mercoledì 30 aprile 2008

Solo i treni hanno la strada segnata di Gabriele Romagnoli


"Quindici anni fa, al suo fortunato esordio con Navi in bottiglia, Gabriele Romagnoli aveva espresso, in 101 raccontini di una pagina o poco più, tutto il disagio di scrivere in una situazione di difficile, se non impossibile, narrabilità del mondo. Poi, un lungo cammino di avvicinamento alla forma romanzo, culminato nel 2004 con L'artista, in cui quella narrabilità sembrava recuperata in pieno, e anzi addirittura trionfalmente ostentata. Ci si poteva attendere, da allora in poi, un percorso finalmente pacificato, all'ombra delle certezze acquisite. E invece, ecco di nuovo 101 raccontini di una pagina o poco più, stavolta sotto il titolo Solo i treni hanno la strada segnata. La coincidenza numerica e strutturale è troppo smaccata per non far pensare a un potente richiamo all'opera prima. E troppo forte la tentazione di cercare di capire non solo il perché del ritorno indietro, ma anche cosa è cambiato nello scrittore durante i quindici anni che separano i due libri. E' cambiata, ad esempio, la disposizione dell'autore: se da nessuna delle Navi in bottiglia era lecito immaginare un possibile sviluppo romanzesco, qui di romanzi in nuce ce ne sono parecchi: la serie che va crescendo da Quattro figli a Nessun figlio, o il fulminante Vai che nevica, o ancora Separato, Ulisse e vari altri. I personaggi che vi si affollano, infatti, hanno tutti un passato o un futuro sì inspressi, ma la cui esistenza è comunque intuibile dagli scarni indizi disseminati nei racconti, o dalla rete di relazioni che con altri personaggi si indovina istituirsi: universi iperconcentrati e quasi del tutto inesplorati, che tuttavia proprio come universi 'romanzeschi' si propongono al lettore, il quale magari rimpiangerà di non avere strumenti sufficienti a decifrarli in toto. Altri raccontini invece, presentano situazioni bloccate e concluse, colpi di scena che si chiudono senza appello nel momento in cui si manifestano, impressioni o inquietudini o presagi legati a episodi destinati a esaurirsi in sé. In questi casi, però, si evidenzia quasi sempre un'interrogazione sul destino dei singoli, o sui capricciosi giochi del caso, o sulle trappole che la vita tende all'universale inconsapevolezza. E' come se Romagnoli cercasse qui soprattutto delle definizioni morali o filosofiche, delle più alte chiavi di comprensione dell'esistenza, che forse ha persino pudore di nominare o di manifestare, ma la cui urgenza si rende comunque percepibile, nei toni di una secca malinconia, o talvolta in un giro stilistico che ha come involontariamente, distrattamente, del sapienziale. L'impressione, insomma, è questa: mentre i racconti dell'esordio sembravano i rivoli estremi e casuali sopravvissuti a una inarrestabile e velocissima desertificazione del narrabile, questi sono al contrario rivoli che partendo dalle sorgenti più lontane scorrono tutti verso uno stesso luogo, col destino di formare un fiume. E' vero che a un fiume l'autore era già arrivato nel 2004. Ma ora forse sente il bisogno di trovarne un altro, con un percorso e una portata diversi: posso immaginare che al prossimo romanzo voglia conferire un più solido spessore di pensiero; o che desideri complicarne l'intreccio, moltiplicando personaggi, storie, e situazioni; o che magari aspiri a dargli un'ambientazione internazionale, vista la fantasmagoria di città e stati che i raccontini ci propongono. O forse non è vero niente, e l'autore non ha fatto altro che seguire liberamente il suo estro, le sue curiosità, le sue voglie. E anche in questo caso, visti i risultati, avrebbe fatto benissimo." (da Stefano Giovanardi, Il mondo in 101 racconti, "La Repubblica", 30/04/'08)

martedì 29 aprile 2008

Donne in rivolta: tra arte e memoria

"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo"

"Non v'è dubbio che nella seconda metà dell'Ottocento esista una quantità consistente di romanzi con strutture tematiche e compositive ricorrenti, che vanno a comporre un unico, grande romanzo, che potremmo definire 'femminista', se non altro perché ne sono protagoniste indiscusse delle donne: Emma Bovary, nell'omonimo romanzo del 1857; Anna Karenina, dell'omonimo romanzo del 1877; Nora, di Casa di bambola del 1879; Giovanna, di Una vita del 1883; Hedda Gabler, primadonna dell'omonimo dramma del 1890; Effi Briest, del 1895; Marta nell'Esclusa del 1901. Donne prese tutte nella posa dell'adultera. E' altrettanto indubbio che nel corso dell'azione noi lettori assistiamo all'eliminazione fisica delle protagoniste, e dove volessimo, a mo' di inchiesta, accertare le responsabilità della morte, e comprendere se si tratti, di volta in volta, nei casi specifici, di suicidio, o di omicidio, non potremmo che osservare che sono insieme il marito Karenin e l'amante Wronskji a uccidere Anna; sono il marito barone von Innstetten e il maggiore Crampas a uccidere Effi; il noiosissimo marito Tesmann e il demonico Loevborg e il volgare Brack a uccidere Hedda. Per non parlare delle responsabilità di Charles Bovary, di Torvaldo Helmer, di Giuliano di Lamare e di Leone e di Rodolfo. Si potrebbe addirittura parlare di 'morti bianche', perché a me pare che questi personaggi di donna - sia che si lascino assassinare, o si abbandonino alla morte per asfissia, per assideramento, o anestesia - sono sempre e comunque lì a testimoniare il costo incivile di una enorme ingiustizia sociale. L'adulterio realizzato da Anna e il suo suicidio; il matrimonio di Effi e il finale aborto di sé, che la trasporta a un'esistenza larvale; il disgusto di Hedda e la morte che si dà, quasi fosse una vendetta che si prende contro la vita; le vicende non dissimili delle altre, tutte insieme compongono oggettivamente un patrimonio romanzesco che vede l'eroe in conflitto aperto con la propria epoca storica, le sue leggi e forme. Ora, non v'è dubbio che a definire questo nuovo personaggio concorrano cambiamenti avvertibili nella cultura e nella società. Ma è anche vero che uno scrittore non sempre segue l'azione, a volte è la letteratura a guidarne il corso, a prefigurare il cambiamento, o perlomeno, a gettarne le basi. Lo scrittore, è stato scritto, 'dà voce a tutto ciò che resta soffocato nel mondo com'è, a qualcosa nel cui nome il mondo volta per volta andrebbe cambiato, alle ragioni che non trovano riconoscimento da parte degli ordini conosciuti o grazia di fronte alle opinioni pubbliche'. Scriveva così, anni fa, Francesco Orlando a proposito di un'antenata, la Fedra di Racine. Anche lei una ribelle. Del resto, è sempre stato così: perché la macchina drammatica, o romanzesca scatti, ci deve essere una crisi. Perché si inizi a raccontare si deve aprire una breccia, attraverso la quale applicare lo sguardo a ciò che soltanto superficialmente finora avevamo guardato, o addirittura tralasciato di osservare. E per fare ciò ci vuole un personaggio che sia capace di sopportare la fatica del nuovo sguardo. Intendo dire: lo scrittore dovrà inventare un personaggio cui affidare la rottura. Tale rivolta. Nei romanzi di cui parlo, è il personaggio-donna a sostenere il peso di tale azione. E', se volete, ancora una volta il discorso aristotelico sul personaggio. Se il romanzo, come la tragedia, ha al suo fondo un conflitto, il suo eroe sarà il rappresentante di un'istanza oppressa, colui, colei che si rifiuta di obbedire alle leggi della città, perché sa che ci sono altre leggi, altre leggi devono essere trovate, inventate. In tale posa troviamo Anna, Emma, Hedda. Lo scrittore, per riprendere un vecchio stilema marxiano, stilema assai demodé di questi tempi - ma proprio perciò con ancor maggior soddisfazione me ne servo - lo scrittore, dicevo, sa che le istituzioni tendono a presentarsi come assolute, necessarie, naturali. Così anche per il matrimonio. Che cosa c'è di più naturale del matrimonio? Che cosa c'è di più naturale di una famiglia composta da un uomo e una donna, e possibilmente il frutto del loro amore? (Vi prego incidentalmente di notare che tale grazioso quadretto vale tuttora, guai a disturbare il presepe - famiglia). L'adultera - 'ce mystère de la femme en dehors du mariage', come diceva Flaubert - è il personaggio-donna che non si lascia più definire dal matrimonio. Non importa che commetta o meno sensualmente, fisicamente l'adulterio. Già nella definizione flaubertiana è evidente come allo scrittore non interessa l'interno protetto, lo spazio già conosciuto e perimetrato della passione coniugale, ma piuttosto il mistero, il segreto - indicibile, irrappresentabile come tutti i misteri - di chi si avventura all'esterno." (da Nadia Fusini, La passerella delle adultere, "La Repubblica", 29/04/'08)

lunedì 28 aprile 2008

Il treno dell'ultima notte di Dacia Maraini


"Una giovane donna percorre in treno i paesi dell’Est europeo, oltre la 'cortina di ferro' - siamo nel 1956 - per inseguire un sogno delicato e fragile, per riallacciarsi a un mondo e a un tempo che non si rassegna a considerare perduti. Che cosa cerca sotto i cieli grigi della guerra fredda la protagonista del Treno dell’ultima notte, l’eroina di Dacia Maraini che porta, come un presentimento, il nome di Maria Amara? E’ una giornalista alle prime armi, ma l’impegno professionale è poco più che un pretesto. Spera, si illude di trovare le tracce di Emanuele, scomparso nel vortice della Seconda guerra mondiale. Si conobbero bambini, appena adolescenti, a Firenze dove entrambi abitavano. Dal giorno in cui il ragazzo le apparve tra i rami di un ciliegio e fece cadere ai suoi piedi un lucido frutto (quel ricordo è un leit-motiv del romanzo) si giurarono ingenuamente amore eterno. Ma allo scoppio del conflitto Emanuele, che appartiene a una facoltosa famiglia ebraica, si trasferisce a Vienna, di cui gli Orenstein sono originari. A muoverli è il patriottismo, una orgogliosa fedeltà all’Austria, che tuttavia non paga agli occhi del nazismo. Finiranno infatti, trasecolati, in un campo di concentramento e poi ad Auschwitz. Le loro traversie, e l’uccisione dei genitori, sono raccontate da Emanuele in lunghe, affettuosissime lettere ad Amara, nonché in un diario riemerso fortunosamente dalle rovine del ghetto di Lodz. Adesso la donna, che ha alle spalle un matrimonio fallito, si è risolta a placare l’ossessivo ricordo del 'suo' ragazzo. Vuole sapere se è sopravvissuto o in che modo abbia trovato la morte. E porta con sé, come un talismano, le sue lettere, che compulsa per farsi coraggio. L’avvio, inevitabile, della ricerca è Auschwitz, che riserva soltanto la testimonianza atroce di un generalizzato sterminio. L’indagine di Amara si volge allora ai pochi superstiti, agli eventuali parenti di Emanuele, in una frustrante erranza tra Cracovia, Budapest e Vienna. Le difficoltà burocratiche, la propensione ottusa alla dimenticanza sono compensate dal generoso sostegno di Horvath, il bibliotecario magiaro scampato dalla mattanza di Stalingrado, e di Hans, esperto in migrazioni, per il quale sembra nascere in Amara un possibile, esitante affetto. Ad ogni incontro si risvegliano dolori sopiti, si aggiungono nuove rivelazioni sulle pratiche immonde dei Lager. Forse con qualche insistenza di troppo sul tema, che suona sia pure nobilmente didascalica, da parte di Dacia Maraini. La svolta avviene nei giorni di ottobre, quando Amara e gli amici vengono sorpresi a Budapest dalla rivolta ungherese e dalla spietata repressione sovietica. Quei fatti che sconvolsero il mondo e aggiunsero una macchia indelebile sulle bandiere del comunismo vengono raccontati in presa diretta con un forte respiro epico. L’orrore del passato sembra prolungarsi nel presente e quasi preludere alla rivelazione ultima sul destino di Emanuele, che segnerà per Amara una agghiacciante sconfitta. Queste, per sommi capi, le vicende di un romanzo gremito di storie, situazioni e risentite figure, animato da un grande impegno morale e civile, certo il più riuscito dopo La lunga vita di Marianna Ucrìa. Rappresenta per Dacia Maraini una personale resa dei conti con le zone buie, abissali, del Novecento (nelle quali entra anche l’esperienza del fascismo, di cui la famiglia di Amaraha patito a Firenze la violenza). Compie con la sua protagonista un viaggio nel regno dei morti, su quel treno che viaggia in una Europa dove sopravvivono, tra case bombardate e campi minati, nella penuria di viveri e speranze, le cicatrici della guerra e dell’odio. Il 'threnos', che è mezzo di trasporto ma allude anche, grecamente, al canto funebre. Amara, che ama i buoni libri, porta con sé, come avallo e memento, il conradiano Cuore di tenebra, solcato da una vacua e tesa disperazione. Ma affiora anche, tra le sue letture, L’idiota di Dostoevskij. Le è caro il principe Myskin, per il suo 'sorriso devastato ed ebete (che) lo spingeva verso i precipizi del mondo'." (da Lorenzo Mondo, Sotto i cieli grigi del Novecento la Storia ha cuore di tenebra, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/04/'08)

Firmino di Sam Savage


"Il protagonista di Firmino (Firmin: Adventures of a Metropolitan Lowlife), lo straordinario romanzo di Sam Savage, è un topo, anzi un ratto. Non crediate che ricordi Topolino di Walt Disney: un topo completamente umanizzato - un americano, intelligente e coraggioso, del tempo di Roosevelt. Firmino è un vero ratto: tutto il libro è intriso del suo profumo; con immenso piacere, noi odoriamo, squittiamo, mangiamo, guardiamo, ci avventuriamo nel mondo, come se fossimo ratti anche noi. Quando Firmino prende in mano la penna invisibile che Sam Savage gli ha prestato, scrive estrosamente, brillantemente, con un appassionato amore per la letteratura e uno squisito dono della variazione. Come i veri topi, non ride: ma il suo romanzo è spiritosissimo e divertentisissimo ed eredita tutte le corde del riso: shakespeariano, cervantino, swiftiano, dickensiano, carrolliano, stevensoniano, chapliniano. La madre avventurosa ed ubriacona di Firmino - Flo - si era rifugiata in una oscura, calda e umida libreria, a Boston, Scollay Square. Doveva partorire. Guardava con stupore rattesco gli scaffali di legno stipato di file di libri, mentre altri libri erano infilati di piatto tra gli scaffali, ed ancora altre enormi ziggurat di volumi stavano ammonticchiate sul pavimento. C'era di tutto: vecchi tomi rilegati in pelle, spaccati e ammuffiti, e volumi recenti ed economici. Flo non era colta: non aveva nessuna idea di cosa fossero i libri; per lei erano soltanto soffice, morbidissima carta. Afferrò uan copia di Finnegans Wake, ignorando che era il capolavoro meno letto della letteratura universale: ne estrasse un cumulo di carta, lo pestò al centro, lo rialzò lungo i bordi, e lo trasformò in una tana. Poco dopo, beatamente, senza soffrire, scodellò in quel testo illeggibile tredici piccoli ratti. Tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, e Sam Savage non avrebbe scritto questo bellissimo romanzo - se Flo non avesse avuto soltanto dodici capezzoli. Ma i ratti erano tredici: Firmino era il più gracile, e i robusti e violenti fratelli non lo lasciavano avvicinare ai capezzoli della madre. Così Firmino dovette rinunciare al latte materno - cosa che avrebbe avuto effetti disastrosi sul suo equilibrio psichico. Appena nato, diventò l'escluso. Per non morire di fame, cominciò a rosicchiare libri. Li masticava per ore, come se fosse gomma. Avevano un sapore gradevole, e mangiarli divenne presto per lui un'abitudine. Da principio non distingueva: un boccone di Faulkner era, per lui, come un boccone di Flaubert. Poi imparò a conoscere le cose chiamate reali - i grattacieli, i cavalli, i fiori, un letto disfatto, il fischio di un treno, una zattera - e si rese conto che Eisenhower era una persona, mentre Oliver Twist era un personaggio romanzesco. La lattuga sapeva di Jane Eyre. Dopo anni, venne illuminato dalla verità: un libro buono da mangiare era bello anche da leggere. Intanto, non sappiamo come, Firmino aveva imparato a leggere. Diventò un vizio: una terribile dipendenza. Lesse di tutto: filosofia, psicoanalisi, linguistica, astronomia, astrologia, la Bibbia, il Corano, la Bhagavad-Gita, il Libro dei morti, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa, Kant, Hegel, Swedenborg, storia irlandese, ricette, barzellette, malattie, nascite, esecuzioni ... Quando si specializzò in narrativa europea dell'Ottocento, il suo amore per la letteratura toccò il culmine. Fece amicizia con tutti i personaggi di Jane Austen, Balzac, Stendhal, Dickens, Flaubert, Tolstoj, Dostoevskij, Henry James, Thomas Hardy. Visse con loro. Strinse la vita sottile di Natasha Rostova: sentì la mano di lei posarsi sulla sua spalla, e danzò con lei, trascinato dal valzer. Costrinse Baudelaire a salire sulla zattera di Huck Finn. Continuò i romanzi lasciati a metà: nell'estate del 1929, mentre Wall Street stava per crollare all'insaputa di tutti, che vestiti indossavano i personaggi? Che tipo di scarpe? Che genere di mutande? E i capelli, che taglio avevano? Mentre i suoi fratelli si perdevano nelle piazze, nelle gallerie e nei rivoli del mondo esterno, Firmino diventò un ratto-libro. E con un atroce dolore, pieno di venerazione per la lettura, comprese che non poteva più rosicchiare e divorare i libri. Doveva soltanto leggerli. Di quel piccolo ratto avido e squittente, non rimase quasi più nulla. Siccome leggeva romanzi dell'Ottocento, si trasformò in un personaggio malinconico e disperatamente romantico, con venature di follie e di stravaganze, incerto tra i due mondi ai quali apparteneva. Imparò a conoscere i sentimenti degli esseri umani. Come Dickens e Dostoevskij, comprese che la vita è una farsa tragica, insieme straziante e ridicola. Immaginò di essere simile a Don Chisciotte: fatuo, cocciuto, clownesco, ingenuo fino alla cecità, idealista fino al grottesco. Quando lesse Henry James, tutta la sotterranea disperazione e la rassegnazione nascoste nei suoi romanzi vennero a galla, riversandosi come bollicine nei suoi occhi, e velandogli la vista. Non osava guardarsi negli specchi. [...] Come un narratore dell'Ottocento, un giorno cominciò a raccontare la storia della sua vita. Iniziava così: "Questa è la storia più triste che abbia mai sentito". Rimase disteso tutta la mattina sulla poltrona, con i piedi all'aria, mentre le frasi si susseguivano come folte carovane arrivate dal deserto. Intanto, sulla piazza, un immenso Caterpillar del comune di Boston radeva al suolo la libreria dove, nel bagno, c'era ancora la copia di Finnegans Wake, che tanti anni prima era stata il suo nido. Ho cercato di raccontare come potevo il sottilissimo romanzo di Sam Savage, al quale auguro, anche in Italia, i molti lettori che ha avuto nel mondo. Non ho detto nulla di Savage. So soltanto che è venuto al mondo nel 1940, in South Carolina, vivendo dove l'estro lo trascinava. Ha insegnato filosofia, venduto biciclette, e composto versi parodistici. Firmino è il suo primo libro. Scritto, come nessuno immaginerebbe, a sessantaquattro anni. Non so cosa augurargli. Da un lato, spero che Sam Savage, ubiquo come il suo topo, scriva molti romanzi, per la gioia dei suoi lettori. D'altra parte, vorrei che Firmino rimanesse solo. Vorrei ascoltare esclusivamente il suo squittio doloroso, nel quale si riflette la voce di tutta la letteratura." (da Pietro Citati, Il topo di biblioteca che divorava i libri, "La Repubblica", 28/04/'08)

sabato 26 aprile 2008

Orhan Pamuk: per chi scriviamo noi romanzieri


"Per chi scrivi? Negli ultimi trent'anni o giù di lì - fin da quando ho cominciato a fare lo scrittore - questa è stata la domanda che mi sono sentito rivolgere più di frequente, sia dai lettori che dai giornalsiti. Le ragioni variano a seconda del momento e del luogo, e a seconda del momento e del luogo varia anche il livello della loro curiosità, ma tutti fanno questa domanda con lo stesso tono di voce, sospettoso e sussiegoso. A metà degli anni Settanta, quando decisi per la prima volta di diventare romanziere, questa domanda rispecchiava il grossolano concetto, largamente diffuso, che l'arte e la letteratura fossero dei lussi che un Paese povero non occidentale, che si sforzava di entrare nell'era moderna, difficilmente poteva permettersi. C'era anche chi suggeriva che una persona 'istruita e colta come te' avrebbe potuto rendere un miglior servizio alla nazione facendo il medico e combattendo le epidemie o facendo l'ingegnere e costruendo ponti (Jean-Paul Sartre diede credito a questa linea di pensiero all'inizio degli anni Settanta, quando disse che se fosse stato un intellettuale del Biafra non si sarebbe messo a scrivere romanzi). Negli anni successivi, quelli che mi facevano la fatidica domanda erano più interessati ad appurare a quale settore della società speravo di rivolgermi, quali persone secondo me avrebbero letto e ammirato le mie opere. Sapevo che si trattava di una domanda insidiosa, perché se non avessi risposto, 'Scrivo per i membri più poveri e oppressi della società!', mi avrebbero accusato di difendere gli interessi dei proprietari terrieri e della borghesia (anche se questo mi faceva pensare che qualsiasi scrittore sincero e generoso che sostenesse di scrivere per i contadini, gli operai e gli indigenti, scriveva per gente che sapeva a malapena leggere). Negli anni Settanta, quando mia madre mi chiedeva per chi scrivevo, il tono preoccupato e addolorato della sua voce mi diceva che in realtà mi stava chiedendo: 'Come pensi di riuscire a mantenerti?'. E quando gli amici mi chiedevano per chi scrivevo, quella punta di scherno nella loro voce bastava a farmi capire che nessuno sarebbe mai stato interessato a leggere un libro scritto da uno come me. Trent'anni dopo, questa domanda me la sento porre più spesso che mai. Stavolta ha a che fare più che altro con il fatto che i miei romanzi sono stati tradotti in oltre 55 lingue. In particolare negli ultimi dieci anni, i miei sempre più numerosi intervistatori sembrano preoccupati che io possa fraintendere le loro parole, perciò di solito aggiungono: 'Lei scrive in turco, quindi scrive soltanto per i turchi, oppure adesso pensa anche al più vasto pubblico che riesce a raggiungere attraverso le traduzioni dei suoi libri?'. Sia che la domanda mi venga rivolta in Turchia sia che mi venga rivolta all'estero, è sempre accompagnata da quello stesso sorriso sospettoso e sussiegoso, che mi spinge a concludere che, se voglio che le mie opere siano accettate come vere e autentiche, la risposta che devo dare è: 'Scrivo solo per i turchi'. Prima di esaminare la domanda in sé e per sé - che non è né sincera né umana - dobbiamo rammentare che l'ascesa del romanzo è coincisa con la nascita dello Stato-nazione. Quando sono stati scritti i grandi romanzi del XIX secolo, l'arte del romanzo era, in tutti i sensi, un'arte nazionale. Dickens, Dostoevskij e Tolstoj scrivevano per una classe media emergente, che nei libri del proprio rispettivo autore nazionale poteva riconoscere ogni città, ogni strada, ogni casa, ogni stanza e ogni sedia; poteva indulgere agli stessi piaceri cui indulgeva nel mondo reale e discutere delle stesse idee. Nel XIX secolo i romanzi di autori importanti uscivano innanzitutto sui supplementi dedicati all'arte e alla cultura dei quotidiani nazionali, perché i loro autori parlavano alla nazione. Nelle loro voci narrative possiamo avvertire il malessere del patriota impegnato che ha a cuore soprattutto la prosperità del suo Paese. Alla fine del XIX secolo, leggere e scrivere romanzi significava partecipare a un dibattito nazionale su questioni di rilievo nazionale. Oggi, però, scrivere romanzi ha un significato completamente differente, così come ha un significato differente leggere romanzi. Il primo cambiamento avvenne nella prima metà del XX secolo, quando il fidanzamento tra il romanzo letterario e il modernismo fece ascendere questa forma narrativa allo status di una grande arte. Moltissimo hanno pesato anche i cambiamenti a cui abbiamo assistito negli ultimi trent'anni nel campo delle comunicazioni: nell'era dei media globali, gli autori letterari non sono più individui che parlano innanzitutto e unicamente alle classi medie del loro Paese di appartenenza, ma sono individui capaci di parlare, e parlare in modo immediato, a lettori di 'romanzi letterari' di ogni parte del mondo. Oggi gli appassionati di letteratura aspettano il nuovo libro di Garcìa Marquez, Coetzee o Paul Auster come i loro predecessori aspettavano il nuovo di Dickens: come l'ultima novità. Il pubblico mondiale degli scrittori di questa generazione è molto più vasto del pubblico che i loro libri raggiungono nei rispettivi Paesi di origine. Se generalizziamo la domanda - 'Per chi scrivono gli scrittori?' - potremmo dire che scrivono per il loro lettore ideale, per le persone amate, per se stessi o per nessuno. Questa è la verità, ma non tutta la verità. Perché gli scrittori odierni scrivono anche per coloro che li leggono. Dal che si può dedurre che gli scrittori odierni scrivono progressivamente sempre meno per le proprie maggioranze nazionali (che non li leggono) e sempre più per la minoranza di appassionati di letteratura di tutto il mondo che li leggono. Eccoci al punto: le domande punzecchianti, e i sospetti sulle reali intenzioni di quesi scrittori, riflettono un disagio nei confronti di questo nuovo ordine culturale che si è affermato negli ultimi trent'anni. A trovare maggiormente spiacevole tutto ciò sono gli opinionisti e le istituzioni culturali delle nazioni non occidentali. Incerti come sono del loro posto nel mondo, maldisposti come sono a discutere delle crisi nazionali attuali o delle pagine nere della loro storia in contesti internazionali, questi gruppi sono inevitabilmente diffidenti nei confronti di quei romanzieri che guardano la storia e il nazionalismo in un'ottica non nazionalista. Dal loro punto di vista, un romanziere che non scrive per un pubblico nazionale sta esoticizzando il suo Paese per un 'consumo straniero' e sta inventando problemi che non hanno fondamento nella realtà. A Occidente vige un sospetto parallelo, poiché molti lettori sono dell'opinione che le letterature locali dovrebbero rimanere locali, pure e fedeli alle loro radici nazionali; la loro paura inconfessata è che uno scrittore che diventi uno scrittore 'mondiale', attingendo la sua ispirazione da tradizioni esterne alla sua cultura, finisca col perdere la sua autenticità. A provare con maggior forza questa paura è un tipo di lettore che vuole aprire un libro e entrare in un Paese straniero tagliato fuori dal mondo, che vuole osservare le beghe interne di quel Paese così come assisterebbe a un litigio tra vicini nell'appartamento accanto. Se uno scrittore si rivolge a un pubblico composto anche da lettori di altre culture, che parlano altre lingue, allora questa fantasia viene meno. Tutti gli scrittori hanno un profondo desiderio di essere autentici ed è per questo che adoro ancora - perfino dopo tutti questi anni - quando mi chiedono per chi scrivo. Ma se l'autenticità di uno scrittore dipende dalla sua capacità di prender parte al mondo in cui vive, dipende anche, nella stessa misura, dalla sua capacità di capire la mutevolezza del proprio posto in quel mondo. Non esiste un lettore ideale libero da proibizioni sociali e miti nazionali, proprio come non esiste un romanziere ideale. Ma è il lettore ideale - che sia nazionale o internazionale - quello per il quale tutti i romanzieri scrivono, prima creandolo con l'immaginazione e poi scrivendo libri con in mente lui." (da Orhan Pamuk, Lo scrittore alla ricerca del lettore perfetto, "La Repubblica", 26/04/'08)

venerdì 25 aprile 2008

Uomini contro di Daniela Saresella


"Giù, in valle, si bercia sul 25 aprile da riscrivere, spazzando via i Bobbio, i Galante Garrone, i Revelli, i Bocca, i Dante Livio Bianco ... Qui, nel Santuario di Tirano, in Valtellina, non lontano dal trenino che conduce alla montagna incantata, sta una fra le ultime sentinelle del roveto ardente, come direbbe Jemolo. Ha compiuto novant’anni lo scorso febbraio, padre Camillo De Piaz, servita, 'gemello' di padre Turoldo, ancorato - àncora salvifica - a quella stagione: 'Se mi si toglie la Resistenza, mi si cancella'. C’è Lombardia e c’è Lombardia. C’è prete e prete. Oggi il calendario liturgico celebra Abbondio, il nome santo che nel teatro manzoniano si decomporrà. La pavidità contro il coraggio di 'essere profondamente religioso e insieme festosamente laico' che padre De Piaz ha testimoniato nella Milano fra guerra e dopoguerra, fra libertà e obbedienza, quindi 'meritando' l’esilio nella terra dov’è nato. Non è solito 'passare sempre con il rosso', secondo l’immagine felice di Giuseppe Gozzini, il primo obiettore cattolico italiano, nonché suo biografo? Il crogiuolo della Resistenza ... 'Da cui sortirà un’immensa opera morale, Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, a cura di Pietro Malvezzi e Giovanni Pirelli. Da mandare a memoria. La presentammo alla Corsia dei Servi. A Pirelli, scomparso tragicamente, mi legò un’amicizia profonda. Al funerale 'partigiano', vestiti da frate, partecipammo Davide e io'. Lei e la Resistenza ... 'L’albero da cui discendo ... Una figura su tutte di allora, Eugenio Curiel, l’uomo nuovo del partito comunista, sensibilissimo all’antifascismo cattolico: gli riconosceva, nel Fronte della gioventù, un ruolo fondamentale. Lo vidi il giorno prima che le Brigate Nere lo uccidessero in piazzale Baracca'. Accostare la Resistenza attraverso quali libri? 'Guerra partigiana di Dante Livio Bianco, per esempio. O Partigiani della montagna del mio grande amico Giorgio Bocca. Là dove, però, è l’aspetto militare a rifulgere. Bisognerebbe esplorare ulteriori sentieri: come i rifugiati in Svizzera, in età di arruolamento; coloro che trovarono riparo nei
conventi; quanti finirono nei lager non avendo accettato di combattere nella Rsi'. La Corsia dei Servi, ruotante intorno alla chiesa di San Carlo, nel cuore della Milano haute. 'I Pirelli (alla sorella di Giovanni, Elena, don Milani inviò lettere che sono tra i suoi vertici), i Falck, i Moratti ... Distinguerei. L’alta-borghesia a cui ci si poteva rivolgere schiettamente, ottenendo in cambio una risposta non meno nitida, un sì o un no evangelico. E la borghesia, arroccata nella difesa del particulare, dagli orizzonti angusti'. La Corsia dei Servi ... 'Riprende l’antico nome di corso Vittorio Emanuele. La si ritrova nei Promessi Sposi, il romanzo supremo, supremo l’autore'. Perché? 'Manzoni si convertirà, com’è noto, ma restando illuminista. All’origine del suo cristianesimo ci sono i Lumi, di cui scoprirà, riscoprirà, l’ascendenza religiosa. La mia visione del cristianesimo, del mondo, della Chiesa si muove in questo solco'. Non esclude, dunque, la secolarizzazione ... 'In che cosa consiste l’Incarnazione? Dio si fa uomo, si secolarizza, il sacro diventa profano. Desacralizzare, non, beninteso, dissacrare: ecco il segno distintivo del cristianesimo'. C’è una figura religiosa emblema della modernità? 'Montini, Paolo VI. L’unico Papa veramente moderno, ossia interno alla modernità. Mi chiese di curare l’edizione italiana della Populorum progressio. E’ un’enciclica straordinaria. Come cardine, la liberazione dei popoli oppressi, delle classi soggiogate, delle donne'. La Milano di Montini ... 'Montini che cercò, invano, di proteggere padre Davide, addirittura costretto dal Sant’Uffizio a espatriare, e me ... Ebbene: si ammala Giusto, un figlio di Vittorini. Nella malattia riscopre la dimensione religiosa. Il padre mi chiede di stargli accanto. Con Giusto trascorrerò lunghe ore, sempre alla presenza di Elio. La cosa si viene a sapere. Un giorno, al capezzale di Giusto, poco prima che morisse, arriva Montini: l’arcivescovo si butta in ginocchio davanti all’infermo, un gesto quasi teatrale, che non gli apparteneva ...'.

Vittorini scrittore? 'Resta, credo, Conversazione in Sicilia. Il suo limite si è manifestato nel tempo: così vittima di ogni attualità possibile'. Sarà lei, dopo padre Davide, a pronunciare l’omelia nel Duomo di Milano durante la Messa domenicale di mezzogiorno. 'Mi dividevo con San Carlo. Ad ascoltarmi, tra gli altri, trascinato da Carlino Bo, spesso c’era Montale. Piuttosto muto, di pochi sorrisi. Tra i poeti del nostro Novecento, il più grande. Me lo fece apprezzare, già negli Anni Trenta, e con lui Ungaretti e Quasimodo, padre Giulio Zini, al ginnasio'. E padre Davide poeta? 'L’ho visto nascere. Risale al 1929 il nostro incontro, si arrivava, rispettivamente, dal Friuli e dalla Valtellina. Le sue raccolte migliori: Io non ho mani e Canti ultimi, quando tace la corda dell’eloquenza, quando a risaltare è il vis-à-vis con Dio, fino allo scontro'. Padre Davide e padre Camillo ... 'Abbiamo arato le pietre, / abbiamo radici in tutte le strade / amate più di noi stessi': sono versi che Le ha dedicato Turoldo ... 'E’ in uscita, da Morcelliana, Uomini contro - il titolo, veramente, non mi piace - di Daniela Saresella. Un viaggio nelle traversie ecclesiastiche e non che abbiamo conosciuto. La prefazione è di Michele Ranchetti, lo studioso della Chiesa, di Freud, di Celan, di Rilke da poco scomparso'. La Corsia dei Servi, da Turoldo e da Lei pensata, voluta, come 'un asilo sicuro per chiunque, credente o meno'. 'Non a caso si darà vita dopo il 25 luglio al foglio "L’Uomo". Chiuso, rinascerà terminata la guerra. Lo dirigevano il politico Dino Del Bo, Mario Apollonio, mio professore di Letteratura italiana, il filosofo Gustavo Bontadini. "L’Uomo", uno sguardo vasto sulla condizione umana, di respiro conciliare (il Vaticano II stava maturando). Davide ed io fummo invitati ad aderire a una Federazione di circoli cattolici: non accettammo, va da sé'. A proposito di Concilio ... 'Sì, il Concilio. Com’è appannato. La Chiesa di Ratzinger è incentrata sull’identità. Io invece ho una visione pluralista dell’identità. L’ecumenismo non sta segnando il passo? Si torni a quell’aurea epoca. Se ne riscoprano i protagonisti. Come il rettore della Cattolica Giuseppe Lazzati, osteggiato e vilipeso da Comunione e Liberazione'. Credenti e non credenti ... 'Di tanto in tanto, in libreria - ne ho fondate ben due: la Corsia dei Servi e la nuova Corsia dei Servi - entrava Dino Buzzati. Una inimitabile eleganza. Lo scrittore? Certo, Il deserto dei tartari ... Ma era forse superiore il giornalista. Gli ha nuociuto il paragone, insostenibile, con Kafka'. Lei dal 1957 ha fatto ritorno a Madonna di Tirano, tale la sua irrequietezza ... 'Da sempre. L’origine della specie di Darwin, libro all’Indice, che leggevo di nascosto, mi valse l’espulsione dal Seminario. Da Tirano scendevo a Milano però quasi ogni settimana. Vi fu il periodo in cui seguii i cosiddetti detenuti politici. Partecipai, in palazzo Serbelloni, corso Venezia, all’incontro fra Montanelli, rivelatosi specialmente cavalleresco, e i giovani che lo avevano gambizzato'. Quali visite a Tirano? 'Grazia Cherchi, editor e critico letterario, una voce dei "Quaderni piacentini". Era mia ospite quando si aggravò. Giunta a Milano, morì. Mi donò la sua penna'. E poi? 'Mario Soldati. Una banca gli commissionò L’avventura in Valtellina. Gli feci da cicerone. Ma non ero l’unico ad assisterlo. Esigette che gli trovassero un giocatore di scopone per tirare notte. Aveva un rapporto divertito con la vita'. Tirano ... Come non pensare a Bernanos, al Diario di un curato di campagna? 'Ulteriore libro essenziale. Il parroco che confessa la propria inettitudine soprannaturale'. 'Tutto è grazia', assicura quel parroco. E così? 'Tutto può essere trasformato in grazia'. Potrebbe essere l’incipit di un’omelia che riconcilierebbe il viaggiatore Piovene con il santuario di Tirano. Assistette a una predica che turbò il suo animo liberale: 'Girare poco, stare in casa e aprire qualche libro di sana lettura ...'." (da Bruno Quaranta, Padre Camillo: 'Mi resta solo la Resistenza',"TuttoLibri", "La Stampa", 19/04/'08)

giovedì 24 aprile 2008

Contro l'etica della verità di Gustavo Zagrebelsky


"'L’accoglienza del Papa alla Casa Bianca non è disinteressata: gli Stati Uniti sono in campagna elettorale ed è evidente l’interesse ad ospitare il Pontefice che ha elogiato il modo di vivere degli americani. Questo complimento stride però con la decisione della Corte Suprema che conferma la costituzionalità della pena di morte e respinge i dubbi sull’iniezione letale': così - al convegno "Laicità della ragione, razionalità della fede?" svoltosi questa settimana a Torino - ha commentato il viaggio di Ratzinger negli Stati Uniti Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale e oggi ordinario di Diritto costituzionale e Giustizia costituzionale dell’Università di Torino, autore da ultimo di Contro l’etica della verità (Laterza). Di questi tempi religione e politica sono un’accoppiata forte e non solo negli Usa. Ma il successo non è sempre assicurato: come ha giudicato la candidatura di Giuliano Ferrara con la lista 'aborto no grazie?'. 'Non definirei Ferrara un cittadino cattolico quanto un non credente - o un ateo - che opera in conformità con quello che dice la Chiesa in cerca di una identificazione. Nella Storia ci sono casi di uso della politica da parte della religione e, come nel caso di Ferrara, di uso della religione da parte della politica'. Cosa pensa della possibilità di inserire le radici giudaico-cristiane nella Costituzione dell’Unione Europea? 'Insistere su questi elementi identitari non è produttivo, sono un insulto perché in Europa il cristianesimo si è formato contro l’ebraismo. Molte altre radici hanno dato connotazione al nostro continente: isolarne alcune vuol dire fare torto ad altre. Le radici cristiane sono in linea con l’idea che le nostre società si appoggiano su un fondamento morale offerto dal Cristianesimo a cui per ragioni politiche - di vita nella polis - occorre dare un ruolo privilegiato. E la laicità presuppone non l’esclusione delle fedi dalla dimensione pubblica ma un’uguale lontananza (o vicinanza) da parte dell’autorità pubblica'. Per alcuni Islam e democrazia sarebbero inconciliabili perché l’Islam non garantisce uguali diritti alle donne e alle minoranze religiose. Cristianesimo ed ebraismo sono invece più rispettosi dei diritti di tutti? 'Dal punto di vista dei principi l’ebraismo ha un approccio molto diseguale nei confronti delle donne. Recentemente nella mia famiglia abbiamo sperimentato un’unione ebraica e mi sono reso conto come siano ancora in vigore regole secondo cui il matrimonio consiste nella vendita della figlia, valutata in sicli come se fosse un cammello: la vendita è fatta a favore del marito, il contraente è la comunità ebraica e la donna è un puro oggetto. Questi sono ovviamente i rituali, la realtà è del tutto cambiata. Ma è un esempio significativo di come il mondo ebraico si sia ben assimilato entrando in contatto con la civiltà cristiana dove la donna, con molta fatica, è emersa come soggetto paritario. Quello che possiamo auspicare per l’Islam in Europa è che, grazie a spinte e rivendicazioni interne, si mettano in atto i cambiamenti che nel Cristianesimo hanno richiesto secoli'. L’Islam è ormai in Europa: come si può affrontare il problema dell’immigrazione? 'Integrarsi in una società maggioritaria vuol dire adeguarsi. L’integrazione potrebbe avere senso se i gruppi fossero - per forza, numero e cultura - equivalenti, nel qual caso il risultato sarebbe qualcosa di nuovo a cui tutti hanno contribuito. Ma questo non può avvenire in una società consolidata come la nostra e la soluzione è l’interazione intesa come riconoscimento delle diversità: viviamo insieme e ognuno può fecondare l’altro nel massimo rispetto reciproco'. A quali condizioni? 'Rifiutando la violenza tra le diverse comunità e al loro interno. E qui dobbiamo porci degli interrogativi: la poligamia porta con sé una forma di violenza? E il velo? È un’imposizione o un segno di appartenenza e quindi una valorizzazione? Che cosa sia violenza è dunque da discutere, tenendo presente che la violenza in un contesto può non essere tale altrove'. Quale soluzione si può trovare alla sottomissione della donna all’uomo, sancita da una lettura radicale dell’Islam? 'Per superare le forme di oppressione non bisogna pensare a soluzioni giuridiche ma mettere a disposizione delle immigrate i mezzi culturali con cui possano trovare la forza per modificare i rapporti. Sono processi lunghi e le scorciatoie vanno evitate perché rischiano di creare ulteriore violenza'." (da Fabian Sabahi, Vivere insieme nella diversità, "TuttoLibri", "La Stampa", 19/04/'08)

Ai confini della democrazia di Nadia Urbinati


"Le analisi via via più puntuali dei risultati elettorali dimostrano che operai e casalinghe hanno votato per il partito più radicale e populista della coalizione di centrodestra, premiando un messaggio a un tempo liberista e razzista. Questi dati hanno provocato una giustificata cascata di commenti e interpretazioni. Autorevoli opinion maker e uomini politici si sono improvvisati filosofi della storia per dare un tono di fatale verità alle loro dichiarazioni: il mercato ha sconfessato Karl Marx dimostrando che imprenditori e operai hanno gli stessi interessi perché hanno gli stessi avversari; gli avversari sono lo stato che tassa e mette regole ma che nel contempo non riesce a controllare le frontiere. E nemmeno a tener fuori prodotti e manovalanza a basso costo; e infine e soprattutto lo stato sociale che con le sue politiche dei servizi sociali è reso colpevole di debilitare la solidarietà locale e le reti comunitarie di sostegno ai bisognosi. Il messaggio che viene dalla cascata di voti rastrellati dalla Lega Nord anche in regioni di consolidata tradizione socialdemocratica come l'Emilia-Romagna, sarebbe dunque questo: il mercato deve riportare lo stato alla sua vocazione originaria, quella che aveva prima della formazione dello stato-nazione e della conversione bismarkiana dei governi europei; deve tornare ad essere un sistema coercitivo che si occupa esclusivamente di difendere diritti civili di base e che investe le proprie risorse nella sicurezza dei cittadini e nella difesa delle frontiere. Lo stato non deve più occuparsi di giustizia sociale e di ridistribuzione della ricchezza tra i 'figli uguali della nazione', come è stato costretto a fare negli anni della ricostruzione del dopoguerra. Non deve più essere ostaggio delle illusioni socialdemocratiche per la ragione assai semplice che non c'è alcun problema di ingiustizia sociale a cui rimediare, ma solo la sfortuna e la disgrazia dei bisognosi: piaghe fatali che l'umanità ha ereditato dalla caduta di Adamo ed Eva e che la carità del buon samaritano può curare molto più umanamente di uno stato dispensatore di servizi di cittadinanza. Questa è la lezione filosofica che ci viene dalle recenti elezioni. Comunitarismo e liberismo sono naturalmente alleati, soprattutto quando, come in questo scorcio di modernità, le coordinate tradizionali della politica (gli stati nazione) non sono in grado di far fronte ai rischi e alle sfide della mondializzazione. Ma contrariamente ai vaticini dei filosofi d'occasione, Marx aveva visto giusto. Il suo Manifesto è l'earthlink del nostro tempo, una lente che zumma dal pianeta alle sue periferie e viceversa, dandoci immagini nitide di come siamo. Ci fa vedere come l'integrazione globale dei mercati stia insieme a un ricompattamento comunitario locale; come l'espansione a macchia d'olio delle metropoli si affianchi a periferie selettive e chiuse (i sobborghi americani creati ex novo e protetti come cittadelle medievali, con cancelli, guardiani e visti di ingresso); come la diffusione planetaria di una cultura di massa e di una lingua (quella inglese) si integri alla rinascita di linguaggi e culture locali, spesso permeabili solo a chi li pratica quotidianamente (come molti cartelli stradali nei villaggi e nelle campagne del Nord-Est). In questa schizofrenia le solidarietà trasversali, per intenderci quella cultura etica universalista sulla quale la 'classe operaia' aveva definito la propria identità e lo stato sociale le proprie politiche di giustizia, appaiono inattuali, inefficaci, e perfino tiranniche. La libertà contro lo stato sociale (non contro lo stato gendarme) è la sola forte libertà che le destre liberiste-comunitarie esaltano e vogliono proteggere. Se le questioni sociali sono questioni di povertà e carità volontaria non più di giustizia sociale, la classe operaia non ha più senso di esistere. Essa non è altro che una fascia di basso reddito misurata dalle statistiche, l'insieme delle famiglie povere o a rischio di povertà, gente (non classe) che arranca a fine mese su bollette e debiti, che si ciba a costo quasi zero della cultura pop-global televisiva, che si sente pericolosamente tallonata dall'immigrato low-cost e si fa razzista. Si fa alleata di quegli imprenditori che vogliono le frontiere chiuse ai beni cinesi e indiani. Una prova di questa trasformazione ci viene ancora una volta dagli Stati Uniti, che per la loro enorme geografia sono stati a buon diritto un laboratorio del globale-locale fin dai primi del Novecento; qui la classe operaia non è mai riuscita a costruire una solidarietà universale-nazionale proprio perché l'immigrazione permanente ha reso impossibile conquistare e difendere regole e diritti sociali a protezione dei lavoratori. Il mercato del lavoro come uno stato di natura dove il vicino è un potenziale nemico, non un alleato di classe. Dunque, una storia globale, non italiana. Una storia globale che mostra però i propri effetti laddove le persone vivono: nelle città e nei paesi, non nel generico globo. La politica dei 'muri' che la caduta del muro di Berlino ha generato esemplifica molto bene questa storia. Muri sono in costruzione in molti luoghi del mondo: per dividere stati e popoli, ma anche quartieri di una stessa città come Padova, dove gli italiani hanno in questo modo cercato di 'proteggere e separare' se stessi dai vicini residenti di origine extra-Europea. Se il muro di Berlino doveva bloccare il diritto di uscita ai sudditi della Germania comunista, questi nuovi muri protezionistici dovrebbero ostruire l'entrata ai migranti o rendere la loro vicinanza invisibile o meno visibile. I muri anti-immigrazione, come quello spettacolare che la California ha costruito sui confini con il Messico, sono un modo molto concreto per dire che coloro che li innalzano pensano che potranno preservare i loro piccoli e grandi privilegi se e fino a quando solo loro ne godranno. Mettono in evidenza una delle più stridenti contraddizioni che affliggono le nostre affluenti società democratiche: quella tra una cultura raffinata che condivide valori universalistici e cosmopoliti e che resta comunque una minoranza (spesso snob), e una diffusa cultura popolare che mentre si appaga del consumismo globale è atterrita dalla globalizzazione, teme fortemente l'incertezza economica e sviluppa un attaccamento parossistico ad un benessere che appare sempre più risicato, fragile e temporaneo. Come si legge nel troppo poco letto Manifesto di Marx, alla crescita inarrestabile di un'uniformità globale si affianca la crescita di un'evidente resistenza del locale: nascono nuovi nazionalismi, il razzismo, la nostalgia per comunità pre-moderne come il borgo e le chiese. E a questi parossismi una parte dell'impresa capitalistica (quella piccola e media) ha un naturale interesse ad allearsi perché il mercato globale è una bestia selvaggia contro la quale trova altro rimedio se non il vecchio stato poliziotto. La classe operaia è un anacronismo, dunque, ma non perché non c'è più diseguaglianza di potere e c'è comunanza di interessi, ma perché questa diseguaglianza è stata tradotta in termini morali e apocalittici: una questione di sfortuna, di migrazioni bibliche, di scenari finanziari in permanente rischio di crollo. In questo panorama, il linguaggio della politica e del riformismo appare inefficace e fuori posto mentre quello populista avvince e unisce. Eppure, gli esseri umani non dispongono che di ragione pubblica e linguaggio politico per governare le loro società in modi civili e senza rinunciare a limitare le ragioni di sofferenza e dare a tutti la possibilità di vivere con umana decenza e dignità." (da Nadia Urbinati, Se lo stato sociale diventa un nemico, "La Repubblica", 24/04/'08)
I libri di Nadia Urbinati
L'ethos della democrazia (Laterza)

mercoledì 23 aprile 2008

Giornata mondiale del libro



23 aprile 2008 - XII Giornata mondiale del libro e del diritto d'autore

Lo scrittore si dà all'epica


"Nella letteratura italiana sta accadendo qualcosa. Qualcosa di importante, uno smottamento che getta in crisi ogni etichetta e cliché. Purtroppo, come spesso capita, bisogna guardare l'Italia da fuori per capire di che si tratti. Occorre la distanza, quella che permette di sciogliere legami superficiali e trovare analogie nascoste. Da noi la visuale è angusta: l'accademia si fiuta l'alito nella mano chiusa a conchiglia, si definiscono 'contemporanei' autori morti prima del lancio dello Sputnik e manca del tutto il confronto tra quel che si scrive in italiano e quanto si produce in altre letterature, ad esempio quelle 'post-coloniali'. Insomma, non si percepisce in che misura molti scrittori italiani stiano producendo opere nuove e sorprendenti. Se ne accorgono, invece, nel resto d'Europa e di là dall'Atlantico: Gomorra di Saviano è tra i cento libri più importanti del 2007 secondo il New York Times; nel Belpaese la notizia è stata accolta come una 'curiosità', pettegolezzo editoriale, e invece avrebbe dovuto far pensare, perché Gomorra è quel che affiora, è gli occhi del coccodrillo. Sotto il pelo dell'acqua la bestia è grossa, nuota veloce e morderà a sorpresa. Dall'estero fioccano inviti agli scrittori italiani perché vadano a spiegare il loro lavoro. Tra quanti hanno drizzato le antenne c'è persino il Massachussets Institute of Technology di Boston. Henry Jenkins, direttore del dipartimento di studi sui media, ha invitato i sottoscritti Wu Ming a fare rapporto su quel che succede. Insomma, serviva lo sguardo esterno per individuare il filone che in America iniziano a chiamare 'nuova narrazione epica italiana' o, più breve, 'New Italian Epic'. 'Epica' nel senso di coralità, narrazioni ampie e a lunga gittata, che mettono in questione la memoria e il futuro, si reggono sulla tensione tra complessità e dimensione popular, sperimentano con punti di vista inconsueti, storie alternative, costruzioni di mondo, e nel farlo cercano costantemente la comunità, il dialogo coi lettori. Il 'New Italian Epic' è nato dal lavoro sui 'generi', dalla lroo forzatura, ma non è più la vecchia 'contaminazione', c'è uno scarto, si va oltre, gli autori non si pongono neppure più il problema. E non è nemmeno più il distaccato, gelidamente ironico pastiche postmodernista, parliamo di narrazioni 'calde', fondate su un'autentica fiducia nella parola e sulla rivendicazione di un'etica del narrare dopo anni di cinismo e gioco forzoso. 'New Italian Epic'. Se la definizione ha un merito, è quello di mettere insieme libri in apparenza diversi, ma che molto hanno in comune a un livello profondo. Negli ultimi dieci-quindici anni si è formata una densa nebulosa di narrazioni. Gli eventi del 1989-'93, dalla caduta del Muro a Tangentopoli, avevano liberato energie e ispirato a fare un uso politico dei 'generi', a partire dal giallo al noir. Nel 2001, Genova prima e l'11 settembre poi hanno fatto capire che ancora non bastava. Gli scrittori sono entrati nella nebulosa con le loro navicelle, giungendovi da ogni direzione, e dal centro già ripartono, volano in ordine sparso, le traiettorie divergono, s'incrociano, divergono. Questi autori non formano una generazione in senso anagrafico, hanno età diverse, ma sono una generazione letteraria, condividono segmenti di poetiche, brandelli di mappe mentali e un desiderio feroce che ogni volta li riporta agli archivi, o per strada, o dove archivi e strada coincidono, come nelle genesi di Gomorra e Romanzo criminale. C'è chi, come Camilleri, Lucarelli e Carlotto, ha lavorato sul poliziesco in modo tutto sommato 'tradizionale', per poi sorprendere con romanzi storici 'mutanti' (La presa di Macallè, L'ottava vibrazione e Cristiani di Allah). Altri, come Genna e De Cataldo, hanno masticato il crime novel con in testa l'epica antica e cavalleresca, per poi affrontare narrazioni maestose e indefinibili (Dies irae, Hitler) o estinguere la spy-story in un esperimento di prosa poetica (Nelle mani giuste). Nel mentre, Evangelisti ibridava in modo selvaggio i generi 'canonici' della paraletteratura, al contempo producendo un ciclo epico (la serie del Metallo urlante) che è miscela di soprannaturale, romanzo storico e studio sulle origini del capitalsimo. Ancora: partendo dai poli opposti del giornalismo d'inchiesta e del 'teatro di poesia', Saviano e Babsi Jones hanno prodotto due 'oggetti narrativi non-identificati', Gomorra e Sappiano le mie parole di sangue. E infatti si trascina da due anni il dibattito di lana caprina sullo statuto di Gomorra: romanzo o reportage? Narrativa o giornalismo? Ovviamente, solo per falsa modestia non abbiamo ancora parlato di noi stessi, che pure, fin dall'esordio con Q, siamo 'New Italian Epic' dai metatarsi al telencefalo. Vengono in mente altre opere, scritte da Scurati, Guarnieri, Zaccuri, De Michele, Flavio Santi e tanti ancora, alcuni appen aesordienti e laggiù, in fondo, premono i posteri. Fermiamoci qui. In quasi tutti i libri presi in esame esiste, esplicita o implicita, una premessa 'ucronica', un interogativo su 'cosa sarebbe successo se'. Se per anni i media non si fossero occupati solo di mafia sicula ignorando la crescita della camorra; se Leopardi non fosse morto a Napoli nel 1937; se la Banda della Magliana avesse liberato Moro. 'Ipotesi controfattuali', le chiamano gli storici. Imboccarle come rampe di lancio consente di essere spregiudicati, prendere di petto la memoria collettiva, lavare in pubblcio i panni sporchi di questo Paese e non solo. Ecco, questo 'non solo' ci fa passare dal tempo allo spazio, dalla storia alla geografia: gli autori del NIE sono italiani, eppure non ancorano le loro storie al fondale nostrano, si sentono liberi, liberi di navigare e narrare il mondo. Il mondo li vede passare, come Nettuno ammirò l'ombra di Argo, e ne resta intrigato. Nella letteratura italiana sta accadendo qualcosa, l'Italia non deve far altro che accorgersene." (da Wu Ming, Lo scrittore si dà all'epica, "La Repubblica", 23/04/'08)

Il giorno perfetto alla Holden


"Che cos'è un giorno perfetto? Per Alessandro Baricco non vi sono dubbi: 'E' quello in cui speri di fare qualcosa che non può succedere tutti i giorni'. Partendo dalla suggestione di A Perfect Day for Bananafish, il primo racconto pubblicato sul "New Yorker" da Jerome David Salinger, il suo narratore culto, lo scrittore torinese ha ideato un personale 'Perfect Day' tra gioco, letteratura e divagazioni varie. In collaborazione con la Montblanc, si consumerà sabato prossimo, dalla mattina al pomeriggio, nei locali della Holden, la scuola di tecniche narrative che ha fondato. Vedrà di scena otto romanzieri italiani che spiegheranno e leggeranno brani dei loro libri prediletti a 135 persone. Queste ultime, dopo essere state selezionate tra oltre 500 scrivendo e inviando un breve testo sul loro giorno perfetto, hanno pagato 120 euro a testa per partecipare. Baricco ha scelto Un posto tranquillo illuminato bene, uno dei Quarantanove racconti di Hemingway, e Madame Bovary di Gustave Flaubert, 'due modelli, due grammatiche, del raccontare. Sandro Veronesi si è affidato al Vangelo di Marco, mentre Domenico Starnone ha scelto Jacques il fatalista di Diderot. Niccolò Ammaniti, poi, punta su un racconto di John R. Lansdale. Carlo Lucarelli si dedicherà a I 500 delitti di Giorgio Scerbanenco e a Prima di mezzanotte di Andrew Klavan, 'che costituiscono un piccolo corso di scrittura', e Antonio Scurati andrà sul sicuro con l'Iliade di Omero e L'educazione sentimentale di Flaubert. Melania Mazzucco parlerà di L'isola di Arturo di Elsa Morante, 'perché chi non è mai stato Arturo non sarà mai uno scrittore'. E Gianrico Carofiglio, infine, proporrà Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, in quanto coglie nel romanzo 'le qualità della vera letteratura come le aveva individuate Calvino nelle lezioni americane: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità'." (da Massimo Novelli, Il giorno perfetto alla Holden, "La Repubblica", 23/04/'08)

martedì 22 aprile 2008

Enciclopedia della parola. Dialoghi d'artista di Achille Bonito Oliva


"'Noi scriviamo delle commedie che non si assomigliano ... commedie in assoluto ... è impossibile che abbiamo scelto ... Orlando, ad esempio'. E' curioso che a lei piacciano sempre grandi scrittori che non sono labirintici. 'Bene Ariosto ... è un poco ... sì, però è un labirinto felice, è come un fiume con tanti meandri, non è un labirinto nel senso, diciamo, di Henry James o Kafka ... sono labirinti quelli di Piranesi, è vero, carceri ... dimensioni; però Ariosto è un'altra cosa, è un labirinto felice, nel senso di una selva, tutto il mondo è un labirinto. Una volta ho immaginato'. Ha immaginato che cosa? 'La cosa più impossibile, impossibile pronunciarla al sole ... credo che l'idea sia questa ... nell'ultimo viaggio, Dante è stato a Venezia, vero? Andiamo a supporre, se questo è supporre, che egli si sia proposto di scrivere un altro libro dopo la Commedia, che libro poteva proporsi ... che fosse un altro racconto ... salvo che non si sia proposto niente, perché la Commedia era tutto. Una bella storia ... c'era un soliloquio, un monologo di Dante: scriverò tale libro, non è necessario che lo scriva, perché immaginarlo sarebbe moltissimo, no? Dopo muore senza scriverlo, è un racconto impossibile, no? Perché uno si immagina, nel periodo d'oro della Commedia ... Però potrebbe essere un racconto fantastico, troppo fantastico ... e uno lo interpreta in diversi modi, tutti permessi dal testo. In generale, quando uno traduce, sceglie un'interpretazione e la accentua, però l'ambiguità, o l'oscurità, può essere una ricchezza, anche ... è così misteriosa la letteratura che non si sa cosa è chiaro e cosa è oscuro ... è un'arte tanto misteriosa, tanto difficile da realizzare.' Esiste una contraddizione tra la chiarezza e il labirinto? 'Sì, soltanto che il labirinto è stato ideato con chiarezza. Vuol dire che al labirinto, al caos, non si arriva col caos, si arriva col cosmo. S'intende che il labirinto ha un ordine segreto. E' disposto per l'ordine e per essere compreso ... può darsi'. Qual è il primo labirinto che ha visto in vita sua? 'Il primo l'ho visto su un'incisione; dopo sono stato a Cnossos, a Creta; poi a Hampton Court, che è un maze, diverso, è un labirinto un poco frivolo, un poco scherzoso; però tante volte il labirinto è un simbolo per la felicità ... e tu, e tu hai vissuto per questo, perché ci sentiamo smarriti nel mondo, e il simbolo evidente è essere smarriti nel labirinto ... e questa parola 'labirinto' è così bella!'. Cosa significa per lei la parola 'labirinto'? 'Suggerisce qualcosa di terribile. Anticamente si riferiva alle gallerie delle miniere, il labirinto ... E' curioso, in Chaucer nel XIV secolo, il 'labirinto' è un labirinto che si muove, fatto di giunchi, circolare, molto strano; e ho letto che il labirinto, Durer se lo immaginava girevole, ma Durer si era perso nel labirinto che gira, ma dal labirinto si entra e si esce rapidamente, una specie di circolo mobile, 'laborintus' scriviamo, che bella parola, inventa figure ... il Minotauro ...'. Secondo lei, i gironi dell'inferno possono essere considerati una specie di labirinto? 'Forse sì'. Il labirinto fino al Rinascimento era una struttura in cui si arrivava sempre al centro; dopo il Rinascimento, col manierismo, invece, il labirinto diventa il luogo della perdita, quindi esiste un labirinto che è più vicino alla nostra sensibilità e che comincia col manierismo e col barocco. 'Chesterton ha detto: "Noi siamo quello che noi tutti temiamo, un labirinto senza centro". Lui ha usato un'espressione di timore cosmico, no?'. Il suo labirinto, quello della sua letteratura, Borges, ha un centro o no? 'Sì, ha un centro, un racconto fantastico di significati senza spiegazioni; è un apparente labirinto, e dopo si vede che no, che è un cosmo, che c'è un ordine, che c'è una spiegazione ragionevole. Io non so perché ho usato tanto il 'labirinto'; mi ha richiamato tanto l'attenzione l'idea del labirinto, l'idea del Minotauro, da quando ero piccolo, e io non saprei spiegarmelo. Quell'ossessione è stata notata dai lettori, io non la conoscevo, la esercitavo o ero vittima sua, però non ho mai cercato di spiegarmela. Lo sa che io non ho mai letto niente scritto su di me, io non ho mai letto un libro scritto su di me, o perché m'interessava poco il tema, o perché mi interessava troppo. Si è scritta una biblioteca su di me, io non ho mai letto niente; a casa mia non ci sono neanche libri miei, ci sono degli autori, non i miei libri'. [...] Si può dire che nella sua letteratura ... 'Io conosco molto poco della letteratura, io la scrivo e la dimentico, voi la conoscete di più perché l'avete letta. Io l'ho letta per correggere le bozze, e ultimamente neanche, perché non potevo correggere le bozze. Io cerco tanto di dimenticare quello che ho scritto e di pensare a ciò che scriverò; credo che sia malsano guardare indietro. Franco Maria Ricci mi ha detto: "Pubblichiamo per non passare la vita a correggere i manoscritti". Se si pubblica un libro, ci si libera di lui; io pubblico un libro e non so se sia venduto, se sia tradotto, se ha avuto successo, se hanno scritto su di esso, se non hanno scritto. Io giudico attraverso i miei amici; se i miei amici non me ne parlano è perché non è loro piaciuto, e se me ne parlano sono molto generosi di particolari. Però molte volte se pubblico un libro, non dicono una parola; io capisco che non è loro piaciuto ... e cerco un altro tema. Non ho mai cercato di essere famoso. E' questione di generazioni; quando io ero giovane non si pensava al successo'." (da Achille Bonito Oliva, Jorge Luis Borges, perché amo il labirinto, "La Repubblica" 22/04/'08; dalla Prefazione in forma di dialogo sul labirinto dell'arte con Jorge Luis Borges)

lunedì 21 aprile 2008

Mauthausen. Storia di un lager di Giuseppe Mayda


"Che il lager di Mauthausen abbia rivestito un ruolo centrale nel sistema delle 'fabbriche della morte' naziste è ormai qualcosa di universalmente assodato. Meno scontata, invece è la percezione di come questo lager abbia pesato a lungo sulla storia del Novecento e in modo più ampio di quel che generalmente si supponga. A darne emblematica dimostrazione è una singolare vicenda che Giuseppe Mayda
va a raccontare nelle pagine finali del suo rilevante e documentato saggio Mauthausen. Storia di un lager. Mayda, per consentire di comprendere come quel lager abbia rappresentato il paradigma del sistema concentrazionario perfezionatosi nel corso degli anni dentro il cuore dell'Europa sino a sfociare nella pratica della 'soluzione finale' nazista, ricostruisce la vicenda del milanese Sante Romanoni, classe 1896, uno dei pochissimi che per due volte - nell'arco dei trent'anni più tribolati del ’900 - finisce a Mauthausen. La prima volta Romanoni, sergente del 37° Reggimento di fanteria, ci arriva, dopo la rotta di Caporetto, come prigioniero di guerra dell'Austria (Paese che poi rappresenterà l'8% della popolazione del III Reich ma fornirà oltre un terzo del personale direttivo dei lager nazisti). Romanoni nel 1917 sperimenta comunque cosa
sia la fame più atroce. A Mauthausen si sopravvive grazie agli aiuti della Croce Rossa. Questo non accade invece la seconda volta che Romanoni finisce a Mauthausen, nell'aprile 1944, assieme ad altri venti operai dell'Alfa Romeo, deportati perché hanno scioperato. Con Romanoni si salveranno solo altri quattro compagni di lavoro. Per Mauthausen è infatti il periodo atroce della mattanza che stermina oltre il sessanta per cento dei duecentomila deportati transitati oltre il lugubre portone ferrato che, scriverà uno dei sopravvissuti, 'aveva un sinistro aspetto mongolico e parlava il linguaggio di antiche età barbariche'. Mayda nel suo libro, pervaso da passione civile e pazientemente costruito su infinite tessere di memoria, fa rivivere ogni spicchio di questa 'cittadella della morte', sorta accanto alla piccola località di Mauthausen che da tempo prosperava attingendo alle cave di granito che erano servite a pavimentare con eleganza, nell'Ottocento, le vie centrali di Vienna. Con l'annessione dell'Austria il granito viene estratto dalla cava grazie al lavoro forzato dei deportati che cominciano a giungervi sin dal 1938: le pietre serviranno a costruire i grandiosi monumenti che Hitler vuole erigere a se stesso in trentadue città simbolo del Reich: tra queste Linz, a pochi chilometrida Mauthausen, dove ha trascorso l'infanzia e dove sogna di passare la vecchiaia. Mauthausen,da questo libro, emerge in tutte le sue sfaccettature e rivela l'articolata gamma di modalità che regge, con ritmo industriale, lo sterminio dei deportati. Alcuni giungono al lager già condannati - a loro insaputa - ad essere soppressi in giornata: le SS provvedono alle esecuzioni con finti incidenti che avvengono sotto gli occhi di tutti. Altri prigionieri invece, appena inabili al lavoro, sono mandati alla camera a gas o uccisi dal 'servizio medico' con iniezioni al cuore. I più, invece, sono eliminati sulla 'scala della morte': un susseguirsi di scalini a picco sul baratro che i deportati, portando grosse pietre, devono percorrere sino a quando precipitano. Tutto questo - e Mayda lo documenta minuziosamente - avviene sotto gli occhi di una popolazione civile che vive accanto al lager e, tranne pochissime eccezioni, finge di non vedere, di non sapere. Poiché nella cittadina di Mauthausen, paralizzata dall'orrore, anche la compassione è un crimine." (da Giorgio Boatti, Là dove anche la compassione era un crimine, "TuttoLibri", "La Stampa", 19/04/'08)

domenica 20 aprile 2008

L'età dell'innocenza di Edith Wharton


"Si tratta di un evento, seppur piccolo: la sospirata uscita di una nuova traduzione de L’età dell’innocenza (The Age of Innocence) di Edith Wharton che sostituisca quella, ormai invecchiata, colma di errori e di sciatte espressioni, che Longanesi ripropone da tempo immemorabile. Esce per le cure dell’anglista Alessandro Ceni dalla Bur con un’elegante copertina, che, a dispetto dell’uso corrente, non riproduce immagini tratte dall’omonimo film di Martin Scorsese. In apertura un saggio di Cynthia Griffin Wolff in cui si sottolineano soprattutto le date di composizione del romanzo (subito dopo la prima guerra mondiale) in relazione con l’ambientazione (a ridosso della guerra di Secessione) negli ultimi vent’anni dell’Ottocento. A dispetto delle apparenze, L’età dell’innocenza sarebbe un 'romanzo di guerra' e non d’amore: tutti scontano le conseguenze di una guerra metaforica, la necessità ineluttabile di maturare a discapito dei propri sogni. Il dissidio che consuma Newland Archer è non solo quello fra tradizione e libertà individuale (la moglie May e Madame Olenska), ma è anche la dialettica tra cultura europea e ingenuità americana, tra l’osservanza delle regole e il fascino mortale della bellezza, dell’arte, del caos. Questa nuova edizione italiana restituisce finalmente l’altezza perfetta della lingua di Edith Wharton, facendo percepire, più da vicino, il suo forte legame con un altro grande americano sedotto dall’Europa, Henry James. Ora speriamo che altrettanto venga fatto per La casa della gioia e Ethan Frome, che ancora attendono traduzioni degne di loro." (da Camilla Valletti, L'innocenza messa a nuovo, "TuttoLibri", "La Stampa", 19/04/'08)

Biblioteca civica "Mino Milani"


Biblioteca civica "Mino Milani" - Garlasco
20 aprile 2008

sabato 19 aprile 2008

Omaggio a Mino Milani per i suoi ottant'anni


Domenica 20 aprile alle ore 15 presso il Teatro Martinetti (Garlasco), omaggio allo scrittore Mino Milani per i suoi ottant'anni.
- Reading a cura di 'Vicolo del Teatro'.
- Spettacolo musicale a cura della scuola di musica dell’Associazione 'Amici della Musica Alberto Huskovich'.
- Interviste ai piccoli lettori, Nicole Merlin e Gianni Milani, a proposito della lettura dei libri di Mino Milani, Seduto nell'erba al buio e Un angelo, probabilmente.
Al termine della manifestazione, una sorpresa per Mino Milani ...

Zohar. Il libro dello splendore


"Tra gli innumerevoli segreti celati nello Zohar (Il libro dei segreti), uno dei testi più criptici del misticismo ebraico - scrive Giulio Busi, magnifico curatore del volume antologico pubblicato da Einaudi - il più inaccessibile è forse, quello della sua origine. Busi, oltre a essere uno dei maggiori ebraisti del mondo, ha il gusto del racconto. Le pagine della prefazione in cui descrive l'apparizione, come dal nulla, nella Spagna del Milleduecento, di questo libro davvero splendido, sembrano la traccia di un vero e proprio romanzo giallo, destinato a non aver soluzione, i cui protagonisti sono cabalisti e rabbini, accademici e maestri itineranti, amanuensi e furfanti. Infatti, i primi frammenti di di prosa zoharica apparvero in Castiglia nel 1281 e l'intera raccolta fu elaborata in una trentina d'anni: ma chi era l'Autore? Era un autore singolo, un sapiente il cui nome era stato cancellato dal tempo? Erano più sapienti, autori ciascuno di una singola parte, membri di una accademia segreta? Erano abili manipolatori di testi? Copisti di manoscritti a loro volta copiati da antichi manoscritti? Fortunati custodi di quelle preziose biblioteche che viaggiavano da una sponda all'altra del Mediterraneo e talvolta potevano servire a pagare un riscatto? Non lo sappiamo. da dove venga lo Zohar - nonostante la grande fortuna che ebbe nei secoli, non soltanto in ambiente ebraico, rimane un mistero. Di cosa parla Il libro dello splendore: questo libro sterminato che amarono Pico della Mirandola e Proust, e lascia il lettore moderno sbalordito per la fantasia inesauribile dei suoi racconti e la bellezza delle sue scenografie cosmiche? Questo libro da cui emana una trepida aria di lacrime e di estenuazioni? Nel quale vediamo dispute interminabili sulla Bibbia? E i rabbini che, al lume della candela, studiano tutta la notte? E viandanti notturni che si commuovono osservando le costellazioni, ascoltando il canto degli angeli? Nel quale, finalmente, sentiamo il medesimo profumo che si innalza dalle vecchie case di preghiera di Gerusalemme, o da quelle moderne di Brooklyn tanto ben descritte nei suoi romanzi da Chaim Potok? La Torah - dice lo Zohar - è stata creata migliaia di anni prima del mondo. Per la verità, sette sono le cose create prima del mondo: la Torah, l'Eden, la Geena, il Trono della Gloria, il Tempio, il nome del Messia, il pentimento. Dio creò l'universo, guardando la Torah. Dal mistero inconoscibile, scoccò una 'luce di nerezza' che si sparse ovunque, consolidandosi in dieci sefirot: e cioè le dieci manifestazioni della divinità del cosmo. Le emanazioni, dobbiamo immaginarle come un immenso albero, con immensi rami: l'albero della vita. La 'luce di nerezza' è il centro della speculazione mistica: significa che la luce e le tenebre sono legate indissolubilmente, sempre; che una scintilla di luce è nascosta in ogni frammento d'oscurità. E che la sapienza 'buona' si può trovare anche in quella 'cattiva': come nella magia, ad esempio. Nel mondo in cui viviamo, l'oscurità prevale. In quello a venire, ci sarà soltanto al luce; e, dopo la resurrezione dei morti, delle cose che vediamo non resterà nulla: neppure un capello. [...]" (da Giorgio Montefoschi, Dio, l'uomo, il cosmo: immagini e profezie svelate nello 'Zohar', "Corriere della Sera", 19/04/'08)

venerdì 18 aprile 2008

L'amore necessario di Nadia Fusini


"E' nelle pause del tempo e dello spazio che sgorgano più limpide le parole dell'anima, chiunque ne ha fatto esperienza. In volo, in viaggio, in attesa. In luoghi anonimi che ci rendono anonimi, tra sguardi che non vedono. E' lì che in segreto e quasi sempre senza preavviso si chiarisce all'improvviso un rovello, sei parole bastano per dire quello che giorni e notti di pensieri non hanno saputo ordinare, è così che trovano un posto le persone e le cose che sempre ci accompagnano in assenza: ciascuno il suo posto. Non dura mai: è un attimo, a volte un lungo attimo. Quando il viaggio finisce, l'attesa si interrompe, quando la terra torna sotto i piedi o la voce di un altoparlante ci chiama per nome, la meraviglia di quel discorso chiaro, terso, definitivo e lampante scompare. Come uno di quei sogni che confusamente si ricordano ma non si sanno ripetere: non più con le stesse parole, né i colori, né i suoni perché erano quelli - proprio quelli - afferrati un istante e svaniti. Sono monologhi rivolti a qualcuno, sempre: lettere magnifiche mai scritte, confessioni a un padre a un figlio a un amante, testamenti morali, dichiarazioni d'amore che non lasciano scampo al disamore perché è lì e solo lì - in quella sospensione e nell'incanto - che amore a nullo amato amar perdona. E perché non c'è niente che si possa dire se non a qualcuno, non c'è vita senza testimoni; non esistiamo che negli altri, nella reciproca capacità di sentirsi e di accogliersi. E' questa la ragione per cui la lunga lettera di Nadia Fusini, (L'amore necessario, Mondadori) la lettera di una donna a un uomo, ci raggiunge come un segreto che credevamo solo nostro e ci disarma, ci emoziona e ci consola. E' lì, dunque. Era possibile scriverla. Eccola, non è rimasta tra le nuvole di un volo transoceanico né in quelle parole sconnesse appuntate sul retro di un depliant. E' scritta, finalmente: è tutta, è lei. E' un flusso ininterrotto di parole che non si può abbandonare se non alla fine, è un sollievo e un pericolo tenerla fra le mani, è un incontro che non conosce pudicizia né timore: l'unico possibile, così semplice, così evidente. Un altro modo di parlare: di Nadia Fusini si conoscono gli studi sul teatro elisabettiano e su Shakespeare, le lezioni universitarie di letteratura inglese, le traduzioni di Keats e di Virginia Woolf, i lavori sull'identità femminile. In questo 'amore necessario' non c'è traccia di riferimento colto né vanto da erudita: il lessico è diretto, piano, universale come il discorso che fluisce. Elementare, viene da dire. 'E' proprio quello che ho cercato di fare - dice l'autrice - volevo arrivare a un faccia a faccia con le verità profonde e sapevo di aver bisogno di una lingua semplice e viva. Quando scrivi di altro, di altri sei protetto dal sapere e dalla conoscenza. Esponi un'opinione, riferisci contenuti. Quando vuoi arrivare ad un centro emotivo non puoi farlo ragionando: bisogna che le parole vengano dall'inconscio, o meglio bisogna ritrovarle come quelle imprendibili che sgorgano da lì. Depurarle, scarnificarle. Ci ho lavorato moltissimo, l'ho scritta e l'ho riscritta mille volte questa lettera e che appaia uscita di getto così, come un fiotto, è esattamente l'acrobazia che mi ero ripromessa. Un uso creativo delal lingua, una sfida: d'altra parte davvero la vita emotiva non si afferra con gli strumenti del sapere. Non avrei potuto parlare d'amore in un saggio'. E parlare d'amore, aggiunge, è necessario, sì: 'Un esercizio etico, perché la relazione d'amore ti mette in contatto con te stesso e con l'altro. E' l'incontro etico fondamentale'. Una donna seduta in un bar semideserto di un aeroporto. Sola, le luci al neon impersonali e cattive. 'E' curioso coem un luogo estraneo può poratrci dentro di noi così nel profondo - inizia il libro - al centro di pensieri che non riusciamo a formulare quando ci aggiriamo in spazi familiari. Mi sento sola e penso che lo sono perché tu non mi tieni, questa libertà non è che il vuoto della tua presenza, un fatto negativo in fondo, un'assenza in cui tu mi spingi'. La prima pagina del romanzo è una foto: uan donna che scrive a un tavolino. Anche l'ultima lo è: un uomo che legge in piedi davanti a una finestra come in un quadro di Vermeer. Due solitudini tenute insieme dal filo di un discorso, dalle parole scritte. Un destinatario e un mittente, una sola lettera: la presenza, la distanza, l'assenza, la forza del pensiero. Sono davvero partita da un'immagine reale. Ho visto in un aeroporto una donna che scriveva qualcosa in un quaderno. Sono rimasta impressionata dalla sua enorme concentrazione dentro quello spazio anonimo. Ho pensato: non può che essere una lettera d'amore. [...] Tanti poeti e scrittori hanno detto dell'amore. E' alle donne però che nei secoli sembra essere stato affidato il compito di avere cura di questo territorio: Socrate lo dice, dobbiamo chiedere a Diotima. Poi certo ogni esperienza si declina in modo singolare, individuale. Però c'è qualcosa nelle donne che ha a che vedere con la coscienza dell'amore: lo riconoscono, lo portano e lo rivelano coem una evidenza della realtà. Con un più diretto contatto, si direbbe. Come qualcosa che riguarda l'essenza stessa della vita, e della vita morale'. [...] Le cose più importanti accadono senza che lo si voglia, quel che si desidera non può che esserci donato. Non serve chiedere, non serve cercare: amore si genera nel coraggio di viverlo e di nominarlo. Nel coraggio di scriverlo, dunque. L'uomo, nell'ultima pagina del libro, legge questa lettera così 'sincera, addirittura sfrontata'. Annaspa, si sente soffocare, boccheggia. Interrompe di frequente la lettura. Non sa se 'potrà farsene qualcosa di un cuore nudo'. E' una lettera pericolosa. Una rete che lo imprigiona, un canto che lo ammalia. Ha paura, non può smettere però. 'E' uno spogliarello dell'anima', dice Fusini ridendo. [...]" (da Concita De Gregorio, Un cuore messo a nudo, "La Repubblica", 18/04/'08)

Darwin online


"'Sono rimasto estremamente colpito da circa un mese di osservazione del carattere dei fossili Sudamericani, e delle specie animali dell'arcipelago delle Galapagos. Da questi fatti, e specialmente dal secondo, derivano tutte le mie idee'. Così scriveva, prendendo furiosamente appunti su un taccuino di pelle, Charles Robert Darwin, nel luglio del 1838, tre anni dopo essere tornato in Inghilterra dal viaggio intorno al mondo che avrebbe cambiato la sua vita, e anche la percezione universale dell'evoluzione umana. Quel foglietto di carta ingiallito dal tempo, su cui scorre la calligrafia quasi illeggibile di uno dei più grandi scienziati della storia, è ora a portata di mano di chiunque abbia un computer e una connessione a internet. La Cambridge University Library, che nel 1942, sessant'anni esatti dopo la morte di Darwin, ricevette dai suoi eredi l'archivio personale dell'autore di Le origini della specie, ha messo infatti da ieri sul web l'intera documentazione, vale a dire oltre 20 mila libri, manoscritti, lettere, taccuini e circa 90 mila immagini, schizzi, fotografie, disegni. 'Fino ad oggi questi materiali erano stati esaminati soltanto da accademici e studiosi nelle sale chiuse al pubblico della nostra biblioteca', spiega John van Wyhe, direttore di "Darwin Online", come si chiama l'iniziativa. 'D'ora in poi invece saranno a disposizione di tutti, gratis, su Internet. Darwin ha cambiato per sempre la nostra percezione della natura, e le sue carte dimostrano come immensamente dettagliate fossero le sue ricerche. Diffonderle in questo modo segna una rivoluzione nell'accesso a una delle più importanti collezioni nella storia della scienza". E rappresenta pure un'altra prova, se ce ne fosse ancora bisogno, del potenziale e del valore della rete che ci mette in comunicazione con tutto e con tutti.

Chiaramente suddivisa per argomenti e cronologia sul sito "Darwin Online", la collezione Darwin include le prime stesure manoscritte della teoria dell'evoluzione, appunti sul viaggio della Beagle, la nave su cui il naturalista, appena ventiduenne, viaggiò per cinque anni dall'Inghilterra all'America Latina fermandosi alle isole Galapagos, i suoi dubbi religiosi, la sua meraviglia davanti alle tartarughe giganti, agli iguana e ad altri animali fino a quel momento sconosciuti, ma anche tutto quanto Darwin raccolse nel corso della sua esistenza, libri, articoli di giornali, recensioni delle sue opere, il diario dei suoi anni giovanili con le prime osservazioni ornitologiche, il primo disegno del cosiddetto 'albero della vita', oltre alla sua numerosa corrispondenza privata. Altri materiali fanno luce sulla vita della sua famiglia, cioè di una tipica famiglia intellettuale e altolocata dell'epoca vittoriana, compreso il libro di ricette di sua moglie Emma e anche una guida, scritta da Darwin medesimo, su come si cucina il riso, quasi si trattasse di un complicato esperimento scientifico: 'To cook rice. Add salt to the water and when boiling stir in the rice' ('Per cucinare il riso. Aggiungere sale all'acqua e gettare il riso quando bolle'), comincia la dettagliata spiegazione. Leggendola, è come trovarsi in cucina con lui, e scoprire che per Darwin tutto era appassionante, misterioso, degno di essere studiato, analizzato, osservato: perfino una banalissima pentola d'acqua che bolle sul fuoco. Le carte coprono tutta la vita di Darwin, dai momenti salienti, come la pubblicazione del suo libro L'origine della specie nel 1858, che andò esaurita in un giorno e fece istantaneamente di lui uno scienziata di fama mondiale, alle polemiche sulla fede e con la religione, che lo accompagnarono fino alla morte, nel 1882, quando ricevette un funerale di stato nella cattedrale di Westminster, dove fu sepolto, accanto alla tomba dell'altro grande scienziato britannico, Newton.
C'è anche, nell'archivio dei suoi documenti online, un curioso memorandum sul matrimonio, che Darwin vergò, forse con intento vagamente umoristico, nel 1838, quando aveva 29 anni ed era ancora scapolo: 'Ragioni per non sposarsi. Libertà di andare dove si vuole, conversazione con uomini intelligenti al club, nessun obbligo di visitare i parenti della sposa, niente spese e preoccupazioni per i figli, niente bisticci familiari, niente perdite di tempo, niente ansie e responsabilità, puoi leggere la sera quanto vuoi, puoi spendere tutti i soldi che vuoi per i libri'. Il club per gentiluomini in cui preferiva fare conversazione, piuttosto che stare a casa con una consorte, era il celebre "Atheneum", nel centro di Londra, dove a tutt'oggi è conservata, identificata da una targhetta, la poltrona su cui sedeva Darwin. Ma gli argomenti in favore del matrimonio, alla fine, prevalsero sui piaceri della conversazione tra uomini e del celibato: 'Figli, compagnia costante, un'amica per la vecchiaia. Comunque sia, meglio di un cane'. Non proprio un gran complimento alle donne: ma l'anno seguente lo scienziato si sposò, e dalla moglie Emma, una sua lontana cugina, ebbe ben dieci figli (tre morirono in tenera età), che lo appassionarono, si può dire, non meno degli iguana, come testimoniano gli appunti ora finiti su internet. Dopo la nascita di William Erasmus, suo primogenito, il 27 dicembre 1839, per esempio lo studioso scriveva, evidentemente compiaciuto: 'Durante la prima settimana, sbadiglia, si stiracchia esattamente come farebbe un vecchio signore, ha il singhiozzo, starnutisce rumorosamente'. L'evoluzione della specie, in questo caso della specie personale e privata di Charles Robert Darwin, da quel momento era garantita. E lui lo annotava coscienziosamente sul suo taccuino." (da Enrico Franceschini, L'evoluzione è per tutti. Darwin a portata di click, "La Repubblica", 18/04/'08)