solved (qui il gioco di parole è tra cheese=formaggio e chess=scacchi) e lo strepitoso I Was Tortured by the Pygmy Love Queen. Ma il più 'spiazzante' resta il vincitore del 1989: How to Shit in the Woods. An environmentally Sound Approach to a Lost Art. C'è chi lo vorrebbe però togliere dalla competizione: i protestatari lamentano infatti, che si tratta sì di un'arte, ma nient'affatto perduta!" (da Stefano Salis, Come evitare le navi enormi, "Il Sole 24 Ore Domenica", 24/08/'08)

La rabbia di Pier Paolo Pasolini


"La visione di La rabbia, il film-saggio di Pier Paolo Pasolini finalmente ricomposto da Giuseppe Bertolucci, con la Cineteca di Bologna che presiede, nella versione pensata dall'autore, senza l'insensata aggiunta di Giovanni Guareschi, solleva un dubbio terribile. O Pasolini era davvero un profeta oppure l'Italia è tornata indietro di mezzo secolo, ai peggiori anni Cinquanta, tempi gretti, reazionari, impauriti. Nel dubbio che siano vere entrambe le ipotesi, scegliamo per carità di patria la migliore. Pasolini ha capito per primo e più a fondo di chiunque altro la mutazione antropologica del popolo italiano all'impatto con una modernità feroce, che l'avrebbe riconsegnato a un fascismo sotto nuove forme. Per usare una formula che rimbalza in queste settimane da "Famiglia cristiana" ai vertici della magistratura. Il film è modernissimo nella forma, d'avanguardia per l'epoca. Sul materiale assai grezzo dei cinegiornali, Pasolini sovrappone un'orazione civile composta di sue poesie e prose affidate alle voci di Giorgio Bassani e Renato Guttuso. Senza altro filtro narrativo che non sia una viscerale, acutissima visione dei conflitti sociali, l'opera viaggia dai funerali di Alcide De Gasperi alla morte di Marilyn Monroe, dalla rivoluzione cubana alla guerra di Corea all'indipendenza dell'Algeria. Ma la parte più sorprendente è certo quella dedicata 'al mio paese, che si chiama Italia'. Il film doveva uscire nelle sale all'inizio del '63, dopo Accattone e Mamma Roma, ma il produttore Gastone Ferranti si spaventò, convinse l'autore a tagliarlo e volle a tutti i costi affidare una seconda parte 'vista da destra' a Guareschi, il quale diede nell'occasione il peggio del proprio qualunquismo. Così snaturata, l'opera fu rinnegata da Pasolini e ritirata dopo pochi giorni, per rimanere nel buio quarantacinque anni. Ora torna nella versione concepita dal poeta, grazie al lavoro di recupero e rimontaggio di Giuseppe Bertolucci, su un'idea di Tatti Sanguineti. La rabbia sarà presentata alla Mostra di Venezia il 28 agosto e sarà distribuita nei cinema dall'Istituto Luce dal 5 settembre. Per capire quanto sia attuale basta forse citare una piccola antologia dei testi. L'Europa: 'Le piccole borghesie fasciste sono pronte all'unità d'Europa in nome della comune aridità. Le guerre in Medio Oriente: 'In questi deserti comincia la nostra preistoria'. Le giustificazioni della guerra: 'Se comincia la guerra di chi è la colpa? Dei peccati della povera gente, naturalmente. Dio punisce le Sodome di stracci, le Gomorre della miseria'. I coreani all'epoca, oggi gli irakeni, gli afghani, i curdi, i popoli africani: 'Eravate milioni di uomini come noi e per conoscervi abbiamo dovuto sapervi in guerra'. Il nuovo Papa: 'Ci saranno fumate bianche per papi figli di contadini del Ghana e dell'Uganda? Per papi figli di braccianti indiani morti di peste nel Gange, per papi figli di pescatori gialli morti di freddo nella Terra del fuoco?'. La politica sull'immigrazione: 'Dobbiamo accettare distese infinite di vite reali che vogliono con innocente ferocia entrare nella nostra realtà'. Bush, Berlusconi, Putin, eccetera: 'La classe padrona della ricchezza, giunta a tanta dimestichezza con la ricchezza da confondere la natura con la ricchezza. Così perduta nel mondo della ricchezza da confondere la storia con la ricchezza. Così addolcita dalla ricchezza da riferire a Dio l'idea della ricchezza'. Si potrebbe continuare a lungo, ma almeno fino alla televisione, appena apparsa sulla scena. Quando lo speaker del cinegiornale annuncia trionfante che presto gli abbonati saranno 'decine di migliaia', Pasolini lo corregge: 'No. Saranno milioni. Milioni di candidati alla morte dell'anima. Il nuovo mezzo è stato 'inventato per la diffusione della menzogna'. 'E' la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti'. La voce di Pasolini è viva, attuale e urticante oggi come nel '63. Gli eccessi di uomo mite non gli sono stati mai perdonati, neppure dopo la fine straziante. Lui stesso ne era consapevole: 'Dice Saba che ci sono animali che non fanno pena neppure quando vengono mangiati, perché volevano essere mangiati. Forse sono uno di questi animali'. Bertolucci aggiunge nel finale alcuni esempi di linciaggio cui Pasolini fu sottoposto per tutta l'esistenza, da ogni parte. Si trova sempre 'nel paese chiamato Italia' un buon compromesso bipartisan per annientare le voci critiche. Quello che s'è perso per sempre da La rabbia ai nostri giorni non sono le parole, ma le immagini, anzi: le facce. I volti di quel popolo, testimonianza vivente e stupenda di un retaggio millenario. I ragazzi di vita delle borgate romane vivono ma non sono come i ragazzi di Scampia filmati da Garrone in Gomorra. Più poveri e meno miserabili, avevano facce e corpi prodotti della storia, questi facce da cronaca, corpi creati in palestra, indistinguibili da quelli dei borghesi di successo, dagli attori delle telenovelas, dai calciatori e dalle veline. La rivoluzione antropologica ha funzionato come una pulizia etnica, cancellando i tratti di un'antica civiltà, di un'immensa bellezza. Negli anni di La rabbia un altro solitario, Ennio Flaiano, annotava nel diario notturno: 'Fra trent'anni l'Italia non sarà come l'avranno fatta i governi, i partiti o i sindaci, sarà come l'avrà fatta la televisione'." (da Curzio Maltese, Il film-profezia di Pasolini così nel '63 raccontò l'Italia di oggi, "la Repubblica", 24/08/'08)

Lettere al dottor G di Alda Merini


"Prima che si concluda questo amore
lasci che io ringrazi il mio destino
per il bene assoluto che m'ha dato,
per la fame dei sensi, per l'arsura
che mi ha preso alla gola [...]"




"Per Alda Merini fu il tempo della segregazione e della morte civile, quello che non lascia spazio al futuro e ti trascina in un luogo indicibile. Gli anni Sessanta e Settanta furono per la poetessa che tutti ammiriamo, il tempo senza pace e della confusione mentale. Alda aveva trentaquattro anni quando entrò per la prima volta in manicomio. Giunse all'Istituto Paolo Pini di Affori con una depressione acuta da postparto e il caos nella testa. Vi arrivò furiosa come una erinni. La donna che aveva incantato Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo varcò la linea che separa i vivi dai morti. Quel passaggio ha lasciato delle tracce importanti e ora viene riportato alla luce grazie alle lettere e ad alcune peosie che furono scritte dalla Merini e indirizzate al dottor Enzo Gabrici, lo psichiatra che la ebbe in cura. Nelle lettere Gabrici è il dottor G, al quale la paziente Merini si rivolge a volte con lucidità, altre ancora con passione. Al centro della scena non c'è solo il poeta, ma anche l'ammalata che racconta i propri sogni, che si interroga sugli psicofarmaci, che implora attenzione al proprio dolore. Più che reclusa, Alda sembra una donna invisibile che chiede al dottor G di restituirle un corpo e un'anima. [...] Alda Merini: dell'amore, della morte. Sono i due poli dentro cui oscilla la sua poesia. Dice. 'Il manicomio, il luogo più esterno alla vita, non era solo fatto di pastiglie ed elettroshock, ma di amore. Un sentimento che indirizzavo sulle cose più smeplici, sui gesti più elementari. Se uscivo, come a volte accadeva, gli altri matti mi chiedevano di comprargli le sigarette, il vino, la cioccolata. E se mi riusciva di farlo, sentivo che il legame affettivo che la follia a volte crea tra le persone è più forte di quello che ci procura la normalità. Quanto alla morte, a lungo mi ha sfiorata, ho convissuto con la sua assenza, con il timore che si affacciasse e dovessi affrontarla. La morte è stata per me uno strano corpo a corpo, vicina e remota al tempo stesso'. [...] Cos'è il dolore per una persona con la sensibilità di un poeta? 'La poesia è la forma di intelligenza più prossima al dolore. Ma da dove scaturisce? Se perdi un figlio il dolore è una voragine, ma alla fine anche alle voragini ci si può abituare. Mentre il dolore della malattia mentale è qualcosa che ti urla dentro e non riesce a uscire. Il dolore che ti avvolge in manicomio a volte è solo un pretesto per una condanna più grande, una calunnia del destino, o forse un castigo di Dio. Sono convinta che dal dolore possa nascere una grande passione per l'Aldilà. Si vorrebbe morire, però al tempo stesso si ha la speranza di vivere'. [...] Sul successo Alda ride con voce roca e lenta e poi aggiunge. 'Il successo è come l'acqua di Lourdes, un miracolo. La gente applaude, osanna e ti chiedi: ma cosa ho fatto per meritare questo? Penso che la folla, anche piccola, che ti ama ti aiuta a vivere. In fondo un poeta ha anche qualcosa di istrionico e folle. Per questo il manicomio è stato per me il grande poema di amore e di morte. Ma anche questo luogo oggi è distante. Mi capita a volte di rivederlo in sogno. Io sogno tantissimo. E tra i sogni ne ricorre uno: sono dentro a un luogo chiuso, e io che cerco le chiavi per uscire. Forse sono mentalmente ancora in quel luogo che mi ha ucciso e mi ha fatto rinascere. Mi sento una donna che desidera ancora. Oggi per esempio vorrei che qualcuno mi andasse a comprare le sigarette. Non ho mai smesso di fumare, né di sperare." (da Antonio Gnoli, Alda Merini. Lettere dalla follia, "La Repubblica", 24/08/'08)

lunedì 25 agosto 2008

Eva Cantarella


"Le vacanze cominciano quando partono per la costiera amalfitana anche i gatti, per starci (gatti e padroni) tutta l'estate. Ogni anno Eva Cantarella riapre per la stagione la casa di famiglia a Raito, sulla costiera amalfitana. Valigie, zaini, gabbiette, ma non più i bauli di una volta, e file digitali invece delle pile di libri che prima si trascinava dietro, fra giugno e settembre, per non smettere mai di divertirsi, cioè di lavorare. Ancien régime remix: cioè il lusso ormai desueto di una lunghissima assenza dalla città, ma senza i rituali e gli orpelli complicanti delle transumanze estive del passato. Famiglia in versione light, abitudini light, persino biblioteca light al seguito. E la leggerezza delle giornate lascia l'agio di entusiasmarsi di tutto, del pesce variopinto visto fra gli scogli al mattino come del libro, compulsato al pomeriggio, di chissà quale prestigioso professore di Yale o di Cambridge. E se invece, Eva Cantarella, lei fosse stata un'antica greca o un'antica romana, che vacanze avrebbe fatto? 'Meglio romana, le donne erano infinitamente meno discriminate che nella Grecia classica. Anche allora contava la fortuna di nascere nel posto giusto, in senso sia geografico sia sociale. Una ricca signora greca sarebbe rimasta chiusa in casa, mentre una ricca romana sarebbe andata in vacanza nella sua villa di Capua, o Napoli, o Pompei, insomma da queste parti. Avrebbe letto molto, e magari studiato con il pedagogo, insieme ai fratelli, letteratura, retorica, e anche diritto. Come me'. E gli antichi gatti? Al seguito? 'Sappiamo del passero di Lesbia, ma non risulta che i gatti fossero pets nell'antichità. Forse avrei lanciato io la moda'. La sua antenata negli ozii campani avrebbe fatto bagni, chiacchierato, scritto? 'Magari anche poesie, ma io neanche allora ne sarei stata capace'. Altri, mi scusi, svaghi intelligenti che le sono preclusi? 'La musica. Sono stonata, non la conosco, non la capisco'. Non che le manchi il daffare, durante l'estate. 'La vacanza-vacanza mi annoia, faccio vacanze lunghissime ma sempre lavorando. Adesso, con il computer portatile, posso leggere e scrivere quasi ovunque, e quasi in ogni momento'. Prima di Internet e del digitale, voi accademici dovevate rimanere nei paraggi delel biblioteche. 'Ora invece le fonti greche e romane si trovano in rete. Così, quest'estate potrò scrivere da qui, dalla costiera amalfitana, sia saggi per companions universitari, sia libri miei'. Il suo ultimo libro è Ritorno della vendetta. Pena di morte: giustizia o assassinio?, il penultimo era L'amore è un dio - sottotitolo Sex and the polis. Sta proseguendo su entrambe le piste, quella del racconto della classicità, e quella dell'analisi giuridica e politica? 'Voglio scrivere ancora sul problema della trasformazione, o anzi riconcettualizzazione, della pena. In tutto il mondo occidentale, Italia inclusa, è entrata in crisi la funzione educativa e deterrente della pena, mentre torna la sua funzione retributiva: il concetto di pena si confonde con quello di vendetta, non si guarda al futuro ma indietro, all'occhio per occhio. Negli Stati Uniti in alcuni processi per omicidio o per stupro vengono chiamati a testimoniare i parenti delle vittime, irrompe nel giudizio l'elemento emotivo. E che nelle sentenze debbano valere anche le emozioni, e non soltanto la razionalità, viene oggi ampiamente teorizzato. È preoccupante. Per questo leggo e rileggo l'Orestea, dove invece finalmente il mondo della vendetta scompare e arriva la giustizia'. Corsi e ricorsi. Le emozioni vanno di moda. Anche in politica: dalla paura all'invidia sociale, all'identità come arma contro i diversi. Le emozioni sono rapide, efficaci, manipolabili. 'Io non mi occupo dei media. Ma dei media dell'antichità sì. Omero faceva quello che fa la tivù oggi: diffondeva modelli di comportamento'. Sono sempre impietosi, i paragoni fra passato e presente? 'Io sono felice di essere vissuta adesso e non allora. Impossibile rimpiangere la condizione femminile, o quella omosessuale, nella classicità. Impossibile non apprezzare il nostro maggiore accesso alla cultura, alla salute, ai viaggi. Andrei volentieri ad Atene o a Roma, ma per un giorno o due, non di più'. Qualche soggiorno nel passato deve averlo compiuto, vista la vivezza con la quale ha raccontato la vita amorosa e familiare nell'antica Grecia. 'Sto cominciando il seguito di L’amore è un dio, parlando stavolta di Roma. Ma non è facile evitare la volgarità. I romani erano grevi, il machismo è nato lì, lì la sessualità del forte che sottomette. C'era esaltazione retorica della moglie e della matrona, c'erano anche molte concessioni e libertà, ma la sostanza del maschio romano era quella. Grande intelligenza politica, nel lasciare spazio alle donne purché entro regole e ambiti rigidissimi: non era facile ribellarsi. Questo è il nostro passato prossimo, i rapporti fra i sessi derivano per noi dai romani piuttosto che dai greci'. Lettura e scrittura sono per lei collegate, ma qualche libro che non ha nulla a che fare con le sue ricerche le passerà pure per le mani. 'Sul comodino ne ho una pila. Attualmente Il corruttore di Ugo Barbàra, The House of Mirth di Edith Wharton che è una frequente rilettura, Risse da stadio nella Bisanzio di Giustiniano di Sigmund Ginzberg ...'. La sua estate si conclude a Sarzana, dove aprirà il Festival della Mente parlando di Ulisse, e della sua conquista dell'autodeterminazione: "Scelgo dunque sono", questo il titolo del suo intervento. Lei ha scelto un'estate stanziale e operosa, dunque è ...? 'Ma no, la casa in costiera è la base, ma ho anche fatto un lungo viaggio e diverse puntatine qua e là per l'Italia'. E i gatti, quando lei è via? 'Rimangono al mare, ben accuditi'." (da Giovanna Zucconi, In spiaggia c'è Omero, "TuttoLibri", "La Stampa", 23/08/'08)

La storia dei Britanni narrata da Beda nel secolo VIII


"Non è un'edizione critica, di quelle cioè che tengono conto di tutti i manoscritti confrontando le varianti una per una, perché sarebbe un lavoro titanico: l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda fu una delle opere più popolari del Medioevo, e ne rimangono più di centosessanta codici. Ma è comunque una decisione felice quella della Mondadori e della Fondazione Lorenzo Valla, di pubblicare nella bella collana dei classici la più importante opera del grande monaco inglese (e sia lode anche alle fondazioni bancarie che, di questi tempi, hanno saputo sostenere finanziariamente l'impresa). Edita da Michael Lapidge sulla base dei sei manoscritti più antichi e con uno sforzo costato vent'anni di lavoro, accompagnata da un saggio introduttivo che da solo è vasto quanto un libro, e godibile anche nella traduzione d'un filologo come Paolo Chiesa, l'opera a dire il vero non è affatto una Storia degli inglesi come recita il frontespizio in omaggio a un gusto modernizzante. Beda non vuol essere uno storico generalista, ma uno specialista che studia la storia del Cristianesimo e della Chiesa, e non è colpa di chissà quale ottusità medievale se nel suo libro si incontrano solo marginalmente le vicende dell'invasione anglosassone della Britannia e le successive imprese politiche e militari dei re, mentre al centro di tutto sono le attività dei missionari e poi dei vescovi, e il loro costante rapporto con Roma. Proprio questo rapporto, fecondissimo sul piano organizzativo come nell'orizzonte culturale, costituisce il vero asse portante dell'Historia ecclesiastica. E questo potrebbe anche sorprenderci: dopo tutto, la Britannia era un'isola lontana, sperduta tra le nebbie d'un Nord leggendario e i pericoli dell'Oceano. I suoi abitanti, insieme a quelli dell'ancor più lontana Islanda, sono i soli che nell'Alto Medioevo si siano ingegnati (peraltro con ottimi risultati!) di creare una vasta letteratura nella loro lingua germanica, il che può far pensare a una scarsa familiarità col latino e a un'irrimediabile separazione dal mondo mediterraneo. In realtà non è così e Beda, che passò tutta la vita nei due monasteri gemelli di Wearmouth e Jarrow, nell'estremo Nord dell'Inghilterra, oltre a scrivere un ottimo latino secondo le convenzioni della sua epoca mantiene con Roma un interscambio vitale, al punto di inserire nella sua opera un opuscolo e diverse lettere di papa Gregorio Magno, che un amico ha trascritto per lui negli archivi della Chiesa romana. Tutto questo potrebbe stupire chi pensa alla Roma di quell'epoca (Beda muore nel 735, pochi anni prima della nascita di Carlo Magno) come a un relitto alla deriva, dopo l'immenso naufragio delle invasioni barbariche. Roma, ci dicono con compatimento gli specialisti della sua storia, aveva appena 50.000 abitanti, quando sotto Augusto ne ospitava un milione! Sia pure: ma una città di cinquantamila abitanti, in quel mondo completamente ruralizzato, era ancora un gigante, oggetto di meraviglia per i pellegrini che continuavano a spingersi fin lì da tutta la Cristianità. Era un centro culturale dove gli abati dei monasteri inglesi andavano a comprare libri, riportandone in patria interi carri. Ed era una città sospesa fra due mondi: se la sua influenza religiosa era sensibile quasi soltanto in Occidente, Roma apparteneva però ancora all'impero d'Oriente, era spesso governata da papi greci o siriani, e ospitava un clero multietnico, depositario di complesse tradizioni. Proprio due esponenti di quel clero colto ed esotico vennero mandati dal Papa in Britannia, negli anni in cui nasceva Beda, per riorganizzare quella chiesa di frontiera: un greco di Roma, Teodoro, del monastero di Sant'Anastasio, e un greco d'Africa, Adriano, fuggito dalla Libia davanti all'invasione araba, e divenuto abate del monastero di Nisida presso Napoli prima di ripartire per dirigere una scuola a Canterbury. Itinerari straordinari che aiutano a capire la sopravvivenza d'un nucleo vivo di cultura classica anche in quelli che gli storici d'Oltremanica continuano per abitudine a chiamare Dark Ages, secoli bui. Ma è dall'esperienza di vita della sua gens, i crudeli invasori anglosassoni solo da poco cristianizzati, che Beda trae la più famosa delle sue immagini. Quando il re Edwin discuteva coi suoi capi se convertirsi alla nuova religione, uno di loro disse: 'la vita dell'uomo sulla terra mi fa pensare al volo d'un passero, che in una notte d'inverno entra nella sala dove tu e i tuoi guerrieri cenate intorno al fuoco, l'attraversa per un istante al riparo dalla tormenta, e poi esce dall'altra parte e scompare di nuovo nell'ignoto'. L'angoscia del buio da cui veniamo e dove ritorneremo la provavano anche i barbari, e non bastavano a scacciarla i fuochi accesi e i fiumi d'idromele, nelle grandi sale di legno dalle finestre senza vetri: la tradizione classica e cristiana del Mediterraneo offrì loro una risposta, e proprio da quell'incontro nacque il nostro Medioevo." (da Alessandro Barbero, Per il monaco tra le nebbie il faro è Roma, "TuttoLibri", "La Stampa2, 23/08/'08)
Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Bede, Boniface, Robert Hussey (da GoogleBooks)

Il bibliotecario di Larry Beinhart


"Di foschi complotti presidenziali per la conquista della Casa Bianca è piena la letteratura di genere. Ma la parabola fantapolitica di Larry Beinhart possiede una leggerezza, un’eleganza e un afflato ironico che vanno al di là dei canoni consueti e melodrammatici del thriller. E si fa leggiadre beffe dei meccanismi inquietanti della destra repubblicana - Dio, patria e denaro - che sente il potere come missione bianca per il governo del mondo civile contro gli attentati atei dei liberal debosciati e pauperisti. Il Bibliotecario (Giunti, traduzione di Giorgio Bizzi) è infatti un inno alla mitezza e alla lievità della cultura che sa trovare in sé coraggio e risorse intellettuali capaci di contrastare persino piani che non si arrestano nemmeno davanti all’omicidio più efferato pur di arrivare ai bottoni della Stanza Ovale. A disputarsela sono il super conservatore Presidente uscente Scott e la democratica Anne Lynn Murphy, passato di infermiera in Vietnam e volto televisivo di media fama, sopravvissuta per caso a un attentato aereo che ha eliminato i due candidati che la precedevano nella nomination del partito. A cercare di renderla inoffensiva sono i fondi senza fondo del grande elettore repubblicano Alan Carston Stowe, uomo tanto ricco quanto rozzo. Ha però una debolezza: il desiderio poetico di passare alla storia con la costruzione di una biblioteca che, in mancanza di eredi, possa lasciare memoria di sé. Per questo sceglie David Goldberg, ma mal gliene incoglie. Perché i suoi accoliti temono che tra le carte da mettere in ordine, il bibliotecario possa trovare gli estremi dal sanguinoso complotto che sta per essere messo in atto. E così parte la caccia: morte, fuga, amore e sorrisi gli faranno così da nuovi fedeli compagni." (da Piero Soria, Il bibliotecario non è sempre un uomo mite, "TuttoLibri", "La Stampa", 23/08/'08)

sabato 23 agosto 2008

L'eleganza è frigida di Goffredo Parise


"Nel pubblicare la seconda raccolta dei Sillabari, i suoi mirabili racconti che narravano i sentimenti umani in ordine alfabetico, Parise dichiarava all'inizio del volume che, giunto alla lettera S, la poesia lo aveva abbandonato ed era stato costretto a fermarsi, rinunciando ad arrivare alla Z. 'La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti'. Quest'avvertenza, spesso citata, è famosa come uno dei pochi esempi in cui uno scrittore del Novecento dichiari apertamente la propria dipendenza dall'ispirazione poetica, attribuendole l'arbitrio di una rivelazione o una grazia divina. Questo incanto fuggitivo che Parise temeva di avere irrimediabilmente perduto, riaffiora ne L'eleganza è frigida, una raccolta di reportage dal Giappone che ora Adelphi ripropone nella Piccola Biblioteca. Se pensiamo che il primo degli attuali capitoli fu pubblicato sul "Corriere della Sera" nel gennaio del 1981, a un anno esatto dall'apparizione sullo stesso giornale dell'ultimo racconto dei Sillabari, capiamo che la poesia non era morta in Parise, ma soltanto trasmigrata in nuove forme altrettanto felici. Poemetti in prosa anche questi articoli, ma pure cronache di viaggio o, per usare una definizione di Kawabata, 'racconti in palmo di mano'. Parise che aveva realizzato diversi reportage in Asia e altre regioni del mondo, era certamente consapevole dell'importanza di quella zona intermedia fra cronaca giornalistica e romanzo in cui uno scrittore - basti pensare a Capote - può conquistare nuovi spazi espressivi. Nei suoi articoli dal Giappone scelse di spostare il proprio punto di vista - quel punto di vista così legato alla sua persona, e intriso di un io originale e idiosincratico - su un osservatore 'neutrale' a cui diede il nome di Marco, e di usare la terza persona. Perché? In parte per raffreddare la materia emotiva stabilendo una distanza, come si conviene a un libro che è anche un trattato estetico sull'algida eleganza del Giappone. Ma la ragione più profonda è che quel terrain vague fra reportage e romanzo, Parise voleva comunque annetterlo alla propria dimensione più vera, quella di narratore. Nonostante l'impegno del reporter sia avvertibile nella coscienza scelta di temi e luoghi adatti alle pagine di un quotidiano, grazie all'invenzione di Marco, Parise può tradurre la realtà nei termini romanzeschi e poetici che più gli si addicono. Disancorata dal peso dell'io, la visione si solleva leggera e l'immaginazione fluttua, libera e chiaroveggente, attraverso i muri di barriere culturali e linguistiche. Parise guarda tutto, capisce qualcosa e intuisce moltissimo. E ciò che racconta, come nei grandi libri di viaggio, illumina allo stesso modo il paese visitato e quello d'origine. Sì, attraverso il Giappone, Parise racconta indirettamente l'Italia. Il richiamo alla patria, chiamata 'il paese della Politica' è come un controcanto doloroso che percorre tutto il libro. Molte delle carenze ataviche del nostro Paese acquistano risalto dal confronto con il Giappone. [...] Parise torna più volte sull'idea di una frazione rapidissima, fulminea di tempo, come quando cita lo haiku più famoso della poesia giapponese: 'Nel vecchio stagno / una rana si tuffa / il rumore dell'acqua'. Lo haiku sembra prendere vita proprio mentre Marco ha il libro aperto sulla pagina che lo contiene: davanti a lui una piccolissima rana di smeraldo si tuffa nell'acqua rompendo il silenzio per un unico prezioso istante. Con la stessa velocità si consumano gesti che hanno dietro una lunga, paziente preparazione: un colpo di spada, una mossa di karate, la scrittura di un ideogramma. Parise associa questa rapidità allo zen che egli, dichiarando di non conoscere, credeva di intravedere in molte cose, spirito elusivo e chiave di una felicità inebriante, del tutto estranea al mondo delle teorie e delle analisi. Ecco, Parise sentiva che la civiltà giapponese, più di ogni altra, era refrattaria all'analisi e si prestava solo 'a una serie pressoché infinita di elettroshock' come scrisse in una (quasi) stroncatura di L'Impero dei segni di Roland Barthes. Parise attribuiva a questi piccoli shock il nome di satori che definisce l'illuminazione secondo il pensiero zen. Ma leggendo il suo libro giapponese si ha la sensazione che le piccole scosse da cui esso è attraversato, più che allo zen appartengano al vissuto dello scrittore: piccoli proiettili di gioia estatica che lo colpiscono dritto al cuore di una natura profondamente malinconica, sconvolgendo il suo mondo e rinnovandolo." (da Giorgio Amitrano, Parise, cronache dal Giappone, "La Repubblica", 23/08/'08)

Aharon Appelfeld: 'Ho capito Dio ascoltando Bach'


"Sono nato in una famiglia ebrea, anche se atea e razionalista. Nelal nostra casa non c'era nulla di ebreo perché i miei genitori si consideravano europei e il tedesco fu la mia lingua fin dall'età di otto anni. A volte chiedevo 'chi è Dio?' e mi rispondevano 'la natura'. Vedendo i miei nonni pregare di sabato, però, insistevo nel chiedere perché lo facessero e se stessero pregando la natura, ma per i miei genitori era solo una routine. Il fatto che avessero perso la fede dei propri genitori mi portava una sensazione molto dolorosa. Avevano abbandonato la fede dell'ebraismo ed erano sicuri, certi, di essere europei. Purtroppo gli europei non li accettarono come 'europei' e i tedeschi come 'tedeschi' e si ritrovarono così sradicati. Ancora bambino venni diviso da mio padre; mia madre era già stata uccisa e dovetti fuggire ritrovandomi solo e senza alcun tipo di istruzione. Vivendo nei boschi imparai a mangiare tutto ciò che offriva la natura e un giorno, durante un terribile inverno, venni adottato da un gruppo di criminali ucraini. Un russo o un ucraino decente non avrebbero mai accettato un bambino di dubbia origine, quindi entrai in questa banda: la mia seconda scuola che mi riservò una lezione molto lunga. Come le altre bande avevano bisogno di cani e di bambini e mi ritrovai, a volte, a dover fare entrambe le cose. Potevano essere terribili, ma anche delle barve persone e con loro guadagnai gli strumenti che mi permisero di capire gli esseri umani. Il destino, che mi avrebbe portato verso la scrittura, mi permetteva di vedere il bene, il male, la generosità, l'odio, la brutalità e tutti i sensi dell'essere umano. I bambini, pur senza avere tutta una serie di nozioni, riescono a cogliere il lato arcaico, mitologico della vita, ciò che l'uomo maturo non coglie più. Sono creature 'religiose'. Non si può essere artisti senza l'ingenuità del bambino, all'arte infatti viene richiesta una profondità mitologica primaria, il resto è accessorio, conseguente. La mia scrittura deriva da ciò che ho visto da bambino e la gran parte dei miei personaggi ha un legame con il divino, anche se talvolta inconsapevole. Mentre stavo con quei criminali portavo dentro di me un segreto: il fatto che fossi ebreo e circonciso. Se si fosse saputo sarei morto, per questo era un segreto terribile e dolce allo stesso tempo, pensavo: 'Che bello, sono ebreo: sono una persona speciale e loro non lo sanno'. Arrivai in seguito in Italia, la mia prima 'terra promessa'. Mi ritrovai vicino a Napoli con molti altri profughi in un Paese pieno di sole, con un bellissimo mare e un popolo meraviglioso. Per questo anche se vi rimasi solo tre mesi, in tutti i miei romanzi è possibile ritrovare un pezzettino d'Italia. Ero solo, insieme a tanti altri bambini profughi e persone senza volto e, ancor più importante, senza una meta e un fine. In questo stato giunsi in Israele. [...] La mia esperienza dell'Olocausto non è stata né laica né razionale, ma impossibile da spiegare. Non c'è una risposta razionale all'odio sperimentato nei confronti degli ebrei, ha qualocsa di irrazionale. 'Chi siamo per essere odiati così?' è la domanda che ancora mi tortura e che non può essere affrontata con gli strumenti della psicologia, della sociologia o della politica. L'essere ebreo per me rappresenta tuttora un grande mistero. Mi ci vollero molti anni per identificarmi con la sofferenza degli ebrei, con l'apprendimento, con le lezioni degli ebrei. Martin Buber, mio maestro all'università, Gershom Sholem, Hugo Bergmann, erano come me, profughi che provenivano dalle università europee e che si erano stabiliti in Israele. Buber mi ha regalato le chiavi per capire la Bibbia e il chassidim, Sholem mi ha dato le categorie per capire la cabala e Bergmann mi ha dato quelle del pensiero ebreo moderno. Non erano persone religiose e come me provenivano da famiglie assimilate e da un ambiente pervaso dalla volontà di diventare europei, ma avevano il senso della religiosità ebraica. Anche non essendo religioso praticante in senso ortodosso, mi considero una persona religiosa e ho la percezione netta che la nostra vita non sia priva di un fine: siamo qui, abbiamo uno scopo e dobbiamo fare qualcosa. Ho la sensazione che sia possibile avvicinarsi alla dimensione religiosa attraverso l'arte. Ho percepito il senso religioso ascoltando Bach, la sua musica è stata per me la porta di ingresso verso i libri ebraici, il portone per poi leggere i testi della mia tradizione. Era come se avessi bisogno di un input sensorio e Bach per me è stato questo. Ricordo la grande impressione che mi facevano le due cameriere che erano nella casa dei miei genitori, quando estraevano le loro icone e cadevano ai loro piedi in ginocchio per pregare. Fu forse la prima espressione religiosa concreta che incontrai. E' un interessante paradosso: sono arrivato alla fede e alla religiosità tramite il Cristianesimo. A un certo punto accadde un miracolo: a vent'anni circa inizia a scrivere. Questo mi restituì immediatamente i genitori, i nonni, la città in cui ero nato, la casa, le cose meravigliose che accadono tra genitori e figli, il silenzio della casa dei miei nonni. Quando si diventa scrittori bisogna imparare che tutto ciò che si scrive dovrebbe avere l'autenticità del dettaglio del particolare. Aby Warburg, scrittore ebreo e studioso del Rinascimento, era solito dire: 'Dio è piantato nei dettagli, nei particolari e non nella generalità, perché tutto non ci è dato di percepire'. L'arte fornisce l'aspetto particolare della vita, i particolari della vita, non le teorie astratte. Lo scrittore ha a che vedere con una persona, con un bambino che ha un nome, che vive in un luogo, il particolare è quindi una necessità per qualsiasi forma d'arte. D'altro canto la buona arte deve avere una valenza universale: se non è universale, non è arte. La Bibbia è unica in questo senso: è molto dettagliata, parla di una tribù particolare con tutte le cose buone e cattive di quella tribù, ma è un libro dedicato all'universale. Da scrittore faccio finta di essere uno scrittore ebreo che parla dell'ebreo moderno, ma ho la sensazione di scrivere per tutti." (da Aharon Appelfeld, Ho capito Dio ascoltando Bach, "Corriere della sera", 23/08/'08; sintesi dell'intervento di Appelfeld Sentimento e ragione all'origine dell'umanità che apparirà sul prossimo numero di "Atlantide")
Appelfeld nel catalogo Guanda

venerdì 22 agosto 2008

Mahmoud Darwish (1941-2008)



Write down!
I am an Arab
and my identity card number is 50,000
I have eight children
And the ninth will come after a summer.




"Mahmoud Darwish era un mio amico. Un amico raro, prezioso, di somma eleganza, rigoroso, leale, determinato e oltre tutto aveva senso dell'umorismo. [...] Ho avuto la felicità - e sperimentato la difficoltà - di tradurre alcune delle sue poesie ed è nel corso di tale lavoro che mi sono reso conto di quanto feconda fosse la sua fantasia, quanto inconsueto e splendido il suo vocabolario. In qualche caso per tradurre un'unica sua parola ho dovuto scrivere una frase intera. Era nato poeta, non lo è diventato: lo era dalla nascita. Non era militante nel senso classico del termine, anzi, direi che non era nemmeno un poeta impegnato, perché con tutto il suo essere la sua vita aveva senso e significato solo grazie alla poesia e nella poesia. Non era poeta in quanto palestinese o perché aveva patito lo sradicamento e l'esilio, ma era poeta proprio per poter esprimere ciò che milioni di uomini soffrono: ingiustizie, umiliazioni, privazioni e disprezzo. Detestava che di lui si dicesse che era un 'poeta della resistenza': come comune cittadino resisteva, ma il poeta che era in lui andava oltre, portava il sogno di un popolo nei focolari più lontani e più estranei alla questione palestinese. Uno dei suoi primi componimenti dice: 'Colui che mi ha trasformato in esule mi ha trasformato in bomba. So che sto per morire, so di combattere una battaglia persa per il momento, perché essa appartiene al futuro. So che la Palestina - sulla carta - è lontana. So che avete dimenticato il mio nome, la cui traduzione avete deformato. So tutto questo. Ed è per questo che porto la Palestina fin nei vostri boulevard, nelle vostre case, nella vostra camera da letto'. Ha assunto posizioni politiche inequivocabili, in modo particolare quando ha lasciato l'Olp nel 1993 per esprimere il proprio scetticismo - per non dire opposizione - nei confronti degli accordi di Oslo. Ciò che è accaduto in seguito - ahimé - gli ha dato ragione. Come il suo compatriota Edward Said, aveva uno spiccato senso della politica, perché era un uomo libero, mai assoggettato a un partito o un'ideologia (entrò nel partito comunista palestinese nella prima giovinezza). Ma a contare davvero nella sua vita è stata la scrittura, la poesia. Era folle d'amore: amore per la libertà, per la terra confiscata, per la sua casa natale rasa al suolo dall'occupante. Era folle d'amore per la lingua araba, per la donna, tutte le donne che non sono metafore della patria assente. Folle d'amore per gli altri, quelli ai quali pensava ogniqualvolta prendeva in mano la penna. Folle d'amore per la vita che lo sfidava. Si rallegrava dei propri sogni, delle proprie ambizioni. Era un uomo ebbro di vita, che non si lasciava mai ingannare dalle apparenze, dalle menzogne della politica. Molto semplicemente, era un visionario, senza scalpori. Non parlava mai di sé, della sua peosia. Non attirava mai volutamnete l'attenzione su di sé, amava ridere, scherzare e raccontare con leggerezza episodi gravi. Un giorno, a Valencia - stavamo chiacchierando non ricordo più di che cosa, ma rammento distintamente le sue parole - mi disse: 'Io abito in una valigia'. In quelle parole c'era l'esilio, il suo dolore per l'esilio. Ne parlava a spizzichi e per metafore, senza soffermarvisi mai troppo. E' diventato famoso per una poesia che inizia così. 'Scrivi: sono arabo'. Poesia di circostanza, in realtà, che non ha mai amato molto e che l'ha perseguitato per molto tempo. Per reazione, forse, ha scritto molte poesie d'amore e per amore. [...] I temi che trattava erano universali: la terra, l'esilio, la morte, l'amore impossibile, la disperazione di coloro che sono deprivati di tutto, compresa la speranza. Come ha scritto il suo amico e traduttore (in francese) Elias Sanbar: 'Al di là di qualsiasi preoccupazione tecnica, sussistono le sue scelte primarie: in poesia qualsiasi idea, qualsiasi pensiero deve passare per i sensi. La poesia è prima di tutto orale, e dunque musica. Ed essa per resistere alla violenza del mondo si arma dell'umana fragilità'. Nel 200 il ministro israeliano dell'Educazione, Yossi Sarid, aveva proposto che alcune poesie di Mahmoud Darwish fossero inserite nei programmi scolastici, ma il primo ministro dell'epoca, Ehud Barak, vi si era opposto. La poesia è pericolosa, è contagiosa, indubbiamente. La poesia di Mahmoud Darwish celebra la resistenza, la giustizia e la dignità, valori universali che ancor oggi incutono paura. E non soltanto in Israele." (da Tahar Ben Jelloun, 'Porto la Palestina nelle vostre case', "La Repubblica", 12/08/'08)

"A person can only be born in one place. However, he may die several times elsewhere: in the exiles and prisons, and in a homeland transformed by the occupation and oppression into a nightmare. Poetry is perhaps what teaches us to nurture the charming illusion: how to be reborn out of ourselves over and over again, and use words to construct a better world, a fictitious world that enables us to sign a pact for a permanent and comprehensive peace ... with life."

"Mahmoud Darwish" (da GuardianBooks)
"Mahmoud Darwish, Leading Palestinian Poet, Is Dead at 67" (da NYTimes)